domenica 20 marzo 2011

Rombano i motori dell'armata dell'Occidente

di EUGENIO SCALFARI
A PARIGI il vertice internazionale dei Paesi interventisti ha deciso l'attacco militare immediato avvertendo Gheddafi che lo stop ai raid è subordinato alla sua resa. Gli aerei delle potenze che agiscono sulla base della risoluzione dell'Onu sono arrivati nelle basi italiane. L'operazione militare è cominciata, ma il dibattito politico in Europa è apertissimo. Aiutare gli insorti, impedire che le milizie del raìs libico occupino Bengasi e Tobruk, soccorrere i profughi e arginare l'ondata dei migranti, sono obiettivi condivisi da tutti. Resta invece una differenza di opinioni molto profonda sui limiti tattici dell'intervento e sulla strategia politica nei confronti di Gheddafi. Bisogna impacchettarlo consegnandolo alla Corte di giustizia internazionale e processarlo per i crimini commessi contro il suo popolo? Oppure munirlo d'un salvacondotto ed esiliarlo? Oppure ancora lasciargli una parvenza di potere in una sorta di libertà vigilata disarmata e commissariata? Infine: bisogna mantenere l'unità della Libia o prendere atto che quell'unità è un'invenzione perché Tripolitania e Cirenaica sono realtà diverse dal punto di vista storico, tribale, religioso e la loro fittizia unità è stata imposta dal colonialismo italiano prima e dalla dittatura di Gheddafi poi?

Questo dibattito divide trasversalmente l'opinione pubblica europea ed anche i governi dell'Unione. Soprattutto divide Parigi da Berlino, Sarkozy da Angela Merkel. Bombardare o negoziare, questo è il tema. In Italia divide anche la destra; Berlusconi, dopo il lungo fidanzamento con il raìs libico, è entrato a far parte degli interventisti; Bossi si è allineato con la Merkel. Ma la divisione attraversa anche l'opinione pubblica al di là degli schieramenti politici.

Un fenomeno analogo si verificò trent'anni fa, quando l'Urss cominciò a dare palesi segnali di implosione. Regnava al Cremlino Breznev ma crescevano le tensioni all'interno del partito e del regime tra chi voleva perpetuare all'infinito la dittatura post-staliniana e chi voleva invece aprire la strada ad un "comunismo dal volto umano". L'opinione pubblica e le cancellerie occidentali si divisero tra i favorevoli all'innovazione e chi vedeva in Breznev una garanzia di stabilità europea e mondiale. Si sa come finì: Breznev, stroncato dalla malattia, aprì la strada ad Andropov, seguito da Cernenko, poi venne Gorbaciov, la "perestrojka", Eltsin e infine Putin. Storie molto diverse e non paragonabili con quella libica ma è interessante ricordare come reagì allora l'Occidente e come reagisce oggi sul caso Gheddafi. Le analogie sono forti. Alla base, come sempre avviene in politica, ci sono i diversi interessi che ispirano l'azione dei governi e orientano la pubblica opinione.

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Poche settimane fa, dopo la caduta di Mubarak, del dittatore tunisino Ali e delle insorgenze nello Yemen e negli Emirati, anche i giovani di Tripoli e soprattutto di Bengasi si ribellarono mettendo a mal partito la dittatura di Gheddafi che durava da oltre quarant'anni. L'Occidente non ebbe esitazioni: il caso libico appariva come un altro tassello della rivoluzione nord-africana; al Qaeda era scavalcata da un movimento che vedeva insieme uomini e donne, motivato da uno slogan formidabile: "pane e libertà", al tempo stesso sociale e ideale. Sembrò e in gran parte rimane una svolta storica, un'innovazione profonda che scavalcava il terrorismo di Bin Laden, il fondamentalismo coranico e talebano, aprendo un capitolo inedito nella convivenza delle civiltà. Questa fu la prima e unanime reazione dell'opinione pubblica ed anche delle cancellerie occidentali ma si pose subito il problema della gestione politica della fase successiva all'abbattimento delle dittature.

In Egitto l'esercito è sempre stato il perno dello Stato e non poteva che esser l'esercito a gestire la transizione. La storia della Turchia ne forniva l'esempio. In Tunisia mancava la "risorsa" dell'esercito e infatti la transizione si presenta ancora fragile e agitata. La Libia è un caso a sé, assai diverso dagli altri. Il paese è geograficamente immenso, demograficamente assai poco popolato, non arriva a cinque milioni di abitanti. Ricco di petrolio solo parzialmente sfruttato. Da quasi mezzo secolo guidato da Gheddafi con mano di ferro, accortamente populista, spregiudicato, corrotto, avventuroso oltre ogni limite. L'esercito non è che una milizia ben pagata e ammaestrata, con reparti speciali mercenari, una sorta di "legione straniera" assai contundente e feroce. Convincerli alla resa è molto difficile. Alle brutte i mercenari si squaglieranno, la milizia tribale si difenderà fino alla fine. Dopo l'inizio dell'operazione militare resta dunque la domanda: bombardare fino a che punto? Negoziare fino a che punto?

