domenica 14 marzo 2010

L'EDITORIALE. Peggio del McCarthy di sessanta anni fa

di EUGENIO SCALFARI
Tralascio per ora le consuete e querule lamentazioni del nostro pseudo san Sebastiano nazionale trafitto dalle frecce dei magistrati comunisti. Mi sembra più interessante cominciare questo articolo con un'osservazione sul comune sentire dei centristi. I centristi, quelli che non amano prender posizione neppure nei momenti in cui schierarsi sarebbe inevitabile, si rifugiano nella tecnica di mandare la palla in tribuna anziché tenerla in campo. Gli argomenti usati e ormai consueti sono: descrivere le manifestazioni di popolo come stanchi riti vissuti con annoiata indifferenza perfino da chi vi partecipa; sottolineare che "i veri problemi" non sono quelli di schieramento ma i programmi delle Regioni nelle quali si voterà il 28 marzo; infine sottolineare l'importanza di un'astensione di massa dal voto come segnale idoneo a ricondurre la casta politica sulla retta via dell'amministrazione. Questa saggezza centrista non mi pare che colga la realtà per quanto riguarda i fatti e mi sembra alquanto sconsiderata nelle sue proposte. La piazza del Popolo di ieri pomeriggio era gremita e ribollente di passione, di senso di responsabilità e insieme di rabbiosa indignazione: niente a che vedere con l'indifferenza di un rito stanco. La proposta dell'astensione rivolta al centrosinistra mostra la corda: l'astensione sarebbe soltanto un favore alla maggioranza che ci sgoverna e non metterebbe affatto il governo sulla retta via della buona amministrazione. Il governo sarebbe ben felice di un'astensione a sinistra che compensasse la vasta astensione che si delinea a destra. Se è vero - e gli stessi centristi lo dicono ormai a chiare note - che il governo non riesce ad esprimere una politica ma mette in opera tutti i mezzi leciti e illeciti per puntellare il suo potere annullando controlli e garanzie, lo strumento elettivo è il solo capace di punirlo affinché cambi registro o se ne vada. Gli elettori di destra in buona fede si astengano invece di turarsi il naso di fronte al pessimo odore che anch'essi ormai percepiscono; quelli di sinistra votino senza esitazioni perché è il solo modo per far rinsavire un Paese frastornato e licenziare la cricca che fa man bassa delle istituzioni. I problemi concreti, la disoccupazione, la caduta del reddito, l'immigrazione, la sanità, il Mezzogiorno, sono tanti e gravi, ma il problema dei problemi è appunto la cricca e il boss della cricca. Se non si risolve preliminarmente quello, tutti gli altri continueranno a marcire.
Ne abbiamo l'ennesima conferma dalle ultime notizie che arrivano dalla Procura di Trani e che sono su tutti i giornali di ieri. Il presidente del Consiglio ha preteso che l'Autorità garante del pluralismo nei "media" azzerasse la trasmissione Annozero, ha dato più volte indicazioni a Minzolini di come condurre il Tg1, ha imposto al direttore generale della Rai di bloccare le trasmissioni sgradite. È possibile che questi comportamenti non configurino reati gravi, ma certo raccontano una politica di sopraffazione indecente contro il pluralismo e la libertà di stampa. Per un leader di partito e soprattutto per il presidente del Consiglio e capo del potere esecutivo, questi reiterati interventi dovrebbero portarlo alle dimissioni immediate e irrevocabili. E i primi a reclamarle dovrebbero essere i suoi collaboratori, ivi compreso il cofondatore del Pdl, Gianfranco Fini.

