e Felicia Masocco
Le divisioni sindacali e le strategie del governo. I rapporti con il Pd e il ruolo del lavoro nella politica. Ma soprattutto le scelte della Cgil che sabato prossimo sarà in piazza, al Circo Massimo, per una grande manifestazione. Lo slogan «Futuro sì, indietro no». Il segretario Guglielmo Epifani, ospite de L’Unità, risponde alle domande della redazione e dei lettori.
Le divisioni sindacali e le strategie del governo. I rapporti con il Pd e il ruolo del lavoro nella politica. Ma soprattutto le scelte della Cgil che sabato prossimo sarà in piazza, al Circo Massimo, per una grande manifestazione. Lo slogan «Futuro sì, indietro no». Il segretario Guglielmo Epifani, ospite de L’Unità, risponde alle domande della redazione e dei lettori.
La Cgil è sotto attacco, è accusata di essere una forza politica, di non partecipare alle trattative ma di godere poi dei risultati. Accuse ripetute dal ministro Renato Brunetta. La risposta?
«Non si considerano mai le posizioni della Cgil per quelle che sono e si usano altri argomenti: si dice che facciamo opposizione di tipo politico, che seguiamo vecchie ideologie, ci accusano di conservatorismo. Luoghi comuni. E quasi sempre si rifugge dal merito. Ieri (venerdì, ndr) Sacconi ha detto che la Cgil muoveva critiche al nuovo Testo unico sulla sicurezza senza averlo letto. La cosa buffa è che tutti si sono espressi subito, la Confindustria ha fatto una nota di tre pagine ma, guarda caso, Sacconi ha parlato solo di noi. Eppure avevamo detto, già in passato, che è un errore cambiare un testo che neanche è in vigore e che conveniva applicarlo e fare una verifica dopo due anni per eventuali correzioni».
A prescindere dal merito, dice. Come può essere?
«Mi sto convincendo che in realtà dia fastidio l’autonomia di giudizio della Cgil, che dia fastidio tutto quello che non corrisponde ai modi di dire e di fare del governo. Un governo che ha una grande capacità di comunicazione e fa passare posizioni che spesso non corrispondono al vero. Sacconi ha detto che sono aumentate le sanzioni rispetto alla legge 626, dimenticando di dire che sono diminuite rispetto all’ultima legge. E fa così per tutto il resto. Le accuse non sono solo per noi: quando Emma Marcegaglia ha reclamato soldi veri che fino a quel momento avevano visto solo le banche, o quando Confindustria ha fatto previsioni fosche sul Pil, sono piovute accuse di catastrofismo. È un governo che dà una rappresentazione non veritiera della realtà e su di essa costruisce risposte per coloro che hanno punto di vista diversi. Questa è la nostra battaglia democratica: tenere aperta la possibilità di avere un punto di vista diverso».
Il governo ha la capacità di attrarre a sé Cisl e Uil e di isolare la Cgil, segue la strategia della divisione. Quali pericoli porta questo isolamento?
«Riguardano l’efficacia dell’azione sindacale, il sindacato unitario è più efficace. Se sul Testo unico avessimo tutti detto le stesse cose, oppure sul fisco, il governo avrebbe avuto più difficoltà. Il governo punta sistematicamente a dividere, e Cisl e Uil hanno un po’ perso la capacità di tenere il filo della coerenza con le rivendicazioni unitarie. Questo comporta la frantumazione dell’azione con il rischio che il sindacato produca meno risultati».
Si può recuperare, e come, un rapporto unitario?
«È complicato perché i dissensi sono veri. E, dove non ci sono, noi sosteniamo le proposte unitarie e gli altri non sempre lo fanno. Siamo sempre stati d’accordo nel chiedere meno fisco per il lavoro dipendente o la lotta all’evasione, eppure non diventano campagne unitarie».
Perché si è arrivati a questo punto?
«È come se Cisl e Uil avvertissero - e capisco anche il ragionamento - che questo è un governo forte, da non sfidare a una battaglia a fronte aperto ma soltanto condizionare di volta in volta. A mio avviso dobbiamo invece tenere ferme le nostre linee e, come fa un sindacato fare negoziati, compromessi, arrivare o meno agli accordi. Ma questo oggi manca: il governo non apre mai tavoli di confronto. Non lo fa con le Regioni e i Comuni se non è costretto, e non lo fa con noi, non ha aperto una sola discussione. Neanche sulla crisi. Quando Fini propone gli stati generali sull’economia, riconosce che una sede di confronto sulla crisi non c’è mai stata. Il governo di volta in volta si sceglie gli interlocutori e non dialoga, cerca di convincerli della bontà delle sue scelte».
