di Marco Blanco
Una gita domenicale promossa da “Libera – associazioni, nomi e numeri contro le mafie” come se ne fanno tante in un posto come pochi ne esistono. Provincia di Palermo, feudo Sicilia: Corleone. Dici Corleone e la mente viaggia verso Don Vito che accarezza il gatto nel giorno del matrimonio della figlia, campieri baffuti con coppole e lupare, favori e ammazzamenti, collusioni e omertà. Echeggia la mente del vociare dei media in cerca di caratterizzazioni frettolose che hanno dipinto a foschi tratti questa cittadina dell'Alto Belice come se fosse solo il luogo che ha tenuto a battesimo le gesta vili dei vari Riina, Provenzano e Brusca. Corleone terra di mafia è sempre stato detto. Abbiamo assorbito negli anni sentenze lapidarie che odoravano di pregiudizi, sangue e polvere da sparo senza capire, ciancicando stancamente triti luoghi comuni: e adesso, toccata con mano la realtà complessa di quei luoghi e il coraggio di alcuni dei loro abitanti si prova un profondo senso d'imbarazzo e una sottile vergogna nel dover ammettere di essersi sbagliati.
Grazie a “Libera”, infatti, domenica 17 gennaio oltre cento “turisti responsabili” provenienti da tutta la provincia di Ragusa hanno potuto visitare alcuni dei luoghi assurti a modello per quanti agognano libertà dal giogo delle mafie. Prima tappa della carovana è stata Portella della Ginestra, il luogo in cui il primo maggio del 1947 undici contadini, “comunisti per il pane”, furono massacrati in quella che gli storici definiscono la prima strage di Stato per mano mafiosa. Insieme a Caterina Pellingra e Davide Perricone, mediatori culturali di “Libera Terra Mediterraneo”, il gruppo ha ripercorso la storia della mafia nell'Alto Belice, nata essenzialmente come mafia agraria votata alla difesa del latifondo e trasformatasi con il trascorrere del tempo in organizzazione criminale internazionale dedita ad ogni genere di attività illecita. Successivamente i pullman di “Libera” hanno raggiunto San Cipirello, dove le cooperative “Placido Rizzotto” e “Pio la Torre” coltivano quasi quattrocento ettari di terreni confiscati alla mafia. Nella cantina sorta sul terreno sequestrato a Giovanni Brusca e che adesso produce il vino “Centopassi” uno dei fondatori delle cooperative ha illustrato le difficoltà e i sacrifici che ciascuno dei soci ha dovuto affrontare per il consolidamento della struttura. Intimidazioni certo, diffidenza degli abitanti del luogo ma anche pastoie burocratiche e difficoltà iniziale nel reperimento dei fondi che ha portato i soci a rinunciare per un anno e mezzo al proprio stipendio pur di non abbandonare il sogno di un lavoro affrancato dal dominio dei boss. I “turisti responsabili” di Libera si sono poi spostati all'agriturismo “Terre di Corleone” realizzato in un casolare appartenente a Totò Riina dove hanno potuto gustare in anteprima – la struttura sarà aperta al pubblico tra poche settimane – un pranzo preparato con i prodotti biologici delle cooperative Libera Terra.
Ultima tappa della carovana Corleone, dove il gruppo ha visitato il Centro internazionale di documentazione sulle mafie e del movimento antimafia che ospita, tra l'altro, una sala contenente i faldoni del maxi-processo che assestò un colpo durissimo alle cosche mafiose. Infine, un giro per Corleone, dove il gruppo ha potuto conoscere i veri Corleonesi e scoprire un popolo ospitale, laborioso e tenace. Né più né meno di tanti altri siciliani: un popolo che si è stancato di essere considerato speciale e che ha voglia di mostrare al mondo la propria normalità e il proprio coraggio nell'affrontare il cancro mafioso. Perché la lotta alle cosche acquista un valore ancora più grande dove le minacce talora si concretizzano in proiettili sparati addosso.
Non siamo ingenui: Corleone è ancora terra di mafia. Eppure è anche, e forse soprattutto, terra di antimafia. Una terra in cui sempre più persone decidono di sfidare le cosche alla luce del sole ipotecando ogni cosa – la propria tranquillità, ma anche la propria vita – per una speranza. Davvero il riscatto dei siciliani riparte da Corleone. Senza la pletora di tanti professionisti dell'antimafia: semplicemente, lavorando le terre che lo Stato italiano ha confiscato ai boss del luogo. Perché si può fare antimafia anche producendo il vino, arando la terra o mietendo il grano, perché trasformare in risorsa per il territorio un bene confiscato alla mafia ha più valore dei vuoti proclami grondanti retorica del politico di turno, perché il lavoro onesto delle cooperative sociali sorte sulle terre strappate al dominio mafioso riscatta dal ricatto mascherato da “lavoro” che i mafiosi pretendono di dare. La mafia si pasce della povertà e cresce nelle sacche di indigenza: solo dando come diritto ciò che le organizzazioni criminali concedono come privilegio, si potrà sconfiggere questa malerba che soffoca il popolo siciliano. A Corleone ci credono: tocca a noi siciliani seguire il loro esempio.
Liberainformazione, 09.02.201
giovedì 11 febbraio 2010
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