Re-immaginare il capitalismo ed un nuovo welfare per un modello di futuro del Mediterraneo
Le posizioni della LUP
La decima edizione dello Stage di Filaga cade in un momento particolarmente significativo, segnato da ricorrenze importanti e da profondi cambiamenti degli assetti economici, politici, sociali e culturali che hanno governato - e talvolta solo assecondato - questi ultimi anni. Viviamo uno scenario in turbolenza che non può non accendere la sensibilità di quel reticolo di idee, passioni e tensioni costituito dalla Libera Università della Politica e che anima l’integrazione tra formazione e dibattito, tra diagnosi e proposta, sempre alimentata dalla comprensione storica, in linea col tempo presente e rivolta verso il futuro.
Il 2011 è l'anno delle celebrazioni dell'Unità del Paese e, come si è potuto registrare nel corso delle manifestazioni che si sono succedute, è stata l'occasione per riflettere sullo stesso processo unitario ma, soprattutto, sulle ragioni per ricostruire e rafforzare il “patto costitutivo” di fronte alle spinte centrifughe – o peggio disgreganti – che segnano, talora artificialmente, la storia recente dello Stato, non sempre Nazione.
L'occasione è favorevole per l'approfondimento dei motivi delle differenze di sviluppo - già indagate nelle precedenti edizioni dello Stage di Filaga - ma anche per la ripresa di tematiche sulle quali la crisi complessiva del sistema Italia aveva messo la sordina. Di fronte all'agitata “questione settentrionale” è ritornata, con la drammaticità delle condizioni dei territori cui si riferisce, la storica “questione meridionale”. Un ritorno che potrà essere foriero di risultati a patto che non venga ridotto al consueto rivendicazionismo meridionale che prescinde dai contesti di responsabilità che vi devono stare a monte.
Inoltre, gli ultimi eventi dei referendum e delle consultazioni elettorali amministrative – enfaticamente definiti “vento del nord” – hanno opportunamente riattivato il dibattito politico creando le condizioni per taluni necessari ripensamenti, primo fra tutti il modo di rapportarsi con la società civile, a cui sono chiamate le classi dirigenti, siano esse quelle attuali, se adeguate al compito, che quelle future da costruire sulla base di una rinnovata e rigorosa etica pubblica, fondata sul principio di responsabilità e non solo sulla retorica della rappresentanza.
Ma il 2011 è anche l'anno della cosiddetta “primavera araba”, che ha visto scendere in piazza milioni di cittadini - soprattutto di giovani - di un'area che appariva assolutamente impermeabile al nuovo, anestetizzata da regimi autoritari e incapace di generare movimenti di massa autonomi rispetto anche ai valori tradizionali. E' stato sorprendente, e ancora non adeguatamente interpretato, l'improvviso emergere di movimenti che sono riusciti a spazzare via regimi immobili e poco democratici, o a forzare i governi per l'adozione di nuove regole democratiche in stati che fino ad allora le disconoscevano. Tutto questo ha infranto la tradizionale icona di un mondo arabo immobile e diverso dall’effervescenza delle comunità occidentali, e ne ha rilanciato la funzione e riconfigurato – anche se ancora in modo contraddittorio – le politiche.
Non sappiamo quali saranno gli esiti successivi, e se il vento della democrazia riuscirà a spiegare le vele del nuovo Mediterraneo dei popoli. Se, ad esempio, il potente richiamo delle tradizioni ricondurrà sui consueti binari le varie emergenze o se invece queste ultime, come sta avvenendo in Marocco, porteranno ad esiti insospettabili, cioè alla nascita di un mondo arabo che, pur custode della propria cultura, accolga il valore della laicità e della democrazia come fondamenti per il futuro. Siamo convinti però che quando i popoli si mettono in marcia, il ritorno indietro appare molto difficile. Ed è innegabile l'insorgere di un Mediterraneo 2.0 che passa anche dall'accesso alla rete, dalla cooperazione, dall'abbattimento di barriere e dalla condivisione di ambizioni.