Come sono i rapporti con il Pd? Qualcuno ha detto che il Pd soffriva dell’azione politica più netta della Cgil e che questa sofferenza si sia tradotta in qualche attrito. La nuova fase le sembra diversa?
«Il Pd a mio avviso è ancora in divenire. Formalmente è un partito ma nella sostanza è ancora un cantiere aperto, lo dimostrano i problemi nel tesseramento e che a livello locale le radici sono molto differenziate. Le stesse regole con cui è stato costruito andrebbero semplificate».
Un esempio?
«L’uso delle primarie. Se servono a far correre un assessore contro il sindaco -al primo mandato- che l’ha nominato, non sono più uno strumento democratico per far pesare la società civile, ma servono alla nomenclatura se divisa. È un assurdo. Dopo la sconfitta elettorale il Pd era diviso tra il bisogno, logico, di dialogo sulle grandi riforme, e quello di fare un’opposizione più netta. Da qui una fase di indeterminazione e, di fronte a una Cgil che ha fatto scelte di merito e dato battaglia, qualche problema si è creato».
Anche oggi o è cambiato qualcosa?
«Oggi vedo più sintonia sul merito, talvolta le posizioni sembrano coordinate ma non è così. Noi poniamo il problema della casa e degli affitti e lo stesso fa Pd, ci si arriva autonomamente, ma su tante questioni si fanno battaglie comuni. Ho visto il giudizio sul Testo unico, le comuni preoccupazioni sul piano casa, comune è la critica al governo che affronta la crisi senza una politica industriale. L’opposizione che sta facendo il Pd nel Paese e nel Parlamento è a tratti molto simile all’iniziativa della Cgil. È un bene, perché su grandi questioni come queste la Cgil non può stare in campo da sola, la Cgil non può che restare un soggetto sindacale e le battaglie politiche spetta alla politica farle».
Lei ha origini socialiste, oggi ci sono socialisti che rivendicano un po’ dappertutto la loro origine. Ieri Berlusconi ha parlato lungamente dell’amico Craxi. Qual è stato il suo percorso?
«Mi sono iscritto alla federazione dei giovani socialisti a venti anni, ho fatto due, tre anni, di attività e sono passato in Cgil. Coglievo troppa differenza tra la concretezza del lavoro sindacale e il modo di far politica. Allora in Cgil c’erano le correnti, ho lavorato in quella socialista, poi le abbiamo superate, ma mantengo l’ispirazione che viene dalla mia storia: la laicità, un’idea riformistica dell’acquisizione dei risultati, il rispetto dell’avversario, sempre. E se vedo che c’è chi continua a professarsi socialista e si schiera nel centrodestra penso che c’è qualcosa che non va. Penso a Brunetta che non celebra il 25 aprile perché è “dei comunisti”. Come fa un socialista a dirlo? Penso a cosa significava il 25 aprile per Pietro Nenni, Carlo Lombardi, Sandro Pertini, per lo stesso Craxi il cui padre è stato prefetto della liberazione a Como. I socialisti si rivoltano nella tomba».
Gli altri sono tutti precipitati nel gorgo degli anni 80?
«Sì ma questo non giustifica il tornare indietro da scelte di valore fondamentali: la democrazia, l’antifascismo, la Costituzione. Sono valori che appartengono alla grande tradizione socialista, comunista, democristiana, e sono i valori della Repubblica».
Ma in quegli anni si sono radicati anche rancori personali che poi si sono fatti politica. Si sente parlare con tanta acrimonia di anticomunismo da persone che erano adulte negli anno Settanta o Ottanta.
«Siamo l’unico Paese in cui ancora si parla, l’ha fatto ancora il premier, di anticomunismo. Non ne parla più nessuno, non c’è più il tema. Si evoca il fantasma dell'anticomunismo quando non c’è il comunismo e si ipotizza l’idea di un comunismo sopravvissuto a se stesso. È un’idea molto materialistica della storia».
