di Salvatore Parlagreco
“Quei morti non ci appartengono…”. Della deposizione di Gaspare Spatuzza nel processo d’appello a Marcello Dell’Utri, sono queste le parole che ci sembrano di enorme importanza. E non perché possano essere riferite a qualcuno in particolare o accrescere i sospetti degli indiziati, veri o presunti, ma perché confermano il grande enigma di quelle stragi che nel ’92 e ’93 provocarono un‘ecatombe di servitori dello Stato e destabilizzarono il Paese già provato dai processi e le indagini di Tangentopoli. Gaspare Spatuzza, che ha già sulla coscienza quaranta morti, sente il bisogno di esternare il suo disagio a colui che considera suo padre morale, Giuseppe Graviano. E lo fa con la coscienza di stare mostrando debolezza, inaffidabilità e destando quindi sospetti gravi sui suoi interlocutori, Eppure non può fare a meno di fare quelle considerazioni. Dirà che è grazie al rapporto filiale che ha con i Graviano che osa giungere a tanto, perché se avesse “esibito” la stessa debolezza con altri, i dubbi e le perplessità appena accennate, per lui sarebbe stata la fine. Dirà anche che il passaggio quella stagione di delitti rappresenta una svolta nella strategia di Cosa nostra, che diviene terroristica, al punto da adottare metodi che solo i talebani avevano usato.
Spatuzza non sa e non può sapere. Conosce, come i “soldati” di mafia o i quadri intermedi i moventi di primo livello, ma non tutto. Confessa a Graviano, che gli pone domanda specifica – ne capisci di politica? – di non capirne niente. Al che Giuseppe Graviano rivela che finalmente avevano trovato le persone giuste, quelle che avrebbero permesso a Cosa nostra le garanzie che cercavano da tempo e che “quei crasti dei socialisti” le hanno negato, nonostante i favori ricevuti alle politiche dell’88/89. Spatuzza sa quello che fa quando compie la strage di Via Capaci e di Via D’Amelio, confessa di avere “vigliaccamente” gioito per l’esito egli attentati, ma si sente estraneo alle stragi di Via Georgofili ed agli attentati di Milano e Roma. Perché? Il quesito è cruciale. Ciò che Cosa Nostra fa contro Falcone e la sua scorta, Borsellino e la sua scorta, è “comprensibile” e, soprattutto, necessario. Si tratta di una guerra, afferma senza mezze misure, e i nemici allora erano quei giudici, perciò andavano eliminati. La necessità pulisce la sua coscienza, salvaguardare Cosa nostra è un impegno morale, costi quel che costi. Ma il resto non lo capisce e lo vive come una cosa sbagliata, delitti incomprensibili, dei quali Spatuzza si sente colpevole. E’ difficile seguire questo percorso “morale” di un assassino che ha ammazzato quaranta persone e compiuto sette stragi, ma occorre stare dentro questa logica se si vuole capire ciò che è successo. Se le stragi successive al ’92 non appartengono a Cosa nostra, o meglio non sono richieste dai bisogni di Cosa nostra, a chi appartengono? Giuseppe Graviano, di fronte ai cenni di rimostranza da parte di Spatuzza, taglia corto: “Dobbiamo dare il colpo di grazia” e ordina che si compia l’attentato all’Olimpico di Roma, dove sarebbero dovuti morire i carabinieri. Sarebbe stata la strage più sanguinosa, quella che avrebbe costretto, secondo la spiegazione fornita da Giuseppe Graviano, gli interlocutori nello Stato a venire a patti, perché avrebbe fatto capire senza ombra di dubbio che cosa avrebbero potuto aspettarsi. Tutto chiaro? Nient’affatto, l’enigma più grande rimane inspiegabile. Giuseppe Graviano annuncia trionfante che finalmente Cosa nostra può contare su persone serie che daranno a Cosa nostra e a chi sta in carcere ciò di cui hanno bisogno. Per chi sta dentro, la fine del 41 bis, per chi sta fuori, prevedibilmente, una normativa meno rigorosa. “Abbiamo nelle mani il Paese”, rivela Giuseppe Graviano a Gaspare Spatuzza, che continua a non capire. Ecco il punto: se hanno nelle mani il Paese, perché devono ammazzare i carabinieri a Roma e dare il colpo di grazie? Se le stragi successive al ’92 non appartengono alla mafia e nel ’93 devono essere perpetrate anche “dopo” il presunto patto fra i Graviano ed i nuovi padroni politici d’Italia, l’attentato all’Olimpico è inutile e il colpo di grazia gratuito, a meno che non venga loro richiesto da altri soggetti, che pretendono altri morti, altre stragi, altra tensione. Il fatto che i nuovi referenti vogliano presentarsi come pacificatori e possano con la loro presenza segnare una svolta sul tema della sicurezza, non è un movente forte. A meno che non si “leggano” gli episodi di quella stagione in un contesto più ampio, che vede l’Italia come l’anello debole dell’Europa di Maastricht, il Paese che può spaventare nazioni che alla vigilia del referendum sull’accordo “forte” devono decidere se entrare nella nuova Europa e fare nascere una entità economica che avrebbe potuto recitare un ruolo decisivo nello scacchiere economico mondiale. E’ solo una illazione, naturalmente, ma ci troviamo all’indomani della caduta del muro, il disarmo e restyling dei servizi segreti di mezzo mondo con tutto ciò questo comporta a causa di un “indotto” inquieto ed incerto. “Dobbiamo darci una smossa”, avverte Giuseppe Graviano al suo Gaspare Spatuzza disorientato. E si capisce subito che ha ricevuto sollecitazioni forti e che quel patto che rivendica deve essere usato per ridare volontà e prospettiva ai suoi uomini. Tutto questo lascia in ombra i presunti rapporti d’affari fra i Graviano e i referenti politici milanesi, o la presenza discreta di Vittorio Mangano, il celebre stalliere Arcore ed “eroe” – ad avviso di Marcello dell’Utri - per il suo puntiglioso silenzio su ciò che i magistrati avrebbero voluto sapere (o avrebbero voluto fargli dire, a seconda dell’ottica) sul suo conto e sul conto di Silvio Berlusconi. Il processo d’Appello a Marcello Dell’Utri ha mostrato le cose come sono a chiunque abbia avuto la pazienza e l’interesse di sapere. Con gli enigmi irrisoli, le nefandezze palesi, le anomalie inspiegabili e i personaggi assurdo, eppure reali, di un mondo che ci è più vicino di quanto non appaia.
SiciliaInformazioni, 4.12.2009
venerdì 4 dicembre 2009
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