Le novità del mondo arabo, naturalmente, hanno avuto una ricaduta sull'Europa. L'esodo biblico che investe le nostre coste e che impone l'adozione di politiche d'accoglienza adeguate di cui l'Unione Europea deve essere il principale attore, ne è la manifestazione più eclatante. L'UE e l'Italia, come il territorio che sta sopportando il peso maggiore dell'emergenza, seppure distratte dal baratro economico verso cui stanno andando, devono spingere per la ripresa di quelle iniziative mediterranee che si sono interrotte bruscamente a causa delle non sempre attente politiche dall'allargamento, vissuto più come una necessità economica che come un’opportunità politica.
Un nuovo Trattato di Barcellona e una nuova Agenda di Lisbona devono mettere a punto una risposta seria per fare del Mediterraneo non solo un luogo di preziose materie prime, produzione a basso costo, consumi e scambi economici ma anche un luogo di integrazione socio-culturale: nuovo centro nel riposizionamento dei poteri, delle leadership e degli attrattori. Riattingendo alla sua storia millenaria il Mediterraneo deve tornare un grande mercato - nel senso positivo del termine - di beni e servizi, di idee e tensioni etiche, di visioni politiche e di ambizioni sociali. Un grande mercato in cui scambiare non solo beni materiali, ma capace di riconnettere in un grande progetto politico i “capitali reali” che potranno alimentare un nuovo modello di futuro: il capitale territoriale delle qualità, il capitale culturale delle identità, il capitale umano delle capacità, il capitale sociale delle comunità, il capitale produttivo delle competitività e il capitale finanziario delle fiscalità. Ognuno di questi capitali ha una potenza formidabile ma solo la loro cooperazione può generare quel potente impulso che potrà far riemergere il Mediterraneo come nuovo centro politico, culturale e sociale in uno scenario in cui la forza propulsiva degli Stati Uniti è in declino - e il recente downgrading del rating del debito pubblico è un segnale potente -, in cui la potenza economica della Cina ha le gambe fragili per l’assenza di democrazia e in cui l'Europa torna a manifestare sterili egoismi nazionali.
“Reimmaginare il capitalismo” è la parola d’ordine che attraversa il mondo dopo l’appello lanciato dalla sinistra liberale americana sulla rivista The Nation (2011). Un appello per ridisegnare un “capitalismo democratico” nell’era del fallimento dei suoi protocolli finanziari, per produrre un cambio radicale di priorità, regole e valori che siano in grado di alimentare un "nuovo umanesimo" che sappia guidare l’economia. Nel dibattito globale generato dallo tsunami finanziario e dal progressivo downgrading dei bilanci degli Stati, vissuto come un vero e proprio crollo di affidabilità della politica – come titola The Economist – reso ancora più drammatico dal fitto intreccio di produttori e possessori di debiti pubblici e risparmi privati, il Mediterraneo può essere in grado di proporre un modello di futuro. Un nuovo capitalismo con meno finanza, meno diseguaglianze, meno ingiustizia sociale. Un nuovo modello di capitalismo meno distruttivo e più centrato sui bisogni dei cittadini, capace di agire sul benessere dovrà essere non solo immaginato, ma anche reso concreto, tradotto in opzioni politiche e in decisioni organizzative, si deve trasferire alle forme di governance, si deve tradurre in modelli produttivi e deve riallineare l’etica pubblica con i comportamenti privati.
Affrontare il modello di sviluppo del Mediterraneo attraverso una revisione dei suoi capitali significa parlare in maniera concreta delle sue risorse naturali e dei suoi patrimoni culturali, di nuovi distretti produttivi transnazionali e di filiere di cooperazione industriale, del ruolo innovativo delle città e della modulazione dei regimi fiscali. Agricoltura e Paesaggio, Beni culturali e Turismo, Energia e Trasporti, Formazione e Città sono le risorse che il Mediterraneo offre e che vanno coltivate esaltandone le specificità e confortandole con quelle innovazioni di carattere tecnico o di mercato che la ricerca può offrire. L'Italia, che potenzialmente ha tutte le caratteristiche per candidarsi a leader del nuovo mercato, può e deve giocare un ruolo decisivo, accelerando l’innovazione dei processi, attingendo alle proprie esperienze ed eccellenze, mettendo in gioco quelle risorse che, potenziate dalla sfida con il Mediterraneo, potranno consentire il superamento della crisi, sconfiggendo il pericolo del default non con interventi palliativi ma con un rafforzamento del metabolismo del paese. E poiché Filaga è Sicilia e, nel pensiero del suo fondatore, è alla Sicilia – ombelico del Mediterraneo da cui interrogare il futuro – che bisogna riferirsi, interrogandosi su quale debba essere il suo ruolo, chiedendosi se la sua speciale condizione di autogoverno sia un ostacolo o un valore, e indagando su quali debbano essere gli strumenti per metterlo in circuito virtuoso. La risposta è decisiva e condiziona la vita di noi tutti cittadini siciliani, allo stesso modo qui a Filaga, come negli anni passati, con l'impegno e la collaborazione di tutti, vogliamo aggiungere il nostro contributo di formazione e partecipazione, di idee e riflessioni, di diagnosi e soluzioni.