Ma perché? Cosa vuole suscitare?
«Nella sua idea c’è la rinascita di una grande democrazia cristiana “moderna”, quindi è come se se rievocasse lo schema del ‘48. Ma la Dc aveva voluto la Costituzione, poi c’è stata una battaglia politica, ma è stato un partito della Repubblica».
Torniamo al lavoro, riportato drammaticamente al centro dalla crisi. Negli ultimi anni la sinistra, il centrosinistra, il Pd non lo hanno un po’ dimenticato? Si pensi alla candidatura di molti imprenditori...
«Si è passati da un estremo all’altro. Fino a 20, 25 anni fa i partiti erano molto presenti nei luoghi di lavoro, avevano radici, orientavano, sentivano. Poi l’opposto, non si sono più occupati, se non indirettamente, delle questioni del lavoro. Anche se non vale per tutti: la Lega nord è molto attenta, quando ha fatto cadere il primo governo Berlusconi sulle pensioni pensava alla propria base. E quando oggi Bossi sulle pensioni dice di andarci cauti, ha in mente l’operaio del Nord. C’è questo bisogno, anche per il Pd. Naturalmente non si può più immaginare che solo l’identità del lavoro fondi una forza politica, ma neanche che fondino un’identità tutti i soggetti e al mondo del lavoro non viene riconosciuto il suo ruolo. Credo che questo sia stato il figlio della sbornia che Tremonti chiama “mercatista”, cioè dell’idea che il mercato era fine e strumento. Ma oggi, dopo gli eccessi della speculazione, il lavoro dovrebbe tornare ad essere un riferimento nel Pd. Non può essere solo la Cgil a fare rappresentanza sociale, c’è bisogno di sponde nelle istituzioni. Se con le elezioni dovesse esserci un arretramento del centrosinistra nelle amministrazioni, verrebbe a mancare al sindacato un importante interlocutore».
Per la Cgil l’obiettivo resta il lavoro stabile o si accontenta della flessibilità senza precarietà come dato strutturale di un’economia moderna?
«In un sistema di mercato aperto a una competizione fatta di produzione di qualità è evidente che una stabilità della prospettiva del lavoro è condizione necessaria. Poi è vero che ci sono esigenze di flessibilità che vanno riconosciute. Quello che non si può fare è scaricare tutto sul precario e va fatta attenzione a non creare un mercato di lavoro doppio, con chi ha garanzie e chi non le ha».
Continuerete a difendere il contratto nazionale sfidando l’accusa di conservatorismo?
«Lo facciamo perché è quello che garantisce un riferimento universale sul salario e sulle norme. Resto dell’opinione che siccome la flessibilità interna ai settori è oggi più forte che nel passato, si possono avere griglie normative via via più ampie, da riempire. Ma nel modello che non abbiamo condiviso non c’è questo: c’è meno contrattazione in entrambi i livelli. Perché si pensa che il sindacato, che contratta, sia un intralcio».
Rapporto con il Pd. Alberto da Brescia le dice: “Credimi, nelle fabbriche i rapporti sono difficili”.
«Lo so. Il problema non è avvicinare i vertici, ma avvicinare le basi. Bisogna rovesciare lo schema, è dal basso che devi ricostruire una modalità di ascolto nella società e nel mondo del lavoro. Io lo dico sempre anche per la Cgil: partire dal basso, tanto più con una crisi come questa, ricostruire le radici dal basso perché la forza della Cgil è sempre stata questa, non la legittimazione che altri ti hanno dato. Se tu rappresenti, se tu capisci il nuovo, i cambiamenti produttivi, se con la fatica ti sporchi le mani, se sei presenti tra le persone che hanno problemi, allora sì che acquisti autorevolezza».
Mimmo da Salerno: “Bisogna che si modifichino le regole delle elezioni delle Rsu e allora sai quanti delegati?. Ma la Cisl blocca le elezioni”.
«È la nostra sfida. Noi vogliamo più democrazia. La Piaggio dell’altro giorno è un esempio: due posizioni diverse, i lavoratori hanno deciso. Così bisogna fare per gli accordi inter-confederali e per i grandi accordi. Ma non lo dico per usare la leva democratica contro gli altri perché, come si è visto, puoi vincere e puoi anche perdere. L’unica cosa che non va bene e che voti solo quando sei sicuro di vincere, non va bene come idea democratica».
