Susanna Camusso |
I lavoratori di Mirafiori, tra un paio di settimane, dovranno votare in un referendum sull’accordo con la FIAT per il rilancio dello stabilimento, che la FIOM CGIL non ha firmato. Che cosa dice loro il segretario generale della CGIL? «Che sono consapevole che hanno di fronte una scelta difficile, perché il referendum è stato presentato in definitiva come una scelta per il posto di lavoro - risponde Susanna Camusso - ma, pur rispettando questo travaglio, credo che sia giusto ribadire che l’accordo è sbagliato e che si possa quindi votare no».
Farete campagna in questo senso? «I delegati della FIOM la stanno già facendo. Spiegando che, per esempio, l’accordo tocca materie indisponibili, come il diritto di sciopero o l’esclusione dalla fabbrica di un sindacato, la FIOM».
Se lei è per impegnarsi nel voto, di conseguenza è pronta anche ad accettarne il risultato. «L’ho già detto, anche alla FIOM. Se si è teorizzato che il referendum è sempre lo strumento di accertamento della volontà dei lavoratori, allora bisognerà prendere atto del risultato anche questa volta, facendo però delle scelte».
Che significa in caso di vittoria del sì? «Che si può accettare il risultato per quanto riguarda tutte le materie contrattuali dell’accordo, ma non per quelle che sono appunto indisponibili».
E come si fa? La FIOM dovrebbe dire: riconosco il risultato, ma con riserva? Solo per le parti che mi stanno bene e non per le altre? Un po’ complicato. «La soluzione tecnica si vedrà al momento opportuno, anche perché il vero elemento di complicazione lo hanno introdotto i firmatari dell’accordo con una clausola senza precedenti, scritta nella prima pagina dell’intesa».
Quale? «Quella che dice che un sindacato che vuole aderire successivamente all’intesa può farlo solo se tutti gli altri firmatari, azienda e organizzazioni sindacali, sono d’accordo».
Insomma ci vuole il consenso unanime per rendere possibile il rientro della FIOM in fabbrica? «Esatto. E se questa sia una clausola rispettosa degli altri sindacati, di quelli che dissentono, mi piacerebbe tanto chiederlo innanzitutto alla FIAT».
Perché non telefona all’amministratore delegato, Sergio Marchionne? «A parte che questo si può sempre fare, continuo a chiedermi che concetto di democrazia ci sia dietro le decisioni di escludere un sindacato rappresentativo come la FIOM e di non permettere più ai lavoratori di eleggere i loro delegati, che invece verranno designati dall’alto dai sindacati firmatari dell’accordo. Insomma, bisognerebbe parlare non degli errori della FIOM, ma delle scelte della FIAT e di un Ministro del Lavoro, Sacconi, complice dell’impresa, anziché arbitro».
Non crede che il modello Marchionne, centrato sul contratto aziendale che prende il posto di quello di categoria, rappresenti la soluzione migliore per la produttività e i salari? «No, rappresenta una privazione rispetto agli attuali due livelli di contrattazione, nazionale e integrativo. E non va bene per un sistema produttivo frammentato e articolato come il nostro, dove le grandi imprese sono appena 1.800».
Per la FIOM, Giorgio Cremaschi, ha dato del «fascista» a Marchionne e il Segretario, Maurizio Landini, ha parlato di «operai schiavi». È d’accordo? «No. Bisogna sempre usare le parole giuste. Io che sono molto preoccupata della vera schiavitù del lavoro, quella che abbiamo visto a Rosarno, non uso questo termine per la FIAT. Così come, se definisco illiberali le norme che tengono fuori dall’azienda la FIOM, non accuso di fascismo Marchionne. La FIOM a volte esagera nell’interpretare se stessa come avanguardia. E invece non dobbiamo mai dimenticare che siamo prima di tutto un sindacato e che quindi non possiamo esorcizzare le paure dei lavoratori semplicemente lanciando la palla più avanti. Dobbiamo invece trovare delle soluzioni per restare vicini a questi stessi lavoratori e fornire delle risposte concrete ai loro problemi».
Ecco perché lei auspica il rientro della FIOM in FIAT attraverso una presa d’atto di quello che sarà il risultato del referendum? «Continuo a pensare che sia preferibile restare dentro la fabbrica e, a partire dalle proprie posizioni, provare a cambiare le cose piuttosto che subire un disegno di esclusione ai danni della FIOM».
