Giuseppe Ayala |
"Da oltre diciotto anni Cosa nostra non ammazza più né magistrati, né poliziotti, né uomini politici, né giornalisti. Per fortuna, mi pare superfluo aggiungere", afferma l'ex magistrato del pool antimafia. "Non è forse, allora, giunto il momento di avviare una responsabile, sia pur graduale, rivisitazione delle scorte in circolazione?"
Il tasto è delicato, lo so. Ma lo affronto lo stesso. Le scorte che notiamo al seguito di magistrati e uomini politici rispondono ad un'esigenza reale, o non sono altro che residui di un'epoca per fortuna alle nostre spalle? Propendo decisamente per la seconda ipotesi. Il primo ad essere scortato a Palermo fu Giovanni Falcone. Eravamo agli albori degli anni ottanta. Cosa Nostra aveva inaugurato una nuova strategia, quella di contrapporsi militarmente allo Stato uccidendone i servitori che, con il loro operato, ostacolavano gli interessi mafiosi. Erano stati vilmente trucidati, tra gli altri, Boris Giuliano, il colonnello Russo, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, il procuratore della Repubblica Gaetano Costa. Ed anche un giornalista, Mario Francese. L'allarme era più che giustificato. In quegli anni nasceva il pool antimafia. Il rischio che correvano i suoi componenti fu ritenuto assai elevato. A tutti venne, perciò, assegnata una scorta. Ne so qualcosa. Ne seguirono altre. Cosa Nostra, infatti, continuava a seminare morte.
Pio La Torre e Rosario Di Salvo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro e Domenico Russo, Rocco Chinnici, i due carabinieri Trapassi e Bartolotta, il portiere del palazzo Li Sacchi, ed altri ancora. In quel drammatico contesto storico la protezione delle vittime potenziali della furia mafiosa era necessaria e doverosa. Lo Stato doveva pur difenderle in qualche modo. Non sempre ci riuscì. Ne sanno qualcosa, per esempio, i familiari di Beppe Montana, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia. Siamo nell'estate del 1985. Il 1992 ci ha lasciato due date che non saranno mai dimenticate: il 23 maggio e il 19 luglio.
Da allora è partita una fase completamente diversa. La strategia di Cosa nostra è radicalmente cambiata. La lista dei cosiddetti cadaveri eccellenti non ha avuto più bisogno di aggiornamenti. È una lista bloccata. Le stragi dell'estate 1993 a Roma, Firenze e Milano, infatti, sono anomale quantomeno per due ragioni. Sono state consumate fuori Palermo e hanno provocato vittime inermi che nulla avevano a che fare con le attività mafiose. Riina e Provenzano che conoscono la chiesa di S. Giovanni al Velabro o l'Accademia dei Georgofili è dura da credere. È ragionevole supporre che Cosa nostra non agì da sola. Come in altre tragiche occasioni. Ultime quelle dell'anno precedente. Ma questo è un altro discorso. Comunque sia, il calcolo è facile. Da oltre diciotto anni Cosa Nostra non ammazza più né magistrati, né poliziotti, né uomini politici, né giornalisti. Per fortuna, mi pare superfluo aggiungere.
Mi si darà atto, quindi, che l'attuale contesto storico è ormai del tutto diverso rispetto a quello del tragico passato che ho rievocato. E lo è stabilmente, visto il tempo trascorso. Non è forse, allora, giunto il momento di avviare una responsabile, sia pur graduale, rivisitazione delle scorte in circolazione? È mai possibile che non bastino diciotto anni per indurre chi di dovere a porsi finalmente il problema? Potrebbero cominciare a dare il buon esempio i diretti interessati. Io l'ho fatto. Non è stato facile. Ci provai per la prima volta nel 1998. Già allora avvertivo l'inutilità della scorta.
Provai a liberarmene. L'allora ministro dell'Interno, Giorgio Napolitano, alla fine di un cordialissimo colloquio mi comunicò che me lo potevo levare dalla testa. Con molto garbo mi spiegò anche le valutazioni che gli impedivano di assecondare la mia richiesta. Erano ragionevoli. Mi è andata meglio al secondo tentativo nel 2001. Dopo quasi diciannove anni di vita blindata ho ritrovato la mia libertà. È stata una sensazione talmente forte che continuo piacevolmente a gustarla.
Ma, ancora di più, il problema se lo devono finalmente porre i responsabili delle assegnazioni di scorte e, cioè, tanto per essere chiari, i componenti del Comitato Provinciale per l'ordine e la sicurezza, presieduto dal Prefetto. Non guasterebbe una direttiva del ministro dell'Interno. Sono un uomo di mondo e, in quanto tale, so bene che la revoca della scorta viene vissuta da alcuni destinatari come una sorta di deminutio. Il venir meno di uno status symbol. Negarlo è da ipocriti. Ciò malgrado, mi piace pensare che non sia questa la ragione per cui non si comincia a intervenire. Con prudenza, certo, ma anche con decisione. Il ritardo è già colpevole. In tempi di vacche magre come quelli che viviamo, il recupero di risorse, mezzi e uomini da destinare ad altre finalità istituzionali, magari preminenti, non rientra forse nei doveri di chi è chiamato a servire al meglio le istituzioni?
E poi, diciamocelo con franchezza, ci sono scorte al cospetto delle quali mi è stato chiesto: "Ma a chistu cu l'av'ammazzari?". Confesso di essermi rifugiato nel silenzio. Unica difesa dall'imbarazzo del dileggio. La mafia, purtroppo, è una cosa seria. Può l'antimafia concedersi il lusso di non esserlo? Non vorrei che l'eccessiva cautela possa avere a che fare con talune, episodiche presunte minacce, quali l'invio a qualcuno di buste contenenti proiettili. Suggerisco, in proposito, di indagare sino in fondo per accertare l'identità del mittente ma, soprattutto, di ricordare che né a Falcone, né a Borsellino, a quanto mi risulta, furono mai recapitati analoghi plichi. Intelligenti pauca.
(La Repubblica, 12 settembre 2010)
Nessun commento:
Posta un commento