di Marco Rovelli
La rivolta di Rosarno non desta alcuna sorpresa. È una conseguenza naturale entro una catena di eventi. Una presa di parola di esseri muti e invisibili, naturale e giusta. I braccianti in rivolta a Rosarno sono i soggetti più sfruttati, vero e proprio sottoproletariato moderno, e si rivoltano contro condizioni di vita intollerabili e vessazioni continue – e quando la rabbia esplode, allora non c'è più spazio per la gentilezza. Occorrerebbe pensarci prima: ma nessuno ha voluto vedere, anche se tutto era già evidente. Sono stato a Rosarno tre anni fa, avevo parlato con molti di quei braccianti, ero entrato nei luoghi dove dormono – se si può dire “entrare” in relazione a capannoni semi-diroccati e con coperture precarie. Mi raccontarono di italiani che entravano nel piazzale della vecchia cartiera di via Spinoza a pistole spianate, e sparavano colpi in aria o ad altezza d'uomo. Racconti di brccianti africani rapinati dei loro pochi averi, o lasciati come morti sui bordi della strada, aggressioni diurne e notturne, sia in paese che fuori. «Noi rispettiamo gli italiani ma loro ci trattano come animali», dice uno di loro in un video che si trova su youtube, girato in quella cartiera, spettrale terra desolata, all'indomani dell'incendio della scorsa estate. Anni di vessazioni finalizzate a tenerli al loro posto – che poi è il posto dei servi. Si trattava, dunque, di vedere quale sarebbe stata la scintilla nella polveriera. E la scintilla è arrivata. Nei braccianti della piana di Gioia Tauro mi si è reso visibile, incarnato, il doppio ruolo del migrante: da una parte macchina produttiva sfruttabile in quanto ricattabile (e la maggior parte di loro sono clandestini, dunque l'apice della ricattabilità), dall'altra capro espiatorio da perseguitare, su cui scaricare le tensioni irrisolte della società. A Rosarno i braccianti subsahariani sono l'ultimo anello di una catena di sfruttamento, che su di loro si riversa. 25 euro a giornata, con 5 euro da dare al caporale: è così anche per esteuropei e maghrebini, ma i subsahariani sono quelli – per la loro nerezza – meno voluti, quindi sono i primi a soffrire la crisi e fanno più fatica a trovare il lavoro a giornata. Braccia macchinali senza diritti né identità, che all'ennesimo sparo decidono di prendersi le strade, e uscire dal margine – con la furia di chi deve vivere nascosto e ha sempre gli occhi bassi e la schiena china sulla terra. Senza di loro, arance e mandarini marcirebbero sulle terre di piccoli agricoltori e latifondisti, devastando una terra già devastata dal dominio criminale. A Rosarno ci sono una ventina di 'ndrine, è cosa nota, com'è noto che la famiglia Pesce, la cosca più potente, ha pagato l'impianto di condizionamento della chiesa parrocchiale. Le cosche si sono arricchite col traffico di droga e armi, hanno reinvestito in attività immobiliari e finanza, e sono diventate i nuovi baroni, comprando terre a prezzi imposti grazie alla forza e alle minacce, e gestendo il mercato degli agrumi. Questo predominio ha determinato una crisi economica generalizzata sul territorio, e perciò si rende necessaria una manodopera servile e sottopagata come quella dei braccianti africani. Come il liberiano Michael, che avevo incontrato anche nelle campagne foggiane: sì, perché la grande maggioranza di questi ragazzi africani non risiede a Rosarno, ma dimora lì solo per il tempo della raccolta. Per il resto, si muove nel circuito degli stagionali, e dunque i pomodori in Puglia, le patate in Sicilia, e la base in Campania (dove Castelvolturno è la capitale residenziale, per così dire). Alcuni cittadini di Rosarno dicono che non vogliono più immigrati, adesso. Non si interrogano però su quello che gli immigrati hanno fatto servilmente per l'economia della loro zona in tutti questi anni, che si è sostenuta sulle loro spalle, le loro schiene, le loro braccia, la loro miseria. (Del resto ce ne serviamo tutti di quel sudore, visto che il prezzo basso delle arance che compriamoè dovuto proprio alla manodopera servile). E viene da chiedersi come mai quei rosarnesi non alzino invece la voce contro la 'ndrangheta, e non dicano che è la 'ndrangheta la rovina della loro terra, e che è la 'ndrangheta a dover sparire. Sono vittime anche loro, certo: ma allora perché prendersela con altre vittime ancora più vittime? Ecco, forse dovrebbero prendere esempio proprio dai braccianti immigrati, che – come a Castelvolturno - hanno avuto il coraggio di scendere in strada e far sentire a tutti che non ci stanno a subire ancora.
L’Unità, 09 gennaio 2010
sabato 9 gennaio 2010
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