di Concita De Gregorio
C'è solo da continuare a cercare. Chi cerca la verità non lo fa a vantaggio di qualcuno, è chi depista lo fa per occultare qualcosa, proteggere qualcuno. Le cose stanno come avevamo immaginato in questi anni e anche peggio. Torno da questi tre giorni in Sicilia con la certezza che quei magistrati, se non si impedirà loro di lavorare, potranno dire al Paese la verità che fin qui è stata nascosta». Si chiude così l’analisi dei fatti che Walter Veltroni fa all'indomani della lunghissima audizione dei magistrati siciliani in commissione Antimafia. Audizione secretata nel merito della quale - dice subito - «non entrerò per rispetto istituzionale ed etico del segreto. Posso però dire che sono stati giorni straordinari, di grande valore storico ed emotivo. Ne esco con la conferma che ciò che abbiamo detto in questi anni è assolutamente vero. È vero ciò che scrissi su questo giornale nella notte delle stragi, quasi vent’anni fa. È vero ciò che ha detto il presidente Pisanu parlando di “convergenza di interessi tra mafia, logge massoniche, pezzi di apparati deviati, settori politici”. Ripeto ciò che ho detto in questi mesi e che ora è da tutti confermato: le stragi del ‘92-’93 sono state stragi dell'Antistato, non solo stragi di mafia. C'è stato un disegno volto al condizionamento della vita politica nazionale e non era certo Totò Riina a guidarlo. Dico Antistato perché non voglio smettere di pensare che lo Stato siano Falcone, Borsellino, Caponnetto, gli uomini delle scorte, coloro che hanno speso la loro vita in difesa della legalità. Non importa quale grado gerarchico, quale posizione nella vita pubblica avesse chi ha complottato contro Falcone e Borsellino: era antistato».
Stiamo alle dichiarazioni pubbliche rese dai magistrati fuori dall'audizione: siamo davvero a un passo dalla verità?
«Sembra emergere, hanno detto alla stampa i magistrati, che l’assassinio di Borsellino è stato spiegato negli anni seguendo un depistaggio spaventoso. Una falsa verità costruita ad arte. Le dichiarazioni di Spatuzza fanno ripensare a quel che anni fa disse Brusca: per via D'Amelio ci sono innocenti in galera. Si sono evidentemente fatti passi avanti nel disvelare una gigantesca menzogna. Ma se Scarantino non è il responsabile dell'assassinio di Paolo Borsellino: perché qualcuno si è accusato di responsabilità che non aveva e per questo ha accettato condanne dure? Su mandato e per coprire chi, che cosa? Se si lasciano lavorare i magistrati, se avranno il sostegno delle istituzioni, se i mezzi di informazione non si lasceranno trascinare in pericolose operazioni di depistaggio (le fughe di notizie sono uno dei modi classici), se chi indaga sarà messo in grado di accedere alle fonti di informazione, ecco, allora davvero la verità sarà a portata di mano. Il sistema politico non deve avere paura della verità. Mi ha davvero colpito che il procuratore Lari abbia detto: il sostegno del capo dello Stato è importante. Sono importanti i segnali politici così come i gesti concreti: i colpi ai vertici della mafia, certo, ma poi sconcertano le contraddizioni. Negare la protezione a Spatuzza è messaggio pericolosissimo: se collabori non sei protetto. Una decisione assurda, mi rivolgo al governo: ci ripensi».
Spatuzza è stato oggetto di una campagna di discredito. Ci si domanda se sia credibile.
«Le parole di chi collabora con la giustizia devono trovare riscontri. Non bisogna delegittimare né credere a prescindere: bisogna verificare quello che dicono. Senza i pentiti né la mafia né il terrorismo sarebbero stati colpiti. Come ci ha detto un procuratore: le parole dei pentiti offrono una panoramica, poi ci sono altri strumenti per lo zoom. Le intercettazioni sono uno di questi. Il ddl sulle intercettazioni è pericoloso perché nega ai magistrati la possibilità di indagare: anche in materia di mafia, poiché come ciascuno sa molti reati di mafia sono emersi a partire da indagini che con la mafia in origine non avevano a che fare. E' questo il nodo della legge in discussione, questa la posta reale».
Ogni volta che si parla di stragi di stato, o di antistato, c'è chi ironizza sui complottisti e i dietrologi. È ora di uscire dalla panoramica ed entrare nel dettaglio: nomi, circostanze, prove, dicono. Dicono anche: come mai solo adesso, 18 anni dopo?
