venerdì 8 ottobre 2010

Puglia: da mafioso della Sacra Corona Unita a bracciante sui terreni confiscati: «Quando ho ferito una bambina la svolta»

di Toni Mira*

Ore 4, Massimiliano si sveglia. Alle 5 deve essere sui campi, per raccogliere l'uva. Massimiliano è un bracciante, ma molto particolare. Unico. Perché quando si sveglia è in carcere. Perché lui è un 416bis, condannato a 12 anni per associazione a delinquere di tipo mafioso, la Sacra corona unita, la mafia pugliese. Ma ora non è più un mafioso. In carcere, grazie ad alcuni importanti incontri, grazie alla moglie, grazie ai figli, si è dissociato dalla vita criminale. Lo ha fatto pubblicamente, nell'aula del tribunale. E ora, dal 2 agosto ha ottenuto la semilibertà (caso unico per un condannato per mafia) e va a lavorare. Semplice bracciante, lui che disponeva di tanti soldi. Ora ogni giorno fatica sui terreni che erano di altri mafiosi.
Dal 20 agosto Massimiliano è stato, infatti, assunto dalla cooperativa "Terre di Puglia-Libera Terra" che coltiva terreni confiscati alla Scu. Lo incontriamo assieme a don Raffaele Bruno, cappellano del carcere di Lecce. «Come cristiani - ci dice il sacerdote - dobbiamo dire pane al pane e mafia alla mafia, ma sempre come cristiani dobbiamo anche dire che non ci sono limiti alla redenzione». E l'incontro con Dio non è certo stato secondario nella scelta di Massimiliano. «In carcere passavo fino a 4-5 ore in chiesa, ma Dio non ha aspettato che andassi da lui. É lui che è venuto da me». Anzi è certo del suo intervento.
«Penso che lui una mano l'ha messa quando non riuscivo a uccidere nessuno». Già perché Massimiliano, 42 anni, 17 dei quali passati in carcere (gliene mancano da fare altri tre e mezzo), tra le sette condanne ne ha anche una per sette tentati omicidi. Ha sparato, ha ferito, ma per fortuna senza mai riuscire a completare la sua missione di morte. Si dà una giustificazione tecnica: «È difficile sparare con un kalashnikov da una moto in corsa».
Ma soprattutto una molto più profonda. «Mi è andata bene. Avessi ucciso non so se sarei stato ora qui a parlare. Sarei anche io, come alcuni miei compagni, al "fine pena mai", all'ergastolo, o come altri avrei fatto il collaboratore di giustizia. Avrei distrutto la mia vita o gli affetti più cari. Invece qualcuno ci ha messo una mano facendomi sbagliare. Ne sono certo». Anche perché uno dei tentati omicidi è stato l'inizio della sua decisione di rompere con la violenza. É il 2002, in una delle spedizioni di morte, a Frigole rimane ferita una bimba di due anni. Massimiliano non se ne accorge subito.
«A Firenze dove eravamo fuggiti accendo la tv. Dicono che la bambina è in pericolo di vita. Allora lascio tutto, torno a Lecce per seguire da vicino le sue condizioni. Vado a vedere mia figlia, che ha la stessa età, e penso che poteva finire lei in mezzo a una sparatoria. Allora ho capito il valore della famiglia, del crescere i figli, di essere insieme a loro. Io, invece, li avevo fatti e poi ero sparito dopo la nascita. L'ultimo, il primo maschio, mi ha ritrovato come papà a 8 anni». Qui davvero cominciano a incrinarsi le certezze di Massimiliano.
Ma facciamo un passo indietro. Anzi molti. Per capire come si imbocca il tunnel dell'illegalità. Come si diventa mafioso. Una vita criminale che parte dall'adolescenza. Con un dramma. Quando ha 14 anni, il papà pescatore perde un braccio e l'udito nello scoppio di un proiettile di carrarmato tirato su dalla rete. «Non poteva più pagare la casa e il peschereccio che aveva appena comprato. Cominciai coi primi furti. Pensavo di essere di aiuto. Ma papà e mamma non hanno mai voluto quei soldi». Ma Massimiliano non si ferma e entra in un giro più grande. Rapine a uffici postali e banche. É la "banda Cerfeda", dal nome del loro capo Filippo Cerfeda.
