di LINO BUSCEMI
Qual è, dunque, l´antefatto che portò alla tragedia di Murazzu Ruttu? Tutto cominciò il 16 giugno 1945, allorché Antonio Canepa giunse alle sei del mattino in località Bolo, nella casa del farmacista Schifani di Cesarò. Lo accompagnava un drappello di giovani studenti universitari catanesi: Carmelo Rosano (22 anni), Giuseppe Amato detto Pippo (21 anni), Antonio Velis (21), Armando Romano detto Nando (21), Giuseppe Lo Giudice (il più giovane del gruppo, studente liceale di appena 18 anni). Duplice lo scopo della visita: si doveva prelevare un motocarro Guzzi e poi effettuare un´azione persuasiva nei confronti dell´allora sindaco di Cesarò, dottor Samperi, ostile agli indipendentisti. Il gruppetto, stanco, si addormentò e il sindaco ne approfittò per cambiare aria.L´indomani, 17 giugno (erano quasi le 8) si diressero verso Francavilla per andare a recuperare armi, nascoste nella proprietà della duchessa zia di Canepa. Pippo Amato (uno dei superstiti, deceduto a fine anni Novanta), si mise alla guida dell´autocarro, dove nel cassone vi erano le armi di scorta. Descrisse così i fatti: «Al bivio per Randazzo, scorgemmo tre carabinieri (maresciallo Salvatore Rizzotto di 54 anni, vice brigadiere Rosario Cicciò di 48 anni, carabiniere Carmelo Calabrese di 40 anni, ndr.), almeno tanti ne vedemmo. Pensai di rallentare, dando l´impressione di voler fermare. Superando il posto di blocco avrei ridato tutto il gas, in maniera da poter guadagnare la curva a destra per prendere le armi (ed aver facile ragione dei militi. Per quanto veloce fosse stata la manovra, uno dei militari ebbe il tempo di sparare un colpo alle ruote. Canepa gridava gesticolando: perché sparate? Che motivo c´è di sparare? A questo punto dietro di me si cominciò a sparare. Chi avesse cominciato - scrive Amato - non saprei dirlo. Il motocarro partì a razzo e raggiunse subito la curva. Allora mi voltai. Il sangue mi si gelò! Nel cassone, lunghi distesi, c´erano solo Canepa e Carmelo Rosano e gli altri non c´erano più. Rosano con un filo di voce, mi disse: portaci all´ospedale».
Di ben altro tenore, il rapporto stilato dalla Prefettura di Catania. Quando i carabinieri videro che il motocarro accelerò, uno di loro «esplose un colpo di moschetto in aria a scopo di intimidazione ed il motociclo si fermò». Gli evisti non si mossero, ma uno di loro «sorridendo faceva vedere un pugno di biglietti da mille ammiccando. Il maresciallo Rizzotto, ordinò ai militari di non sparare, ma non aveva fatto in tempo a dirlo che un colpo, sparato da una delle persone a bordo lo feriva, mentre altri colpi, una decina circa, partivano dal motomezzo, attingendo gli altri due carabinieri. Il professor Canepa fu colpito alla coscia sinistra con il conseguente scoppio di una bomba che lo stesso deteneva, evidentemente in tasca. Intanto il motofurgone si fermava e il conducente e l´altro giovane si dileguarono». Nel resoconto prefettizio non c´è alcun accenno a Pippo Amato e al fatto che questi avesse trasportato con il Guzzi i feriti in paese. L´avvocato Michele Papa, separatista di sinistra, negò che ci fosse stata una "soffiata" ai carabinieri. Ed ancora che «non ci fu nessun agguato della destra separatista per liberarsi del comunista Canepa e non tutti quelli del Mis lo piansero». Papa ipotizza, però, un agguato dei carabinieri e si spiega così il massacro. Per Sandro Attanasio autore del volume "Gli anni della rabbia" (editore Mursia), i movimenti di Canepa e dei suoi giovani compagni erano sotto controllo delle forze di polizia, il servizio predisposto dai carabinieri doveva portare alla loro cattura e non alla loro uccisione. L´avvocato Nino Varvaro, esponente di spicco del Mis nel 1971, davanti alla Commissione antimafia riferì che Canepa morì «in un agguato non occasionale, ma combinato quasi certamente dagli stessi indipendentisti di