Carlo Ruta |
di Alessandro Zardetto
Il 22 giugno è arrivato in tutte le librerie Narcoeconomy, il nuovo libro del giornalista e storico Carlo Ruta. Un testo inedito, tra saggio e inchiesta (192 pagine, edito da Castelvecchi RX), che racconta del più grande e redditizio business delle mafie: il narcotraffico. L'analisi di Ruta parte da un dato particolarmente allarmante: nell'attuale crisi globale, l'unica attività economica che continua crescere e a garantire utili è proprio quella legata al traffico e alla produzione di droga. Tutti i piani di contrasto messi in atto dai governi mondiali, infatti, stanno fallendo mentre aumentano i capitali a disposizione degli imperi criminali.
Secondo lei, il potere delle mafie quanta influenza ha sulle scelte delle maggiori democrazie?
L’influenza delle mafie tende ad aumentare per un fatto soprattutto economico: i business criminali sono in crescita, e tanto più lo sono quelli delle droghe, perfino incentivati dalla crisi, che spinge ai margini e alla disperazione le aree sociali più deboli. A fronte di una recessione che negli anni scorsi ha colpito le attività produttive di numerosi i paesi, ricchi e poveri, il narcotraffico va ponendosi quindi come economia di sostegno. Il dato, clamoroso, è stato ammesso addirittura da Antonio Maria Costa, direttore dell’Unodc, l’Ufficio antidroga dell’ONU, con stime e dati. Secondo Costa nei mesi clou della recessione ben 325 miliardi di dollari ricavati dalla droga sarebbero affluiti a grandi gruppi bancari del Regno Unito, della Svizzera e italiani. In sostanza, il salvataggio di queste banche sarebbe stato sostenuto dalle narcomafie. Basta allora questo dato per comprendere i poteri di ricatto sulle democrazie dell’Occidente di cui i signori della droga dispongono oggi.
In base ai dati che ha raccolto, può quantificare la rendita del narcotraffico? Negli anni come si è evoluto questo dato?
Gran parte delle agenzie internazionali concordano nello stimare in circa 500 miliardi di dollari il giro d’affari annuo delle droghe, equivalente al fatturato delle prime sette casa automobilistiche della terra, ma anche a un terzo del Pil dell’intero continente africano. L’evoluzione è rilevabile dalle cifre delle tossicodipendenze, dei sequestri di droghe, dai trend della criminalità. Il narcotraffico negli ultimi due decenni ha invaso regioni che ne erano largamente libere. È emblematico il caso dell’Africa, dove convergono da anni le rotte della coca dall’America Latina, in direzione per l’Europa, e quelle dell’eroina da Oriente. I consumi di hashish e di cocaina hanno conosciuto poi un vero e proprio sprint, mentre, come avverte la stessa Unione Africana, la corruzione dei narcos in Guinea, in Costa d’Avorio e in altri paesi rischia di destabilizzare l’intera regione occidentale del continente, tra le più povere e, politicamente, tra le più deboli. Il business si è consolidato intanto nell’est europeo, a partire dalla Russia, dove, come denunciato dal Servizio federale per il controllo degli stupefacenti, si contano oltre 2 milioni e mezzo di tossicodipendenti da eroina, e rimane sostenuto nell’Europa occidentale.
Come si spiega tutto questo?
I grandi trafficanti di droga hanno saputo cogliere diverse opportunità. La prima è venuta dalla svolta neoliberista, sostenuta dai rivolgimenti nell’Est sovietico del 1989-1992, che hanno consentito di riorganizzare i traffici tra Oriente e Occidente. La seconda è scaturita dai paradisi d’oltremare, andati in auge ancora negli anni ottanta-novanta, dove trust e gruppi bancari internazionali hanno imparato a interloquire con maggiore stabilità con il mondo dei narcotici, delle armi e del contrabbando. La terza grande occasione è stata offerta, come si diceva, dalla crisi globale, da cui il narcotraffico, che copre circa il 60 per cento di tutti i business fuorilegge, ha tratto vantaggi particolari, grazie soprattutto alla propria facoltà di generare contante.
Secondo lei, fino a oggi i governi sono stati realmente interessati a contrastare il narcotraffico?