Ritorno al Circo Massimo. Qual è la differenza con il 2002? Lì c’era la difesa dell’articolo 18 ora sembra che manchi uno slogan unificante.
«Nel 2002 le tre differenze con oggi erano che il governo ci attaccò sull’articolo 18 e anche sul “Patto per l’Italia” firmato da tutti tranne che da noi. L’articolo 18 fu il simbolo, l’idea unificante. La seconda differenza è che il quadro politico è cambiato: lì c’era un governo in difficoltà e un’opposizione molto forte che immaginava di poter concorrere a governare di nuovo. La terza differenza è che non c’erano le fabbriche chiuse, non c’era la paura del futuro. Questo era il 2002. Oggi siamo in una situazione in cui il governo è molto forte e l’opposizione è molto debole, c’è una crisi che riguarda i lavoratori delle fabbriche e le decine di migliaia di precari dalla Pubblica amministrazione che andranno a casa a giugno e quelli della scuola che non saranno confermati a settembre. In più il governo ti attacca in maniera più intelligente, non toccando i temi apparentemente più simbolici (non a caso dice: sulle pensioni non faccio niente), ma poi ti attacca sul Testo unico sulla sicurezza, sul fatto che non dà più restituzione fiscale ai lavoratori, sulla cassa integrazione, sulla politica industriale. Quindi abbiamo più di una questione e per questo abbiamo fatto lo slogan “Futuro sì, indietro no”, perché la Cgil vuole guardare avanti, su come ricostruire un paese dopo la crisi. “Indietro no” vuole dire tante cose: indietro no sui temi della Costituzione, sul tema dei diritti, sul tema di pensare ai lavoratori per ultimi. Vogliamo guardare avanti, ma per portare in questa idea di paese quei valori essenziali dei diritti e della coesione sociale. Questa è la sfida vera del 4 aprile».
Quale partecipazione si aspetta?
«Devo dire che girando il paese il sentimento di dire “Ci vediamo a Roma” sta diventando molto molto serio. La gente vuole partecipare in prima persona a far capire che bisogna contrastare la crisi in un altro modo. Ci sono valori come quelli della partecipazione democratica che vanno consegnati al paese che verrà. Se usi la crisi per ridurre i diritti, c’è una regressione e i diritti rischi di non riconquistarli più. La cosa che ci colpisce è che questo avviene solo in Italia: in tutto il resto d’Europa questa crisi viene utilizzata per rimettere al centro politiche industriali, idee di coesione, sostegno ai ceti più deboli. Quando dico che il governo non ha speso nulla, e poi il governo si arrabbia, dico la verità perché fino ad oggi per il triennio il governo ha messo 16 miliardi di spese aggiuntive di cui 12 destinati alle banche, quindi tutto il resto sono 4 miliardi. Quindi poi tutto il resto dei numeri (opere pubbliche, eccetera) sono tutti già stanziati, sono una rimodulazione di cifre, quella roba lì già c’era. La verità è che tutta questa crisi fino ad oggi viene affrontata con 4 miliardi in cui ci sta il mezzo miliardo per l’industria dell’auto, un po’ per la social card, un po’ di politiche per le famiglie, per altro neanche partite. È un governo che ha affrontato la crisi con l’occhio al bilancio e se tu guardi solo al bilancio il paese esce peggio dalla crisi».
Daniele, lavoratore dei call center: “Come mai il sindacato ha deciso in maniera improvvisa che i lavoratori dei 4 più grandi gestori di telefonia non potranno essere al Circo Massimo?”
«Nei luoghi di lavoro c’è una spinta forte a partecipare. C’è più voglia di manifestare nei lavoratori che nei quadri intermedi. Questi sono portati sempre a pensare: “Cosa si fa dopo?”. Il problema è che il 4 aprile non è sciopero, abbiamo deciso di fare una manifestazione nazionale. Poi alcune categorie o articolazioni territoriali, come la Cgil Lazio, hanno deciso autonomamente di scioperare per garantire di esserci anche a chi di sabato normalmente lavora. Ma io voglio che sia chiaro, soprattutto in questo periodo di crisi, che l’uso dello sciopero deve essere un uso molto attento. Perché non è facile chiedere ad una famiglia di un lavoratore in cassa integrazione a 700 euro di perdere una parte importante del proprio salario: ci sono casi in cui scioperare può costare, con i computi dei ratei su permessi e ferie, anche come tre giorni di lavoro. Devi capire che la gente vuole scioperare, ma proprio non ce la fa e rispettarla».
