
Un cantautore che non raccontava sogni ma la realtà. Che amava gli emarginati. E non sopportava il conformismo. Da riscoprire con 'L'espresso'
Non sono 'un cantante bene', non sono 'un intellettuale'. Sono solo uno che scrive canzoni guardandosi intorno. Questa breve dichiarazione del 1967, l'anno in cui uscì il suo primo Lp, 'Volume 1', illumina meglio di tanti discorsi celebrativi la poetica di Fabrizio De André. E dopo molti anni chiarisce anche a noi, adolescenti di allora, le ragioni di una fascinazione che non è mai finita. De André non era un fabbricante di sogni e diversamente da tanti altri cantautori, non lo sarebbe mai stato. Questa differenza è stata chiara fin da subito. Faber, come lo chiamavano gli amici, aveva il virus della realtà. "C'è chi dice che questo di far sognare sia il compito di noi artisti: ma allora chi resta a raccontarci la realtà? I giornali?", chiedeva: "Io non vendo sogni: i sogni si sognano, la realtà si racconta". Questione di sguardo, appunto. Quello di Fabrizio De André è lo sguardo di un vero poeta. Uno sguardo che non giudica. Ma capace piuttosto di immergersi nei mari dell'esistenza per osservarla dal profondo. Uno sguardo colmo di pietas nella sua sincera essenza anti-borghese e anarchica. L'odio per l'ipocrisia, l'esaltazione dei diseredati, la ribellione alle ingiustizie, il gusto profondo della libertà. Di questo parlano le sue canzoni e lo fanno con un linguaggio colto e al tempo stesso diretto e comprensibile a tutti. Il fatto che non finisce di sorprendere è che anche nelle sue invettive più violente contro il potere o l'assurdità della guerra - pensiamo solo a 'La guerra di Piero' - non andasse mai perduta la dolcezza dello sguardo e della voce. Come se la consapevolezza del dolore, della condizione umana, avesse fatto maturare in lui non tanto un senso religioso della vita, quanto una profonda spiritualità laica in grado di accogliere sotto il segno della poesia amore sacro e amore profano, l'uomo giusto e il delinquente, in un unico umanissimo abbraccio. E che questo non fosse un vezzo poetico, una posa romantica, abbiamo avuto modo di constatarlo direttamente l'unica volta che abbiamo incontrato De André, nel 1981, in occasione dell'uscita dell''Indiano', primo album realizzato dopo il sequestro subìto da lui e Dori Ghezzi da parte dell'Anonima sarda. Un'esperienza che lo aveva profondamente segnato. Eppure, nel raccontare di quel suo soggiorno forzato all''Hotel Supramonte', come lo chiamava, non uscì mai una parola se non di solidarietà e comprensione nei confronti dei sequestratori. Anche per questo, a dieci anni dalla scomparsa, De André ci manca da morire. Ma al di là delle tante celebrazioni in suo onore, la spettacolare mostra di Genova, le maratone televisive, il modo più giusto per ricordare un artista come lui che ha sempre viaggiato "in direzione ostinata e contraria" è quello di riproporre l'ascolto del suo meraviglioso canzoniere. Questo è lo scopo di 'Fabrizio De André - L'opera completa', la collezione dei 14 cd originali da studio che, a partire dalla prossima settimana, accompagneranno in edicola 'L'espresso' e 'la Repubblica'. "La maggior parte delle mie canzoni nasce come brevi racconti", diceva De André: "È la materia stessa del narrare a suggerirmi la musica". Il metodo che avrebbe poi seguito durante tutta la carriera si dimostra validissimo fin dal primo lp, 'Volume 1', nel quale confluiranno anche canzoni scritte diversi anni prima. Mentre una pietra miliare come 'La guerra

(L’Espresso, 30 gennaio 2009)
Nessun commento:
Posta un commento