Che invece ha già deciso, con una mozione approvata dal Comitato Centrale, una linea completamente diversa: cioè che il referendum è illegittimo e che quindi non ne riconoscerà il risultato. Le sue sono allora parole al vento? «Nella FIOM c’è una discussione aperta. Il tema è come uscire da questa situazione: alla FIAT c’è stata una sconfitta e si impone una riflessione anche su cosa debba fare il sindacato. Io propongo una strada diversa da quella che per ora ha scelto la maggioranza della FIOM e mi auguro che alla fine cambino idea».
La sua è poco più che una speranza. Ma perché, si chiedono in molti, la CGIL non ha il coraggio di andare fino in fondo con i ribelli della FIOM? Visto che da tanti anni sono su una linea diversa, più vicina a quella dei Cobas, una scissione non farebbe chiarezza, lasciando la CGIL libera dal pesante condizionamento di Cremaschi e compagni? «No, non è questo il tema. Non è vero che con la FIOM ci sia un dissenso radicale di linea. E, restando alla vicenda FIAT, sul giudizio negativo dell’intesa siamo d’accordo. La CGIL poi è sempre stata un’organizzazione plurale e per nessuno sarebbe un successo se la dialettica interna si traducesse nell’uscita di una parte dall’organizzazione. Non abbiamo certo bisogno di essere presi dalla frenesia scissionista che tanti guai ha causato alla sinistra politica».
Lo storico Giuseppe Berta, in un articolo sul Sole 24ore, ha ricordato che nel ’ 98 la CGIL, per normalizzare la FIOM, mandò alla sua guida un riformista come Fausto Vigevani. «Era una situazione completamente diversa e oggi il problema non è il gruppo dirigente della FIOM, ma trovare una risposta per non lasciare soli gli iscritti e i delegati del nostro sindacato e i lavoratori che simpatizzano con noi».
Teme che il modello Marchionne si estenda lasciando fuori la FIOM da molte fabbriche? «Spero che, nonostante tanti anni di berlusconismo, i termini rappresentanza e democrazia conservino un significato anche per i nostri interlocutori».
Con i quali era partita una trattativa sul «Patto per la crescita» di cui si sono perse le tracce. «Abbiamo raggiunto delle prime intese ma adesso, dopo quello che è successo con la FIAT, è evidente che per noi è un po’ complicato fare un confronto con qualcuno che pensa che la CGIL debba sparire. Vogliamo insomma capire di questo disegno che cosa ne pensano Confindustria e CISL e UIL. Ho apprezzato il leader della CISL, Raffaele Bonanni, quando ha detto che a lui non piacevano alcuni contenuti dell’accordo con Marchionne, ma che è stato costretto a firmare. Apprezzo, ma vorrei chiedergli se non poteva almeno evitare che si cancellasse il diritto dei lavoratori di eleggere i loro delegati sindacali. È evidente che adesso la priorità è diventata quella delle regole sulla rappresentanza».
Lei ha proposto di aprire su questo un tavolo. CISL e UIL, però, le rimproverano di aver rimesso in discussione l’intesa che avevate trovato nel 2008, perché ora lei vorrebbe una maggioranza qualificata, anziché del 51%, per accettare accordi e contratti validi per tutti. Così, però, si consegnerebbe il diritto di veto alla FIOM. «Nel 2008 la piattaforma comune era frutto di una stagione di unità nella quale nessuno immaginava accordi separati. Oggi credo che fermarsi al 51% significherebbe per i sindacati sancire in molti casi la divisione tra i lavoratori. Meglio allora, in questi casi, fare una verifica tra gli stessi lavoratori prima di firmare un accordo. Cosa che non sarebbe necessaria, invece, in caso di maggioranze più ampie tra le organizzazioni. Capisco che la mia proposta sia stata interpretata come una mossa 'pro' FIOM, ma vorrei osservare che in molte situazioni al 51% arriverebbe da sola la CGIL e dunque la mia idea muove da un’altra preoccupazione: allargare il consenso attorno a decisioni che riguardano tutti i lavoratori».
Lei ha apprezzato il discorso del presidente della Repubblica centrato sui giovani. Molti però si interrogano sulla reale consistenza e durata del movimento giovanile, pure sostenuto dalla CGIL. «Se il movimento reggerà, in assenza della politica, è difficile dirlo. Ma il tema vero è un altro: possiamo permetterci un Paese dove due generazioni pensano ormai di non avere un futuro? O alle quali si continua a dire "fate i lavoretti"? Quelli li facevamo anche noi, che però avevamo una prospettiva. Ecco perché la CGIL continuerà ad avere tra le sue priorità la richiesta di un Piano per il lavoro che metta l’occupazione al centro della politica. Perché l’unico futuro possibile non resti quello del passaggio da una precarietà all’altra».
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