Un nonno da Torino si preoccupa della nipote perché è una precaria e non sa dove mettersi nel corteo.
«I precari sabato saranno tanti e li faremo parlare. Dopo una parte musicale, sul palco parlerà una giovane precaria, un delegato Fiat di Pomigliano, un medico per la questione dell’autodenuncia, un immigrato e un’anziana pensionata. Parleranno quindi tutti i segmenti sociali più esposti alla crisi. Posso poi anticiparvi che l’attore che ha interpretato Di Vittorio, Pierfrancesco Favino, leggerà un passo di un suo discorso e che a gestire tutto ci sarà Massimo Wertmuller, che nello sceneggiato su Di Vittorio interpretava Togliatti. Ci sarà una presenza importante. Una grande presenza da tutt’Italia. Certo, dalla Sicilia è più difficile quando non ci sono più treni a disposizione. Ma sono convinto che sarà una straordinaria manifestazione. Sul fatto di tornare al Circo Massimo: prima o poi dovevamo farlo e questo è il momento giusto. Anche perché siamo in tempo di crisi e ci sono grandissime manifestazione in tutta Europa: in Francia ci sono stati due scioperi generali grandissimi, oggi c’è una manifestazione a Londra. Lì si sta per aprire il G20 e noi sabato manifesteremo quando il summit si sarà appena chiuso».
Parliamo del 4, ma poco si sa ancora sul primo maggio.
«La manifestazione unitaria la terremo con gli altri sindacati a Siracusa, città che è un grande polo edile, ed essendo in Sicilia sarà legata non solo alla crisi ma anche al tema della legalità e dei diritti. Quella zona del Paese ci chiede di stare assieme e noi lo faremo. Con Cisl e Uil noi possiamo litigare su tutto, e lo facciamo, ma quando c’è da evitare di chiudere una fabbrica ci impegniamo tutti insieme».
In Francia ci sono stati episodi di rabbia. C’è questo rischio anche da noi?
«In Francia ci sono state grandi iniziative nonostante Sarkozy abbia fatto molto contro la crisi. La crisi può produrre due reazioni: da una parte la rassegnazione e dall’altra l’esasperazione. Probabilmente le due condizioni convivono in molti. E qui c’è l’importanza della Cgil: cerchiamo di evitare le forme di esasperazione di pochi e la rassegnazione degli altri. Proviamo ad evitare che nella crisi ognuno pensi a sè, come vorrebbe Berlusconi».
Qual è il termometro della crisi?
«La crisi è pesante ed è la ragione per cui stiamo disperatamente strappando accordi aziendali, come ieri sera all’Eurallumina di Portovesme in Sardegna (dove Berlusconi è arrivato, ha promesso e poi è sparito). Più difficile è nelle piccole e piccolissime imprese: guardando al numero dei fallimenti ad esempio a Treviso si coglie una realtà impressionante, le sofferenze sono altissime. Solo che per vederlo devi avere attenzione all’economia reale e il governo non l’ha».
Chiudiamo con la stampa: è in difficoltà soprattutto nei grandi gruppi. Le sembra un’emergenza?
«Sì, perché la carta stampata è in difficoltà in tutto il mondo. Un po’ a causa dei nuovi mezzi, un po’ per il calo della pubblicità. Poi c’è un problema di conformismo della stampa, c’è un uso di questo conformismo da parte di questo governo, ancor di più se anche i tg pubblici e i grandi giornali cambieranno direttori. Il rischio è di avere una stampa che ricostruisce un’immagine del Paese che non è. In più è stato firmato il contratto: so che c’è malumore, ma resto dell’opinione che per fortuna si è riconquistato il contratto. Perché fino all’ultimo il rischio è stato non solo di non averlo adesso, ma di non averlo più. Una parte degli editori ha cercato fino all’ultimo di non firmare nè ora nè mai, per arrivare ad un modello di contratto ad hoc per ogni giornale. Il contratto invece garantisce più diritti a tutti».
L’Unità, 29 marzo 2009
L’Unità, 29 marzo 2009
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