di DINO PATERNOSTRO
La strage di Ciaculli del 30 giugno 1963 sconvolse l’opinione pubblica siciliana e nazionale. A Palermo, dilaniati da una Giulietta al tritolo (PA 78373), davanti a Villa Serena di Ciaculli, a pochi passi dall’abitazione del boss mafioso Salvatore “Totò” Greco “Cicchiteddu”, avevano perso la vita Mauro Malausa, tenente dei carabinieri, Silvio Corrao, maresciallo di polizia, Calogero Vaccaro, maresciallo dei carabinieri, Marino Fardella, carabiniere, Eugenio Altomare, carabiniere, Pasquale Nuccio, maresciallo artificiere, e Giorgio Ciacci, soldato artificiere, mentre altri militari dell'Arma riportavano gravissime ferite. La macchina era stata imbottita di tritolo, mediante un ordigno innescato con la tecnica nuova della doppia carica: una effettiva e l'altra apparente. La prima carica, facilmente individuabile, doveva servire a trarre in inganno Salvatore Greco “Cicchiteddu”, la seconda ad ucciderlo. Avvisati da una telefonata anonima, i carabinieri arrivarono sul posto dov’era stata abbandonata la macchina e disinnescarono la prima carica. Ma quando il maresciallo Pasquale Nuccio aprì la portiera, alla quale era collegata la seconda carica, quella nascosta sotto il sedile del posto di guida, l'esplosione dilaniò tutti e sette i militari. Una tecnica feroce e micidiale, che provocò orrore tra la gente comune e costrinse lo Stato a darsi una mossa. La mafia si presentava inequivocabilmente con le mani grondanti del sangue innocente di esponenti delle forze dell’ordine. Per la verità, una strage l’aveva già consumata a Portella della Ginestra 16 anni prima, ma le vittime di quella strage erano contadini “comunisti”, mentre stavolta le vittime appartenevano tutte alle forze dell’ordine. Tra l’altro, nello stesso giorno, altri due uomini furono uccisi a Villabate, periferia di Palermo. Sette più due: in un solo giorno nove morti.
Davanti a tanto orrore, la Chiesa cattolica palermitana, guidata dal cardinale Ernesto Ruffini, non seppe o non volle reagire. A farlo, invece, fu la piccola Chiesa Valdese, guidata dal pastore Pietro Valdo Panascia. Appena una settimana dopo, infatti, il 7 luglio 1963, le strade di Palermo furono tappezzate da un manifesto intitolato «Iniziativa per il rispetto della vita umana». «La Comunità Evangelica Valdese – si leggeva nel testo – associandosi con animo commosso al lutto cittadino per la inumana strage avvenuta nei giorni scorsi, in seguito agli attentati dinamitardi di Villabate e di Villa Serena, in cui nove preziose vite umane sono state stroncate in modo crudele, mentre esprime il profondo senso di solidarietà umana, nel dolore, alle famiglie delle vittime, auspica che non solo siano prese, da parte degli organi competenti, delle misure per reprimere ogni atto di criminalità che con così preoccupante frequenza insanguina le vie e i dintorni della nostra città, ma soprattutto fa appello a quanti hanno la responsabilità della vita civile e religiosa del nostro popolo, onde siano prese delle opportune iniziative per prevenire ogni forma di delitto, adoperandosi con ogni mezzo alla formazione di una più elevata coscienza morale e cristiana, richiamando tutti ad un più alto senso di sacro rispetto della vita e alla osservanza della Legge di Dio che ordina di NON UCCIDERE». Un’iniziativa clamorosa ed inusuale quella della Chiesa Valdese e del suo pastore, che, senza nominare esplicitamente la parola “mafia”, richiamava tutti ad un impegno concreto ed esplicito contro la violenza, mediante un’adeguata formazione della coscienza morale e cristiana e richiamando tutti «alla osservanza della Legge di Dio che ordina di non uccidere». Ma la Chiesa palermitana e il cardinale Ruffini snobbarono l’iniziativa, che considerarono «un ridicolo tentativo di speculazione protestante». «Nemmeno il cardinale mi ha risposto – avrebbe detto, amareggiato, qualche anno dopo il pastore Panascia – Chiedevo accoratamente di aprire un dialogo, di unirci, come cristiani, per fare qualcosa contro la mafia: tutti si occupano di mafia, politici e giornalisti, sindacalisti e sociologi. Tutti, fuorché i cristiani…». Pietro Valdo Panascia è a Palermo morto lo scorso 19 ottobre, all’età di 97 anni: si può dire che la sua vita è stata traccia indelebile di impegno civile e cristiano.
