Sono passati trentadue anni da quando il giornalista di Radio Aut, che da Cinisi denunciava gli intrecci tra mafia e politica, fu ucciso sulle rotaie della ferrovia Trapani-Palermo. Non sono trascorsi invano. Il suo esempio alla denuncia e alla ribellione contro Cosa nostra trascina i giovani di oggi a dire no alla mafia. E conduce sempre più a sostenere la libertà di informare per la quale Peppino è stato ucciso
Quella di Peppino Impastato è una storia di coraggio e di riscatto consumata in una terra difficile ma straordinaria. Un ragazzo che negli anni Settanta aveva deciso di dichiarare guerra alla mafia denunciandone gli intrecci illeciti con la politica e i traffici di droga. Lo faceva attraverso Radio Aut, un'antenna libera che Peppino e i suoi amici avevano acceso nel piccolo paese di Cinisi, alle porte di Palermo. In poco tempo con la sua informazione era diventato una spina nel fianco del capomafia che viveva a cento passi da casa sua. E nell'isolamento di un paese interamente controllato dal potente boss Gaetano Badalamenti, Peppino costituiva per la sua sola esistenza un affronto per il capomafia, rappresentando ogni sua parola una sfida allo strapotere dei mafiosi. Era la libera informazione che non piaceva a Cosa nostra. Come oggi non piace a chi propone leggi bavaglio per i giornalisti. Per questo Impastato andava eliminato con la violenza, e dopo la sua morte calunniato per evitare che diventasse un martire, un simbolo dell?antimafia, creando la messinscena di un Peppino eversore, vittima dei preparativi di un fallito attentato terroristico sui binari della ferrovia. Era un militante della sinistra extraparlamentare Peppino, e quando viene ucciso ha trent'anni. Lo assassinano in modo atroce, mettendogli nel petto - dopo averlo legato sulle rotaie della ferrovia - una carica di tritolo. Fece rumore, l'esplosione. Un gran fragore ruppe il silenzio la notte dell'8 maggio 1978. Eppure nessuno volle sentire quel botto: Cinisi, già famosa per aver dato i natali a Badalamenti, rimase impassibile, coi suoi uomini d'onore dislocati nei punti strategici del paese a guardare lo svolgimento delle indagini non senza ostentare un ghigno di soddisfazione. Gli investigatori non vollero sentire neppure la società civile siciliana, e i giornali, come certa magistratura catalogarono immediatamente quel delitto di mafia, il primo della lunga mattanza, come un “incidente” capitato ad un ”terrorista” che stava per compiere un attentato e nello stesso giorno in cui le Brigate rosse restituivano agli italiani il corpo di Aldo Moro. Già, perché Peppino Impastato aveva almeno due “peccati d'origine”: il primo, non era uomo delle istituzioni ma un cittadino semplice; il secondo, era comunista e poco importava se la sua attività di militante, di giornalista che faceva contro informazione dai microfoni della piccola “Radio Aut” , era rivolta esclusivamente a denunciare gli interessi dei mafiosi, di don Tano e dei suoi accoliti politicanti travestiti da amministratori pubblici. Sono trentadue anni, adesso. Non sono trascorsi invano. E nemmeno Peppino è morto invano. Il suo esempio alla denuncia e alla ribellione da Cosa nostra trascina i giovani di oggi a dire no alla mafia. E conduce sempre più a sostenere la libertà di informare per la quale Peppino è stato ucciso.
L’Espresso, 07 maggio 2010
L’Espresso, 07 maggio 2010
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