I temi di Filaga 2011
A che punto è la globalizzazione? Perché è forte la domanda di protezione, di una nuova regolazione pubblica del mercato?
Gli effetti recenti di una globalizzazione dei mercati senza un'adeguata internazionalizzazione delle regole e dei poteri di controllo ha mostrato con evidenza la fragilità di un modello di sviluppo basato su una convergenza di interessi essenzialmente egoistici. Il capitalismo globale si è trasformato in un saccheggio globale, un neocolonialismo brutale che ha deformato culture, appiattito differenze, anestetizzato democrazie. Abbiamo assistito ad uno sviluppo "dopato" dai flussi finanziari generati dal mercato globale che hanno nascosto le vere capacità dei territori di produrre sviluppo reale: ad un modello di sviluppo locale selettivo è stato sostituito un modello bulimico che ha eroso risorse e ridotto opportunità. Alla capacità regolatrice della "mano invisibile" del mercato è stata sostituita la mano invisibile dei mercanti, che ha lavorato sulle redditività prodotte dai disequilibri di costi, di manodopera, di regole. Alla capacità strategica della politica è stata sostituita la volontà degli agenti di sviluppo che hanno impacchettato le risorse locali in progetti che assomigliano ai "derivati" che hanno distrutto l'economia reale. Oggi invocare il potere regolatore delle istituzioni pubbliche - anche transnazionali - e il primato della politica non vuol dire tornare indietro, ma significa completare il processo di globalizzazione agendo preventivamente sulla introduzione di sensori ed antidoti e non inseguendo le volontà dei mercati o le arroganze dei rating che nella prassi recente hanno sostituito le volontà, le aspirazioni e le ambizioni delle generazioni future.
Tra federalismo virtuoso e federalismo avvelenato. Stare insieme malgrado le differenze a 150 anni dall’unità d’Italia.
Da un lato le celebrazioni dell'Unità in un rinnovato spirito patriottico e dall'altro le tensioni disgregatrici dettate dalla paura hanno riportato sulla scena politica, ma non ancora nell'agenda, le ragioni della costruzione di una Nazione delle differenze virtuose piuttosto che delle omogeneità eterodirette. Allo stucchevole dibattito sulle ragioni del divario tra Nord e Sud, alla ricerca di motivazioni che ne consolidino le distanze in una inutile ricerca di compensazioni, si va sostituendo - non senza difficoltà - la diagnosi politica su un modello di Italia federale che non si accontenti di cristallizzare le differenze e di alimentare gli egoismi, ma che si interroghi sulle risorse locali, sulle conseguenti responsabilità nel metterle in azioni e sulla costruzione di un nuovo welfare cooperativo e non meramente redistributivo. Il Mezzogiorno deve mutare prospettiva, da una visione periferica e nostalgica deve assumere la sfida di un federalismo dinamico che sappia essere da competizione e non da regolamentazione.
Una nuova politica per il Mezzogiorno deve proporre al Paese il suo ruolo di motrice della crescita dell’economia nazionale, rialimentando la spinta propulsiva impressa dal Nord e oggi anch’essa in declino. Il Mezzogiorno deve avere un progetto consapevole per essere una tra le più importanti piattaforme culturali, logistiche e produttive dell’Europa, agendo anche come leva dell’integrazione euromediterranea e capace anche di intercettare i flussi e le economie della green economy, non solo promuovendone l’innovazione, ma anche riproponendone la tradizione. Il progetto per il Mezzogiorno deve recuperare il suo anelito strategico, la sua anima unitaria e la sua passione integrativa, contribuendo a compensare un federalismo frammentario con lo sviluppo di una nuova identità nazionale. Le politiche per il nuovo Mezzogiorno devono essere in grado di provocare un nuovo “contratto sociale” nel quale un principio di giustizia e di cooperazione sia in grado di reggere l’insieme societario, orientando al contempo la convivenza civile.