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Si possono, anzi si debbono bombardare gli aeroporti, abbattere i caccia se si alzeranno o distruggerli a terra, smantellare gli impianti di comunicazione, colpire le truppe se non si ritireranno nelle caserme. Più in là non si può andare. Quanto alla negoziazione si può forse rilasciare un salvacondotto al raìs e ai suoi familiari. Se non ci sta, bisogna abbatterlo, ogni altra soluzione è impensabile, sarebbe fonte di trappole continue e di incontrollabili avventure. A questa strategia vengono opposte due obiezioni. La prima sostiene che il mandato dell'Onu non può violare la sovranità di uno Stato che tra l'altro non ha invaso nessun altro paese. Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait però si ritirò subito dopo l'ingiunzione internazionale ma l'armata di Bush in nome dell'Onu lo inseguì fino a Baghdad, lo processò e lo giustiziò. L'Onu di tanto in tanto assume le sembianze di uno Stato mondiale di fronte al quale le sovranità nazionali debbono cedere il passo. È avvenuto di rado ma alcune volte le sue risoluzioni hanno avuto questa valenza. In quante occasioni avremmo voluto l'esistenza di uno Stato mondiale nell'era della globalizzazione?

La seconda obiezione è: che cosa avverrà dopo? Una Libia senza un capo, senza una classe dirigente, sarà ancora governabile? Si dividerà in due, in tre, in cinque pezzi? Diventerà preda dei signori della guerra? E il suo petrolio? Le sue città? Le sue aziende? Gli investimenti esteri? I pessimisti temono che la Libia senza Gheddafi sarà un'altra Somalia, nido di briganti e di pirati. È un destino che le ex colonie italiane facciano tutte questa fine?

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Questa obiezione è più pertinente della prima. Non considera però che anche in Tripolitania e in Cirenaica esiste un ceto evoluto, esiste una rete di aziende produttive, un artigianato folto, una gioventù che aspira a cimentarsi con l'amministrazione e con la politica e una religione che fa da cemento sociale.

Bisogna accompagnare questa fase di rinnovamento, aiutarli a costruire uno Stato, un'amministrazione, una rete di commerci e di produzione. La Turchia può aiutare, l'Egitto può aiutare. L'Europa deve aiutare e l'Italia che ha responsabilità notevoli a causa di un antico e di un recentissimo passato con parecchi peccati da scontare.

Romano Prodi in una recente intervista ha tracciato una lucida visione del "che fare" nell'Africa mediterranea e in Libia in particolare. Parlava con la duplice esperienza di ex presidente del Consiglio e di ex presidente dell'Unione europea. Proponeva tra le altre cose trattati di associazione dei Paesi africani mediterranei all'Unione europea. Non ingresso nell'Unione per il quale non esistono le condizioni, ma associazione, amicizia istituzionalizzata a vari livelli secondo le condizioni politiche, sociali ed economiche di quei Paesi.

Queste proposte andrebbero riprese e messe con i piedi per terra. Il Mediterraneo è stato per millenni il centro del mondo atlantico. In tutte le sue sponde è un mare europeo e ancora di più lo è oggi con l'immigrazione che in questo Ventunesimo secolo cambierà la fisionomia etnica del continente. Flussi di persone e di famiglie, flussi di capitale e di investimenti, flussi culturali e religiosi, conquista di diritti, osservanza di doveri poiché ogni dovere suscita un diritto e ogni diritto comporta un dovere. L'Italia ha una missione da adempiere e una grande occasione da cogliere. Noi ci auguriamo che ne sia all'altezza. Le esortazioni di Giorgio Napolitano ci siano, anche in questo, di insegnamento e di stimolo.

In questi mesi la figura del nostro Presidente ha acquistato uno spessore etico e politico che ne fa il punto di riferimento di tutto il Paese. Questa unanimità non è posticcia né retorica, esprime un sentimento e un bisogno. Ci rafforza come nazione. Rafforza i nostri legami europei. Suscita all'estero rispetto e ascolto. Non eravamo più abituati a questa considerazione, avevamo scambiato (alcuni avevano scambiato) la politica delle pacche sulle spalle per considerazione internazionale. Ora non è più così. Abbiamo una guida ed una rappresentanza migliore. Possiamo di nuovo considerare la nostra presenza mediterranea come un punto di forza non solo per noi e per i nostri legittimi interessi nazionali, ma per l'Europa e per l'Occidente.
La Repubblica, 20 marzo 2011

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