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Il progetto costituzionale di Silvio Berlusconi è molto chiaro: vuole riscrivere la Costituzione. Non modificarne alcuni punti ma riscriverla stravolgendone lo spirito, mettendo al vertice una sorta di "conducator" eletto direttamente dal popolo insieme alla maggioranza parlamentare da lui stesso indicata e subordinando alla sua volontà non solo il potere esecutivo e quello legislativo ma anche i magistrati del pubblico ministero, la Corte costituzionale e le autorità di controllo e di garanzia. Questo progetto non è nato oggi ma è nella sua mente fin dal 2001, quando ebbe inizio la legislatura che durò fino al 2006 e si svolse durante il settennato al Quirinale di Carlo Azeglio Ciampi. Le divergenze tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio furono numerose e ebbero come oggetto soprattutto quel tema; non potendo cambiare la Costituzione nel modo da lui desiderato Berlusconi tentò di modificarla nei fatti contestando sistematicamente le attribuzioni del capo dello Stato e i poteri che gli derivano. Il capo dello Stato rappresenta il coronamento istituzionale della democrazia parlamentare così come la configura la nostra Costituzione ed è, proprio per questo il maggior ostacolo ai progetti di Berlusconi. Non è dunque un caso che i suoi bersagli costanti siano stati Scalfaro, Ciampi, Napolitano: tre uomini estremamente diversi tra loro, con diversi caratteri e diverse origini culturali, ma con identica dedizione ai loro doveri costituzionali. E proprio per questo sono stati tutti e tre nel mirino di Berlusconi fin da quando salì per la prima volta alla presidenza del Consiglio avendo in animo di governare da solo, senza ostacoli di sorta che controllassero la legalità delle sue azioni e ne limitassero la discrezionalità che egli vuole piena e assoluta. Gli attriti con Ciampi furono, come ho ricordato, numerosi. Due di essi in particolare avvennero in circostanze di estrema tensione. Il primo in occasione della nomina di tre giudici della Corte costituzionale, il secondo nel momento della promulgazione della legge Gasparri sul sistema televisivo nazionale. Ho avuto la ventura di esser legato a Ciampi da un'amicizia che dura ormai da quarant'anni, sicché ebbi da lui un lungo racconto di quei due episodi poco tempo dopo il loro svolgimento. Non ho mai rivelato quel racconto, del quale ho conservato gli appunti nel mio diario quotidiano. Spero che il presidente Ciampi mi perdonerà se oggi ne faccio cenno, poiché la riservatezza che finora ho rispettato non ha più ragion d'essere al punto in cui è arrivata la situazione politica italiana. L'episodio concernente la nomina dei tre giudici della Consulta nella quota che la Costituzione riserva al Presidente della Repubblica, avvenne nella sala della Vetrata del Quirinale. Erano presenti il segretario generale del Quirinale, Gifuni e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta. I temi da discutere erano due: i rapporti con la Commissione europea di Bruxelles dove il premier doveva recarsi per risolvere alcuni importanti problemi e la nomina dei tre giudici. Esaurito il primo argomento Ciampi estrasse da una cartella i tre provvedimenti di nomina e comunicò a Berlusconi i nomi da lui prescelti. Berlusconi obiettò che voleva pensarci e chiese tempo per riflettere e formulare una rosa di nomi alternativa. Ciampi gli rispose che la scelta, a termini di Costituzione, era di sua esclusiva spettanza e che la firma del presidente del Consiglio era un atto dovuto che serviva semplicemente a certificare in forma notarile che la firma del Capo dello Stato era autentica e avvenuta in sua presenza. Ciò detto e senza ulteriori indugi Ciampi prese la penna e firmò passando i tre documenti a Berlusconi per la controfirma. A quel punto il premier si alzò e con tono infuriato disse che non avrebbe mai firmato non perché avesse antipatia per i nomi dei giudici ma perché nessuno poteva obbligarlo a sottoporsi ad una scelta che non derivava da lui, fonte unica di sovranità perché derivante dal popolo sovrano.
La risposta di Ciampi fu gelida: "I documenti ti verranno trasmessi tra un'ora a Palazzo Chigi. Li ho firmati in tua presenza e in presenza di due testimoni qualificati. Se non li riavrò immediatamente indietro da te controfirmati sarò costretto a sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. "Ti saluto" rispose altrettanto gelidamente Berlusconi e uscì dalla Vetrata seguito da Letta. In serata i tre atti di nomina tornarono a Ciampi debitamente controfirmati. Il secondo episodio avvenne nel corso di una colazione al Quirinale, sempre alla presenza di Gifuni e di Letta. Il Parlamento aveva votato la legge Gasparri e l'aveva trasmessa a Ciampi per la firma di promulgazione. Presentava, agli occhi del Capo dello Stato, svariati e seri motivi di incostituzionalità e mortificava quel pluralismo dell'informazione che è un requisito essenziale in una democrazia e sul quale, appena qualche mese prima, Ciampi aveva inviato al Parlamento un suo messaggio. La colazione era da poco iniziata quando Ciampi informò il suo ospite del suo proposito di rinviare la legge alle Camere, come la Costituzione lo autorizza a fare motivando le ragioni del rinvio e i punti della legge da modificare. Berlusconi non si aspettava quel rinvio. Si alzò con impeto e alzò la voce dicendo che quella era una vera e propria pugnalata alla schiena. Ciampi (così il suo racconto) restò seduto continuando a mangiare ma ripeté che avrebbe rinviato la legge al Parlamento. L'altro gli gridò che la legge sarebbe stata comunque approvata tal quale e rinviata al Quirinale e aggiunse: "Ti rendi conto che tu stai danneggiando Mediaset e che Mediaset è una cosa mia? Tu stai danneggiando una cosa mia". A quel punto si alzò anche Ciampi e gli disse: "Questo che hai appena detto è molto grave. Stai confessando che Mediaset è cosa tua, cioè stai sottolineando a me un conflitto di interessi plateale. Se avessi avuto un dubbio a rinviare la legge, adesso ne ho addirittura l'obbligo". "Allora tra noi sarà guerra e sei tu che l'hai voluta. Non metterò più piede in questo palazzo". Uscì con il fido Letta. Ciampi rinviò la legge. Il premier per sei mesi non mise più piedi al Quirinale.

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Venerdì scorso ho rivisto su Sky un bellissimo film prodotto da George Clooney. Si intitola "Good Night and Good Luck", Buona notte e buona fortuna, e racconta di una società televisiva che guidò la protesta dei democratici americani contro la campagna di intimidazione con la quale il senatore McCarthy, presidente d'una commissione di inchiesta del Senato, aveva intimidito e colpito giornalisti, docenti universitari, produttori ed attori, uomini d'affari, sindacalisti, scienziati e tutta la classe dirigente con l'accusa di essere comunisti o loro fiancheggiatori. Quella società televisiva, guidata da un giornalista coraggioso, mise McCarthy sotto accusa, ne documentò la faziosità e suscitò un tale movimento di opinione pubblica che il Senato aprì un'indagine e destituì McCarthy da tutti i suoi incarichi. Sky l'ha rimesso in onda l'altro ieri ed ha fatto a mio avviso un'ottima scelta: la sua attualità è stupefacente. Citerò le parole con le quali il protagonista conclude: "La televisione è uno strumento che può e deve contribuire a rendere le persone più consapevoli, più responsabili e più libere. Se mancano questi presupposti e questi obiettivi la televisione è soltanto una scatola piena di fili elettrici e di valvole". Aggiungo io: una scatola, ma a volte molto pericolosa se qualcuno se ne impadronisce e la controlla a proprio uso e consumo. Good Night, and Good Luck.
La Repubblica, 14.03.2010

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