destra; lui, infatti, aveva pubblicato un volumetto, La Sicilia ai siciliani, e aveva detto: «Quando faremo la repubblica sociale in Sicilia i feudatari ci dovranno dare le loro terre se non vorranno darci le loro teste; e quella frase gli costò la vita». Una ridda di supposizioni e versioni più o meno attendibili. Insomma, un guazzabuglio. Persino i processi si conclusero con sentenze superficiali e sbrigative.Con i feriti a bordo, Pippo Amato decide di recarsi verso l´ospedale di Randazzo. Arrivato in paese affidò i suoi compagni ad alcune persone e si allontanò di corsa. Che fine fecero Lo Giudice, Velis e Armando Romano? Il primo morì quasi subito. Nino Velis, si dileguò nella campagna non prima diaver visto Canepa che sparava contro una mitragliatrice nascosta dietro un muro. Velis, illeso, si salvò e, come afferma Amato, «questa è una colpa che si porterà dietro tutta la vita, come me del resto». Armando Romano, ferito, fu trasportato sopra un mulo all´ospedale di Randazzo dove intanto si spensero, dissanguati, Canepa e il suo vice Carmelo Rosano, privi di assistenza medica. Piantonato, perché in stato di arresto, il Romano accusava grossi problemi al femore e svenne. A questo punto, suo malgrado, diventa involontario attore di un episodio che oscilla tra la farsa e ilgrottesco. I carabinieri, mostrano fretta. Intendono sbarazzarsi al più presto dei cadaveri di Canepa, Rosano e Lo Giudice. Nell´impellenza di compiere la traslazione delle salme, commettono una grave scorrettezza. In gran segreto, all´alba del lunedì 18 giugno 1945, Nando Romano, in stato diincoscienza «venne prelevato e trasportato con un camion militare, scortato, su una barella, assieme ai cadaveri dei suoi compagni al cimitero di Giarre, per essere seppelliti». Il giudice Salvatore Riggio Scaduto, sulla rivista dei Lions Club di Caltanissetta, sostenne che i defunti vennero, invece, sistemati in tre bare e nella quarta fu collocato, assopito, il Romano. Giunti a Giarre, i militari imposero al custode del cimitero, Isidoro Privitera, di chiudere i cancelli mentre venivano depositate le casse (o barelle). Il custode eccepì che mancavano i certificati di morte. I carabinieri si giustificarono dicendo che «si trattava di banditi morti in conflitto» da seppellire subito. Il Privitera, tergiversò e insistette almeno perché gli declinassero i nomi degli sfortunati. Fu in questo frangente che si accorse, per puro caso, che uno dei quattro non era morto ed anzi respirava e lo seguiva conlo sguardo. Il custode «credendo ad un fenomeno di rinvenimento da morte apparente», mise in salvo il "morto vivo" Romano, evitandogli di essere calato nella tomba. Oggi questi è un anziano signore di 84 anni che abita in un piccolo capoluogo di provincia. L´incredibile caso del vivo dato per morto, nel 1969, ad iniziativa del regista Giuseppe Ferrara, fu raccontato nel film "Il sasso in bocca". Chi ordinò il suo (e quello degli altri) frettoloso trasferimento nel lontano cimitero di Giarre anziché in quello locale di Randazzo? Per Romano, passato lo spavento, si aprirono le porte del carcere. Subì un processo, fu condannato e poi amnistiato. Preferì lasciare la Sicilia e si arruolò nella Legione straniera. Dopo alcuni anni rientrò in Italia e prestò servizio presso un ente regionale. Rimase sempre fedele all´ideale separatista. Oggi è un anziano pensionato che ha "rimosso" i fatti che lo coinvolsero. Preferisce, in coerenza con il suo conosciuto lungo silenzio, non parlare con nessuno. La strage di Randazzo segna, per l´indipendentismo siciliano, l´inizio del declino che si sarebbe concluso due anni dopo. Nel 1955, calmatesi le acque, i corpi di Canepa, Rosano e Lo Giudice sono stati trasferiti nel cimitero di Catania. A Murazzu Ruttu, i separatisti hanno eretto un cippo in memoria di coloro che «caddero per la Sicilia vittime del puro ideale di patria».