La rivolta araba e l’emergenza immigrati: rischi ed opportunità per i territori del nostro paese.
Le rivolte, non sempre o non ancora rivoluzioni, che stanno agitando la "primavera araba" offrono una sfida non solo interna a regimi considerati immutabili e spesso rispettati solo per interessi nazionali, ma soprattutto esterna nei confronti di un'Europa che dopo aver fatto dell'abbattimento delle barriere uno slogan fondativo si ritrova a volerne erigere di nuove di fronte ad un massiccio flusso di migranti, vissuti più come emergenza che come opportunità. Naturalmente i flussi migratori inter-mediterranei possono essere una preziosa opportunità demografica, produttiva, culturale solo se regolati, solo se componenti di una politica dell'accoglienza e dell'integrazione che sfugga al duplice rischio della paura da un lato, e della benevolenza all'altro. Un movimento di centinaia di migliaia di persone, di rifugiati, di giovani, di laureati, insieme a clandestini, criminali e disperati non può essere affrontato in maniera aggregata, lasciato solo alle forze di polizia, ma deve essere sottoposto alla politica: dovrà entrare, soprattutto per l'Italia, nell'agenda della coesione sociale e del nuovo welfare, ma anche della competitività e della formazione, diventando una questione strutturale e non meramente emergenziale. La società multietnica e interculturale va vissuta con la maturità di prevederne i rischi di aggravio in un paese che sta rialimentando i razzismi interni, ma anche di coglierne rapidamente le opportunità per il mercato del lavoro, per la costruzione di scambi, per l'internazionalizzazione della formazione.
Crisi globali e capitali da rivalutare: l’agricoltura, la pastorizia, la medicina di qualità integrata coi servizi alla persona, il turismo culturale e sostenibile, la cantieristica e la logistica.
La crisi globale che come un fiume carsico riemerge con sempre maggiore violenza, il default degli Stati dopo quello delle banche, il downgrading della politica dopo quello delle imprese ci richiedono una riflessione sul modello di sviluppo che se da un lato si deve interrogare sulla riduzione della società dei consumi verso una rinnovata società della produzione, dall'altro lato ci impone di rivedere su quali "capitali" si dovrà fondare un nuovo mercato più democratico. Al capitale finanziario, sovrano di una economia delle bolle speculative, dovranno essere affiancati capitali di maggiore solidità, radicati nei territori di origine, componenti del nuovo genoma dello sviluppo. E nel laboratorio di questa ricomposizione del codice genetico del capitalismo del XXI secolo l'Italia dovrà portare in dote i suoi capitali identitari: il territorio rurale intrinsecamente connesso con la produzione del paesaggio, la ricerca scientifica connessa alla salute ed alla qualità della vita, il patrimonio culturale e ambientale come fattore di attrattività e matrice di sviluppo, le porte di accesso di persone e merci e la gestione integrata della nuova logistica del Mediterraneo. Questa dotazione, tuttavia, rischia di restare potenziale se non concretizzata da adeguate politiche di settore e di sistema. Perché possa esercitare il suo valore, chiede una visione selettiva, impone una capacità di integrazione di settori e filiere, chiama ad una governance multilivello che stemperi gli egoismi locali. Altrimenti il rischio è che i nostri capitali rimangano congelati in un'eterna aspettativa e non entrino mai nel gioco attivo delle opportunità, nel confronto con altri paesi, nella sfida delle loro performance.
Ripartire dalle città: una nuova politica per un’exit strategy creativa da un sistema in crisi.