I governi, a partire da quelli dei paesi più ricchi, hanno mantenuto fin qui un approccio ostinatamente repressivo, che si è rivelato però del tutto inefficace. L’emergenza è oggi un fatto planetario, e come tale viene riconosciuta. Il caso degli Stati Uniti è istruttivo: circa la metà della popolazione delle carceri federali americane ha compiuto reati di droga. I trend dei consumi restano intanto sostenuti e in alcuni States perfino in crescita. Ciò malgrado si stenta a mettere in discussione il paradigma proibizionista, che è la causa prima dell’attuale situazione. Washington ha dietro una lunga storia di «crociate» contro il narcotraffico, soprattutto quello latinoamericano. Con quali risultati? In Perù, dove sono state condotte operazioni antidroga sin dagli anni cinquanta-sessanta, la produzione di cocaina torna a crescere. Malgrado il Plan Colombia, in atto dai primi anni novanta, nelle aree colombiane si continua a produrre una percentuale alta della coca mondiale. I cartelli di Medellin e Cali sono stati colpiti, pure militarmente, e sono stati bloccati i transiti di cocaina sulla rotta caraibica, ma le centrali del narcotraffico si sono spostate in Messico. Infine, la war on drugs ingaggiata contro i narcos messicani dal governo Calderon, su ispirazione delle amministrazioni americane, ha finito per irradiare la violenza e i business dei cartelli in Honduras, nel Salvador, in Guatemala e in altri paesi della regione centrale. In definitiva, tutto tende al peggioramento.
Perché le amministrazioni di Washington restano legate a questa linea, in America latina?
Le wars on drugs sono l’effetto di un paradigma controverso, ma anche effetto della mentalità militaristica che, tanto più nel secondo dopoguerra, è andata radicandosi nell’establishment statunitense. Indubbiamente esistono motivazioni di sicurezza nazionale. Negli States i consumi di droga nel secondo Novecento hanno superato i livelli di guardia e la situazione rimane critica. Le guerre alla coca sanciscono in ogni caso un potere di fatto. La dislocazione della DEA e di quadri militari in numerosi paesi ha garantito e continua a garantire ai governi americani e al Pentagono un potere reale di controllo sulle politiche dell’intero continente. Gli Stati Uniti hanno sempre considerato i paesi a sud, a partire dalla sponda messicana del Rio Grande, il proprio cortile di casa. La dottrina Monroe, insomma, non è mai venuta meno, e la versione che ne è uscita negli anni della guerra fredda ha partorito, come è noto, autentici mostri: dittature militari, squadroni della morte, stragi, delitti politici seriali. Adesso si tende ad agire diversamente, utilizzando modi e strumenti più limitati, più “tollerabili” e compatibili con le democrazie latinoamericane. Ma il nocciolo politico rimane intatto. È indicativo che paesi come la Bolivia di Evo Morales, l’Argentina di Néstor Kirchner e il Venezuela di Chavez abbiano espulso la DEA e i suoi supporti militari perché ritenuti a capo di attività cospirative.
Negli ultimi anni abbiamo assistito e assistiamo ancora a vere e proprie guerre per il controllo della droga. Quali sono i fronti più caldi? Dopo la morte di Pablo Escobar chi sono i nuovi "Signori della droga"?
Il centro della tensione si è spostato appunto in Messico, dove infuria una vera e propria guerra che per numero di vittime, caratteri e aspetti strategici trova un solo riscontro negli anni più cruenti della Colombia di Pablo Escobar. Quel limite potrebbe essere però già superato. Il Messico per il traffico di coca è divenuto la chiave di tutto. Se prima nei confini di questo paese scorreva il 50 per cento della polvere bianca colombiana destinata agli Stati Uniti, dai primi anni novanta ne transita circa il 90 per cento. I cartelli locali, che hanno assunto il controllo dell’intero ciclo, hanno finito per collocarsi quindi al top del narcotraffico globale. Basti pensare che il solo patrimonio di Joaquin Guzmán Loera, capo del cartello di Sinaloa, viene stimato in oltre un miliardo di dollari. La ricaduta di questo business sull’economia messicana è enorme. I cartelli hanno acquisito banche che riescono a garantire tassi di interesse competitivi rispetto a quelli concessi da banche “regolari”. E sul Prodotto nazionale lordo la coca ha un peso complessivo del 5-6 per cento. In questo senso, Medellin appare lontana. Molte cose sono cambiate dagli anni settanta-ottanta, quando Escobar, insieme con la famiglia Ochoa, faceva le regole della coca su scala mondiale.