«È maturo il momento. Io non sono complottista né dietrologo. Guardo la realtà per quella che è. Piazza Fontana, Bologna, Piazza della Loggia, Ustica, la precisa composizione del commando che ha rapito Moro: se ancora non si sa con certezza come siano andate le cose non è per caso. Assassini rossi o neri, le mafie che hanno provato a distruggere il tessuto civile di questo paese non hanno mai agito da sole. Mi domando: perché si coprono verità cosi devastanti? Politicamente ci siamo già dati le risposte. I magistrati indagano quando sono in condizioni di farlo. Quando c'è chi collabora, per esempio. Oggi lo stanno facendo con serietà, con scrupolo, rischiando molto».
Un'altra domanda interessante è perché la mafia abbia smesso di fare stragi. È lo snodo del ragionamento di chi sostiene: perché lo scenario politico successivo alle stragi la garantiva.
«È un dato di fatto che le stragi finiscono in coincidenza con l’aprirsi, dopo il governo Ciampi, di una nuova fase politica, ed è altrettanto chiaro che le stragi non sono il linguaggio della mafia. La mafia uccide. Il Velabro, i Georgofili uomini come Riina non sanno neppure cosa siano. Un'altra mano, dal '69 in poi, c'è stata dappertutto. Perché la banda della Magliana compie il depistaggio del lago della Duchessa, perché rapisce Emanuela Orlandi, perché il suo capo è sepolto a Sant'Apollinare? Quando Grasso parla di "entità" non indica la Spectre ma un sistema di interessi che si coagula di volta in volta. Per me non vale solo per la mafia. È stato così per piazza Fontana, nel '78 con Moro. Qualcuno ha eseguito ma ci hanno messo le mani in molti. Nel libro di Flamigni dedicato a via Gradoli c'è una sorta di outlet del terrorismo: sul pianerottolo nell'appartamento di fronte a quello di Moretti e Balzarani il cognome sul campanello era Mokbel. La storia di questi anni è così. Che fine hanno fatto l'agenda rossa di Borsellino? Quella di Ilaria Alpi? Gli appunti di Cassarà, il file del computer di Falcone, la videocassetta di Rostagno? Ecco. Siamo forse oggi in condizione di arrivare a dirsi qualcosa che non si poteva dire prima. D'altronde la storia non è fatta della fretta bulimica dei giorni né dei mesi, è fatta di fasi. È arrivato il momento della verità ed è questo il tempo in cui chi sa ha il dovere di parlare: lo faccia. Il nostro paese ha diritto alla verità sulla sua storia».
A chi si rivolge?
«Ci sono molti testimoni viventi che hanno avuto in quegli anni responsabilità istituzionali e politiche. C'è stata per molto tempo una strategia destabilizzante. Guardiamo agli eventi di quei due anni. La mafia ha colpito prima i suoi referenti politici colpevoli di non aver ammorbidito la sentenza del maxiprocesso. Falcone, a Roma, stava arrivando al cuore del sistema finanziario e politico mafioso, è stato ucciso quando è stato lasciato solo. Poi la trattativa con l'Antistato - lo Stato non può trattare con la mafia. Non va a buon fine o Borsellino si oppone. Poi le stragi del ’93-’94, appena formato il governo Ciampi. Bisognava intervenire sull'esito della vita politica nazionale. L'alternativa è che fosse in corso un'altra trattativa. Oggi sappiamo che anche l'attentato all'Addaura non è andato come hanno voluto far credere. Agostino e Piazza, due agenti, sono stati uccisi in circostanze misteriose. Falcone diceva “menti raffinatissime”, e non penso si riferisse a Riina. Abbiamo avuto il nemico in casa, annidato dentro lo Stato. Siamo vicini, sì, a conoscere la verità ma è importante proprio per questo, proprio adesso il messaggio politico che si manda. La frase su Mangano non può essere dimenticata».
"Un eroe", per Berlusconi e Dell'Utri.
«Un uomo che ne ha sciolto un altro nell'acido, condannato a più ergastoli. Un segnale precisissimo, quella frase. Mi fa piacere che oggi se ne accorgano anche altri ma meglio sarebbe stato forse dirlo prima. Due anni fa per esempio, quando gli italiani andavano a votare: sarebbe stato bello sentirlo dire allora. No, Mangano non è un eroe».
L’Unità, 22 luglio 2010
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