Viviamo nel secolo urbano, dominato dalle grandi metropoli e dal successo planetario della città come condizione prevalente della vita sociale. Ma il successo del modello politico, economico, culturale e simbolico della vita urbana, rischia di trasformarsi in un periodo di dissipazione delle componenti essenziali dell'essere città. A vincere, infatti, nell’evoluzione accelerata delle agglomerazioni urbane, nelle megalopoli create da inarrestabili migrazioni interne, nelle città diffuse prodotte dal decentramento selvaggio delle funzioni centrali, sono spesso le spinte antiurbane: l'anticittà si insinua nella città. L’anticittà non è un tumore da estirpare, ma è un’energia profonda e apparentemente pacifica, che non si contrappone alla città, ma piuttosto la erode dall’interno. Senza grandi gesti, muovendosi pervasiva e spesso invisibile dentro i meccanismi di riproduzione dello spazio urbano contemporaneo; ne inquina l'identità, ne allenta le connessioni, ne logora i nodi e ne compromette il metabolismo. Interrogarsi sul ruolo delle città come motori dell'innovazione, propulsori delle identità e alimentatori creativi dello sviluppo diventa quindi non solo una necessità analitica, ma connota la sfida che attende le nuove classi dirigenti. Soprattutto in un'Europa che, pur vedendo indebolito il ruolo degli Stati nazionali, incapaci di costruire una rete di salvaguardia alla crisi che sta erodendo le conquiste degli ultimi anni, non riesce a riattivare le politiche urbane che ne hanno connotato gli anni della fondazione: è stata la rete delle "Città Urban" a costruire la prima vera unificazione politica attraverso i Sindaci prima che i Banchieri prendessero il sopravvento. L'armatura urbana in Europa, ma anche le città-stato dell'Africa mediterranea, costituiscono oggi una sfida per ricostruire un "patto dei sindaci" che non si limiti alla sostenibilità energetica e ambientale, ma che ambisca ad una sostenibilità sociale e culturale che ricostruisca il patto di sviluppo tra capitali territoriali, capitali sociali e capitali produttivi. Le città costituiscono potenti commutatori dei flussi di capitali che le attraversano a patto che ne sappiano intercettare le energie e le sappiano trasformare in progetti di qualità, in un rinnovato welfare urbano, in risorse creative per lo sviluppo. Città plurali, responsabili, policentriche e reticolari sono oggi le sfide che attendono urbanisti e amministratori, attori e regolatori alla ricerca di un efficace antidoto al progressivo rallentamento del metabolismo urbano, spesso produttore di scorie e metastasi piuttosto che di linfa vitale.
Scenari siciliani tra vento del Nord e scirocco del Sud. Difendere il territorio e governare le città. La proposta della Libera Università della Politica.
Nella sua tradizione pluriennale e nella lucida ed ancora attuale visione del suo fondatore, padre Ennio Pintacuda, lo stage di Filaga non è solo un luogo del pensiero laico, un "porto franco" della formazione e riflessione politica, ma è soprattutto un laboratorio dove l'analisi si fa diagnosi, dove gli scenari si riempiono di soluzioni concrete, dove le visioni si traducono in azioni. Ma soprattutto Filaga cerca di prefigurare le soluzioni a problemi che non sono ancora stati messi a fuoco dalla riflessione istituzionale, predisponendo la realizzazione di proposte prima che l'emergenza droghi la decisione. Al vento che proviene dal Nord e allo scirocco del Sud alcuni oppongono un contrasto che si limita ad erigere muri che ne blocchino la violenza e l'impeto, noi abbiamo l'ambizione di ritenere che al vento si risponde con i "mulini" dello sviluppo, incanalandone l'energia in un progetto, sfruttandone l'impeto e regolandone l'intensità, ma soprattutto trasformandolo in forza motrice dello sviluppo locale. Uno sviluppo locale che accetti la sfida della globalizzazione democratica, che non crei recinti ma anche che non diluisca le identità in una indifferenziata omogeneità. Difendere i capitali territoriali e governare i capitali urbani sono le sfide per il Paese in un'ottica che guardi ai valori, alle nuove generazioni, alle sapienze consolidate e ai talenti in formazione. Le giornate di Filaga discuteranno di queste sfide non sottraendosi ad una proposta che non sia frutto di ideologie obsolete o di pregiudizi sterili. Il terreno del futuro della Sicilia deve essere arato con nuovi strumenti e seminato con sementi di qualità, protetto dai venti ma anche alimentato dalla volontà della speranza. Filaga intende esortare i protagonisti di oggi e i leader di domani a declinare i temi proposti a partire dalle tesi, ad individuare le priorità, ad definire le agende della politica, dell’economia e della società per rilanciare un “patto di futuro” per il Mediterraneo.
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