domenica 20 settembre 2009

In memoria di padre Pino Puglisi

di Francesco Palazzo
Le circostanze che portarono all´eliminazione del giudice Borsellino, nel luglio del 1992, e alla strategia stragista di Cosa nostra in continente, nel 1993, sembrano oggi mettere in primo piano, sebbene molto sia ancora da chiarire e approfondire, la mafia di Brancaccio. Non è fuori luogo ricordarlo in questa settimana, in cui si è ricordato il sedicesimo anniversario della morte per mano mafiosa di Don Pino Puglisi. Egli, intendendo fare al meglio solo il prete, venne verosimilmente a scontrarsi non con una semplice cosca mafiosa. Questo già avveniva in altre parrocchie di Palermo. Nella stessa comunità cristiana di S.Gaetano, dove Puglisi spese i suoi ultimi tre anni di vita, vi era stato in precedenza, dal 1985 al 1989 un altro parroco, Rosario Giuè, che aveva, davvero per la prima volta in quel territorio, portato e costruito un sentire antimafioso, sia dentro il tempio che fuori. Solo che ai tempi di Puglisi, e oggi è possibile inquadrare meglio il tutto, lo scontro tra quanti volevano portare a Brancaccio un impegno cristiano, sociale e antimafioso e i cosiddetti uomini d´onore, non riguardava soltanto aspetti legati a pur importanti questioni locali. La rete della violenza mafiosa, che cade sull´inerme sacerdote la sera del 15 settembre 1993, mentre si apprestava a mettere le chiavi sull´uscio di casa dopo una giornata di duro lavoro, nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, era stata il larga parte tessuta in un contesto molto più ampio. Che, da Brancaccio, attraversava tutta la Sicilia e aveva uno dei suoi punti di protezione, e anche qui speriamo presto di saperne di più, in qualche centrale di potere vestita esternamente di legalità, ma dentro pronta a trattare, coprire, suggerire. Puglisi, certo inconsapevole dello scacchiere immenso entro cui la sua azione si muoveva, restò schiacciato in questa enorme tenaglia criminale che non ci pensò due volte ad abbattere un rappresentante della chiesa. Non era la prima volta che accadeva e non sarebbe stata l´ultima. Ricordiamo che nel marzo dell´anno seguente cadrà, a Casal di Principe, Beppe Diana. Ma era la prima volta che un rappresentante del clero veniva eliminato all´interno di un disegno che trovava il pretesto omicidiario in un determinato quartiere periferico, ma che rispondeva a logiche molto più complesse e ingarbugliate. Certo, la cosca di Brancaccio, in quel momento nella stanza dei bottoni dell´ala più sanguinaria del potere mafioso, aveva qualche problema nel far passare l´omicidio come normale amministrazione. E´ noto a tutti il fatto che venne utilizzata un´arma che in genere i tiratori scelti del gruppo di fuoco disdegnavano per le esecuzioni, in modo che la morte di Puglisi potesse passare come il tragico epilogo di un tentativo di rapina. E´ forse meno noto che, per incoraggiare tale quadro investigativo, qualche tempo dopo, in una delle vie adiacenti Piazza Anita Garibaldi, dove cadde Puglisi, fu fatto trovare in un´auto il corpo senza vita di un anonimo delinquente di borgata. In modo da fornire a tutti la certezza che la mafia aveva fatto giustizia. Il fatto non balzò all´attenzione dell´opinione pubblica perché gli uomini delle cosche non riuscirono, all´inizio pare fosse questo il loro intendimento, a lasciare quel cadavere nella stessa piazza, dalla sera dell´omicidio costantemente presidiata. Ed era forse un tentativo messo in atto, non tanto e non solo per giustificarsi con la chiesa, ma per impedire che il tassello dell´omicidio Puglisi venisse posto nel giusto spazio. Ossia dentro quel piano di attacco frontale a certi uomini, compreso Puglisi, che difendevano, da postazioni diverse, lo Stato e la democrazia con la schiena dritta, mentre altri cercavano di porre in essere giochi oscuri. Messa così, la verità, tutta, su quegli anni, se mai si arriverà a conoscerla per intero, sarebbe un omaggio anche al prete Pino Puglisi. Morto, a prima vista, a Brancaccio e solo per Brancaccio. Ma anche e soprattutto per custodire, a mani nude, solo con l´ausilio della sua fede e della sua operosa speranza, in una battaglia molto più grande del suo esile corpo, il futuro di questo paese.
Da “Centonove” del 18.09.2009

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