E nelle regioni dell’oppio cosa accade? Chi controlla i flussi della droga?
Gli affari degli oppiacei stanno conoscendo una stagione florida, mentre l’Onu sovvenziona i paesi produttori per l’attuazione dei programmi di eradicazione, con risultati mediamente esigui. Al centro di tutto sta l’Afghanistan, da cui si irradia il 90 per cento dell’oppio globale. Sulla rotta più importante, quella della Mezzaluna d’Oro che conduce in Europa, conserva un ruolo determinante la mafya turca, tornata ad agire in profondità dopo che l’incidente di Susurluk del 1996 ne ha rivelato i rapporti con lo Stato. Attiva sulla stessa rotta è la mafia russa, l’Organizatsya, che secondo alcune fonti, giornalistiche e giudiziarie, dopo l’implosione sovietica ha fornito l’assist a numerosi imperi economici “legali”. Ancora su questa rotta fanno business i clan ucraini, kosovari e albanesi. Il Triangolo d’Oro del sud-est asiatico, che negli ultimi anni ha registrato una tenuta relativa delle coltivazioni di oppio e il boom delle droghe sintetiche, in particolare le metanfetamine, rimane infeudato invece alle Triadi, soprattutto a quelle di Hong Kong e Macao, oltre che ai locali signori della guerra. In virtù di tutto questo, la mafya turca, l’Organizatsya e le Triadi, egemoni queste ultime sulle rotte del Pacifico e dell’Oceano Indiano, in direzione degli Stati Uniti e dell’Australia, formano il gotha del traffico di eroina.
Che ruolo svolgono in questa partita le principali associazioni criminali italiane?
La criminalità organizzata italiana vive situazioni differenti. Dalla seconda metà degli anni novanta i clan della Sicilia hanno dovuto fare significativi passi indietro. La sfida militare allo Stato ha determinato troppi arresti, l’irrigidimento del regime del 41bis, la confisca di patrimoni ingenti. È stato inevitabile quindi il ritiro dal grande narcotraffico. Da alcuni anni c’è però voglia di ripresa. Si sta tentando di ricucire, in particolare, i contatti con le famiglie mafiose statunitensi, ma le difficoltà persistono. Di questa situazione ha beneficiato in fondo la ‘ndrangheta, subentrata quale interlocutore strategico dei cartelli colombiani e, dopo, messicani. La mafia calabrese è stata agevolata pure dai sommovimenti geopolitici dell’est nei primi anni novanta, perché ha potuto relazionarsi con i clan balcanici in ascesa, e, più in generale, con quelli che operano sulle rotte della Mezzaluna. Non è tutto perché, come è stato documentato da alcuni osservatori, dopo il 2001 i calabresi hanno guadagnato dalle politiche statunitensi del Patriot Act, le quali, nel colpire i paradisi oceanici, sospettati di collusione con il terrorismo islamico, hanno finito per incoraggiare il riciclaggio, da narcotici e non solo, nei paradisi del Nord Europa, dove le ‘ndrine esercitano da decenni una discreta influenza. Le realtà italiane non fanno comunque storia a sé. Sono parte di un sistema complesso, che ha formato ricchezze criminali notevoli in tutte le latitudini. C’è poi un aspetto che merita di essere sottolineato. I colpi inferti dallo Stato alle mafie storiche stanno offrendo, probabilmente, delle occasioni a realtà di minore profilo. In Sardegna, per esempio, i reati per droga presentano numeri significativi e vige un inedito clima intimidatorio. In evoluzione appare poi la situazione nel Lazio, Roma inclusa, dove negli ultimi due anni sono avvenuti sequestri ingenti di cocaina.
Nel suo libro c'è una interessante parte dedicata all'America Latina. Ha intervistato alcuni importanti giornalisti che si occupano da sempre di Narcos e democrazia. Che idea si è fatto a proposito?