«Ci conoscevamo tutti da bambini». Erano in sei, e si sentivano i più bravi. Così dopo le rapine passano alle estorsioni. Ma qualcuno denuncia e in tre vengono arrestati. Primi tre anni di carcere. Inutili. «Venti giorni dopo essere uscito ricomincio con le rapine. Dopo tre mesi vengo arrestato a Merano». Già perché, grazie a ottimi informatori, i "colpi" li andavano a fare anche al Nord. Dopo l'arresto scattano altri tre anni di galera. E si ricomincia, anche con la droga. «Ma era più quella che consumavamo di quella che vendevamo».
L'attività criminale va avanti fino a un nuovo arresto. «Usciamo più arrabbiati che mai e scoppia il casino. C'è concorrenza, non abbiamo più il controllo del territorio». É il periodo degli omicidi, dei tentati omicidi, delle bombe. «I soldi arrivavano in automatico. Per le estorsioni non hai più il problema di girare, hai solo il problema di contare i soldi. La nostra principale attività era quella di garantire la tranquillità sul territorio». A colpi di kalashnikov.
«Eravamo mafiosi nei comportamenti. Sono subentrati il potere e i soldi che danno alla testa. Decidere della vita di una persona. Quelli che andavamo ad uccidere erano solo un problema da risolvere». Parole terribili. «O lo facevi tu o lo facevano altri. L'unica cosa era non guardarli in faccia mentre sparavi».
A fermarli è un nuovo arresto e nel 2006 la condanna più pesante per associazione mafiosa. Proprio allora nasce il terzo figlio, il primo maschio. «Mi ha trasformato internamente. Si è ribaltato il mio modo di ragionare». Ad aiutarlo in questa scelta è la moglie. «Malgrado quello che ho fatto non mi ha mai lasciato. Ha tenuto duro chiedendomi di cambiare vita». «Una santa moglie - commenta don Raffaele -. Sola, con grandi momenti di sofferenza. Una donna straordinaria, non sempre valutata bene dal marito». In carcere, nel settore alta sicurezza, Massimiliano conosce il cappellano. «Gli ho rivelato la mia decisione: "A me non interessa più niente"».
Il sacerdote lo ascolta, lo aiuta. «Don Raffaele non usa le armi, usa la croce». Nasce così un percorso. Inedito. «Oltre alla collaborazione di giustizia - spiega il cappellano, che è anche responsabile regionale di Libera - è possibile un percorso di vera dissociazione e di avvio di una nuova vita. Una via sociale, non giudiziaria». Così arrivano passi concreti. «Nel corso del processo annuncio la mia dissociazione. Ma i magistrati non mi credevano». Poi in carcere l'adesione a Libera. «E lo feci sapere». Nel 2003 incontra don Luigi Ciotti. Ormai ha deciso.
«Sono disposto a darvi una mano». «Piano piano - dice ancora il sacerdote - abbiamo costruito l'ipotesi di passare dall'adesione ideale a quella concreta. E allora gli ho proposto: "Se ci credi davvero vieni a lavorare con noi"». E così avviene. Ma non si limita alle 8 ore. «Lavoro di più, faccio volontariato come risarcimento alla società per i danni che ho fatto». Lavoro duro. «Il primo giorno sono andato a raccogliere i pomodori. Quando ho finito ero distrutto. Sono andato a casa dove tutti mi aspettavano fuori dalla porta».
E la famiglia torna in tutte le sue parole. «A fine settembre è arrivata la busta paga, i primi soldi puliti che ho portato in famiglia. Non sono tanti, ma quello che ora mi importa è di riscattarmi assieme a loro». Davvero la sua vita sta cambiando. «Rientrando in carcere mi sento già libero: sto entrando e uscendo coi miei piedi. Ora non vedo l'ora di dormire per poi svegliarmi e uscire. Mi poggio e dormo, mentre prima dormivo un'ora e poi scattavo...». Tante piccole cose. «Il 16 settembre ho accompagnato mio figlio al primo giorno di scuola. Non lo avevo mai fatto».
E gli ex amici? «In carcere qualcuno storce il naso, qualcun altro mi ha tolto il saluto». «Ma è stato visto anche come un'opportunità. Sta facendo una scommessa. La liberazione non solo delle terre ma anche delle persone», aggiunge don Raffaele. Ne valeva la pena? Massimiliano risponde convinto. «Alla grande! Se vuoi fare un cambiamento radicale si può. Ognuno della sua vita fa la scelta che vuole. Ho fatto il criminale e ho pagato. Oggi ho fatto un'altra scelta».
L’Avvenire, 07.10.2010

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