Di ben altro tenore, il rapporto stilato dalla Prefettura di Catania. Quando i carabinieri videro che il motocarro accelerò, uno di loro «esplose un colpo di moschetto in aria a scopo di intimidazione ed il motociclo si fermò». Gli evisti non si mossero, ma uno di loro «sorridendo faceva vedere un pugno di biglietti da mille ammiccando. Il maresciallo Rizzotto, ordinò ai militari di non sparare, ma non aveva fatto in tempo a dirlo che un colpo, sparato da una delle persone a bordo lo feriva, mentre altri colpi, una decina circa, partivano dal motomezzo, attingendo gli altri due carabinieri. Il professor Canepa fu colpito alla coscia sinistra con il conseguente scoppio di una bomba che lo stesso deteneva, evidentemente in tasca. Intanto il motofurgone si fermava e il conducente e l´altro giovane si dileguarono». Nel resoconto prefettizio non c´è alcun accenno a Pippo Amato e al fatto che questi avesse trasportato con il Guzzi i feriti in paese. L´avvocato Michele Papa, separatista di sinistra, negò che ci fosse stata una "soffiata" ai carabinieri. Ed ancora che «non ci fu nessun agguato della destra separatista per liberarsi del comunista Canepa e non tutti quelli del Mis lo piansero». Papa ipotizza, però, un agguato dei carabinieri e si spiega così il massacro. Per Sandro Attanasio autore del volume "Gli anni della rabbia" (editore Mursia), i movimenti di Canepa e dei suoi giovani compagni erano sotto controllo delle forze di polizia, il servizio predisposto dai carabinieri doveva portare alla loro cattura e non alla loro uccisione. L´avvocato Nino Varvaro, esponente di spicco del Mis nel 1971, davanti alla Commissione antimafia riferì che Canepa morì «in un agguato non occasionale, ma combinato quasi certamente dagli stessi indipendentisti di destra; lui, infatti, aveva pubblicato un volumetto, La Sicilia ai siciliani, e aveva detto: «Quando faremo la repubblica sociale in Sicilia i feudatari ci dovranno dare le loro terre se non vorranno darci le loro teste; e quella frase gli costò la vita». Una ridda di supposizioni e versioni più o meno attendibili. Insomma, un guazzabuglio. Persino i processi si conclusero con sentenze superficiali e sbrigative.Con i feriti a bordo, Pippo Amato decide di recarsi verso l´ospedale di Randazzo. Arrivato in paese affidò i suoi compagni ad alcune persone e si allontanò di corsa. Che fine fecero Lo Giudice, Velis e Armando Romano? Il primo morì quasi subito. Nino Velis, si dileguò nella campagna non prima diaver visto Canepa che sparava contro una mitragliatrice nascosta dietro un muro. Velis, illeso, si salvò e, come afferma Amato, «questa è una colpa che si porterà dietro tutta la vita, come me del resto». Armando Romano, ferito, fu trasportato sopra un mulo all´ospedale di Randazzo dove intanto si spensero, dissanguati, Canepa e il suo vice Carmelo Rosano, privi di assistenza medica. Piantonato, perché in stato di arresto, il Romano accusava grossi problemi al femore e svenne. A questo punto, suo malgrado, diventa involontario attore di un episodio che oscilla tra la farsa e ilgrottesco. I carabinieri, mostrano fretta. Intendono sbarazzarsi al più presto dei cadaveri di Canepa, Rosano e Lo Giudice. Nell´impellenza di compiere la traslazione delle salme, commettono una grave scorrettezza. In gran segreto, all´alba del lunedì 18 giugno 1945, Nando Romano, in stato diincoscienza «venne prelevato e trasportato con un camion militare, scortato, su una barella, assieme ai cadaveri dei suoi compagni al cimitero di Giarre, per essere seppelliti». Il giudice Salvatore Riggio Scaduto, sulla rivista dei Lions Club di Caltanissetta, sostenne che i defunti vennero, invece, sistemati in tre bare e nella quarta fu collocato, assopito, il Romano. Giunti a Giarre, i militari imposero al custode del cimitero, Isidoro Privitera, di chiudere i cancelli mentre venivano depositate le casse (o barelle). Il custode eccepì che mancavano i certificati di morte. I carabinieri si giustificarono dicendo che «si trattava di banditi morti in conflitto» da seppellire subito. Il Privitera, tergiversò e insistette almeno perché gli declinassero i nomi degli sfortunati. Fu in questo frangente che si accorse, per puro caso, che uno dei quattro non era morto ed anzi respirava e lo seguiva conlo sguardo. Il custode «credendo ad un fenomeno di rinvenimento da morte apparente», mise in salvo il "morto vivo" Romano, evitandogli di essere calato nella tomba. Oggi questi è un anziano signore di 84 anni che abita in un piccolo capoluogo di provincia. L´incredibile caso del vivo dato per morto, nel 1969, ad iniziativa del regista Giuseppe Ferrara, fu raccontato nel film "Il sasso in bocca". Chi ordinò il suo (e quello degli altri) frettoloso trasferimento nel lontano cimitero di Giarre anziché in quello locale di Randazzo? Per Romano, passato lo spavento, si aprirono le porte del carcere. Subì un processo, fu condannato e poi amnistiato. Preferì lasciare la Sicilia e si arruolò nella Legione straniera. Dopo alcuni anni rientrò in Italia e prestò servizio presso un ente regionale. Rimase sempre fedele all´ideale separatista. Oggi è un anziano pensionato che ha "rimosso" i fatti che lo coinvolsero. Preferisce, in coerenza con il suo conosciuto lungo silenzio, non parlare con nessuno. La strage di Randazzo segna, per l´indipendentismo siciliano, l´inizio del declino che si sarebbe concluso due anni dopo. Nel 1955, calmatesi le acque, i corpi di Canepa, Rosano e Lo Giudice sono stati trasferiti nel cimitero di Catania. A Murazzu Ruttu, i separatisti hanno eretto un cippo in memoria di coloro che «caddero per la Sicilia vittime del puro ideale di patria».
La Repubblica, SABATO, 25 OTTOBRE 2008
NELLA FOTO: Il capo separatista Antonio Canepa
NELLA FOTO: Il capo separatista Antonio Canepa
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