Come detto, il continente ha vissuto il Novecento nella morsa di regimi illiberali. E tanti intellettuali sono riusciti a rappresentare con pienezza le istanze civili delle popolazioni, rivendicando il rispetto dei diritti e della dignità umana. Di qui la motivazione a far parlare alcuni esponenti emblematici di questo mondo. Si tratta di Gustavo Gorriti, già direttore de «La Prensa» di Panama, coeditore in Perù del giornale «Repubblica» e collaboratore del «New York Times», il docente colombiano Omar Rincón, direttore del Ceper, dell’Universidad de los Andes, e lo scrittore uruguaiano Raúl Zibechi. Hanno espresso punti di vista differenti, perché differenti sono le loro storie. È comune comunque il convincimento che l’America latina sia ancora lontana dall’uscita del tunnel, per il persistere delle disuguaglianze sociali, e, più ancora, per le umiliazioni che continua a subire dall’altra America.
Omar Rincón parla di narcoestetica, un concetto inedito per l’Italia. Di cosa si tratta di preciso?
Si tratta della cultura della droga che si è insinuata nel vivo delle società in Colombia, in Messico, in altri paesi del continente, distante da quella andina legata alla foglia di coca, che gode di una tradizione millenaria. È l’etica della ricchezza e dell’autoaffermazione a qualsiasi costo, che pone il denaro al centro di tutto. La narcoestetica, che si manifesta attraverso la musica, il teatro, il cinema, le telenovelas e altre forme artistiche, è espressione del narcosistema, valutato da Rincón come fattore di mobilità, di riscatto economico sociale, in un mondo che regge su disuguaglianze ataviche. Viene ravvisata come emblematica al riguardo la vicenda di Pablo Escobar, su cui esiste una vasta letteratura agiografica in tutto il continente. Per le popolazioni dell’America latina, tanto più per i ceti più svantaggiati, Escobar rimane l’eroe per eccellenza. E lo stesso modello propone Joaquin Guzman, leggenda del Messico profondo, dei giovani che, allontanatisi dalla povertà delle zone rurali, aspirano a migliorare radicalmente la loro condizione, facendosi largo a colpi di mitra.
Secondo lei, esiste un modo reale per contrastare i traffici illegali di droga?
Esiste ed è realizzabile. Si tratta della legalizzazione del consumo di droghe, reclamato da tempo da numerose agenzie nazionali e internazionali. Pure per effetto della crisi, in questa direzione stanno avvenendo fatti significativi. In America latina la Commissione sulle Droghe e la Democrazia, guidata da tre ex capi di Stato, Cardoso, Gaveria e Zedillo, propone di trattare il consumo di droghe come problema sanitario anziché criminale. La Commissione dell’Unione Europea si è detta interessata a ridiscutere il paradigma. Richieste di legalizzazione, sostenute anche da ambienti moderati e perfino tradizionalisti, vanno sommandosi poi nel Regno Unito e negli stessi Stati Uniti, mentre la Commissione dell’Unione Africana, per voce del suo presidente Jean Ping, continua a denunciare i danni che il narcotraffico sta provocando all’intero continente. Serie perplessità insorgono inoltre negli ambiti proibizionisti, inclusi quelli più accesi. Nell’ultimo rapporto dell’U.S. Government Accountability Office sulle wars on drugs in America latina si parla di una guerra perduta, a fronte dei miliardi di dollari erogati ai paesi produttori di cocaina. E questo convincimento, secondo un recente sondaggio, è condiviso dal 71 per cento dei cittadini statunitensi. In definitiva, mentre il ricatto criminale diventa sempre più oneroso, le comunità e numerose realtà pubbliche s’interrogano su cosa fare. La posta in gioco è altissima. Negli anni trenta la fine del proibizionismo degli alcolici indusse Lucky Luciano, Meyer Lansky e altri grandi gangster a investire sull’eroina, ritenuta allora l’affare del futuro. Oggi una riconversione del genere sarebbe impossibile, perché le droghe formano il business illegale supremo. Allo stato delle cose, sopra di esse non c’è nulla. Sugli imperi criminali il cambio di paradigma potrebbe avere quindi effetti devastanti. Ma gli Stati sono disposti ad azzardare, ad andare fino in fondo?
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