Davanti a tanto orrore, la Chiesa cattolica palermitana, guidata dal cardinale Ernesto Ruffini, non seppe o non volle reagire. A farlo, invece, fu la piccola Chiesa Valdese, guidata dal pastore Pietro Valdo Panascia. Appena una settimana dopo, infatti, il 7 luglio 1963, le strade di Palermo furono tappezzate da un manifesto intitolato «Iniziativa per il rispetto della vita umana». «La Comunità Evangelica Valdese – si leggeva nel testo – associandosi con animo commosso al lutto cittadino per la inumana strage avvenuta nei giorni scorsi, in seguito agli attentati dinamitardi di Villabate e di Villa Serena, in cui nove preziose vite umane sono state stroncate in modo crudele, mentre esprime il profondo senso di solidarietà umana, nel dolore, alle famiglie delle vittime, auspica che non solo siano prese, da parte degli organi competenti, delle misure per reprimere ogni atto di criminalità che con così preoccupante frequenza insanguina le vie e i dintorni della nostra città, ma soprattutto fa appello a quanti hanno la responsabilità della vita civile e religiosa del nostro popolo, onde siano prese delle opportune iniziative per prevenire ogni forma di delitto, adoperandosi con ogni mezzo alla formazione di una più elevata coscienza morale e cristiana, richiamando tutti ad un più alto senso di sacro rispetto della vita e alla osservanza della Legge di Dio che ordina di NON UCCIDERE». Un’iniziativa clamorosa ed inusuale quella della Chiesa Valdese e del suo pastore, che, senza nominare esplicitamente la parola “mafia”, richiamava tutti ad un impegno concreto ed esplicito contro la violenza, mediante un’adeguata formazione della coscienza morale e cristiana e richiamando tutti «alla osservanza della Legge di Dio che ordina di non uccidere». Ma la Chiesa palermitana e il cardinale Ruffini snobbarono l’iniziativa, che considerarono «un ridicolo tentativo di speculazione protestante». «Nemmeno il cardinale mi ha risposto – avrebbe detto, amareggiato, qualche anno dopo il pastore Panascia – Chiedevo accoratamente di aprire un dialogo, di unirci, come cristiani, per fare qualcosa contro la mafia: tutti si occupano di mafia, politici e giornalisti, sindacalisti e sociologi. Tutti, fuorché i cristiani…». Pietro Valdo Panascia è a Palermo morto lo scorso 19 ottobre, all’età di 97 anni: si può dire che la sua vita è stata traccia indelebile di impegno civile e cristiano.
In quell’estate del 1963, chi non snobbò affatto l’iniziativa contro la mafia del pastore Panascia e della Chiesa Valdese di Palermo fu Paolo VI, il nuovo Papa, successore di Giovanni XXIII. Il 5 agosto, infatti, monsignor Angelo Dell’Acqua, sostituto della segreteria di Stato vaticana, sicuramente su disposizione di Paolo VI, scrisse una lettera al cardinale Ernesto Ruffini, ricordandogli il «manifesto per deplorare i recenti attentati dinamitardi che hanno provocato numerose vittime fra la popolazione civile», pubblicato dalla Chiesa Evangelica Valdese. «Nel segnalare detta iniziativa all’attenzione dell’Eminenza Vostra – proseguiva la lettera – mi permetto sottoporre al Suo prudente giudizio di vedere se non sia il caso che anche da parte ecclesiastica sia promossa un’azione positiva e sistematica, con i mezzi che le sono propri – d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale – per dissociare la mentalità della così detta “mafia” da quella religiosa e per confortare questa ad una più coerente osservanza dei principi cristiani…». La risposta del cardinale Ruffini alla lettera vaticana fu molto risentita. «Conoscevo già il manifesto pubblicato dal Pastore valdese: iniziativa molto facile, che ha lasciato il tempo di prima! – scrisse Ruffini l’11 agosto 1963 - Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa. E’ una supposizione calunniosa messa in giro, specialmente fuori dell’Isola di Sicilia, dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia…». La Chiesa palermitana, secondo il cardinale, non aveva nulla da rimproverarsi, non si sentiva chiamata in causa perché a posto con la coscienza; e soprattutto non aveva nulla da imparare dai pastori protestanti. L'anno successivo, in occasione della Pasqua, l'arcivescovo avrebbe scritto la nota lettera pastorale, intitolata “Il vero volto della Sicilia”, dove affermava che la mafia esisteva, sì, ma si trattava solo di delinquenza comune alimentata da «giovinastri disoccupati». «Il prelato metteva così la mafia a carico dei poveri – sottolinea padre Nino Fasullo, direttore della rivista “Segno” - sollevando "il salotto buono" da ogni sospetto, da ogni e qualsiasi responsabilità».
I contenuti della lettera pastorale “Il vero volto della Sicilia” del 27 marzo 1964, che il cardinale Ruffini aveva indirizzato al clero, ai fedeli e a tutti i siciliani, suscitarono un vespaio di polemiche. Insieme alla difesa acritica della Sicilia e della sua classe dirigente, essa conteneva un attacco a Danilo Dolci e al romanzo “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, indicati come i responsabili della “cattiva fama” della Sicilia nel mondo. Una tesi che il pastore Pietro Valdo Panascia contrastò con garbata fermezza, in un opuscolo pubblicato dal giornale “L’Ora” del 9-10 aprile 1964. «Il problema – scrisse Panascia – sta nello stabilire se il male c’è o non c’è..., prima di gridare all’untore… Ora che il male ci sia e che lo vedano anche gli stranieri… è fuori dubbio. (…) Giova al rinnovamento morale, spirituale e sociale del nostro popolo cullarlo nella facile retorica di una esaltazione che confonde le idee e lo lascia in una inferiorità umiliante da cui invece dovremmo con ogni mezzo aiutarlo ad uscire, anche a costo di essere fraintesi, malvisti, odiati dai benpensanti e da quanti hanno una vita facile e comoda?». E il cardinale, il 10 aprile, rispose al pastore in forma privata, riconoscendogli «onesta e amore della giustizia», ma difendendo il senso del suo intervento.
NELLA FOTO: Il pastore Pietro valdo Panascia
28 ottobre 2007