lunedì 29 ottobre 2007

MAFIA/Documenti. L'impegno della Chiesa Valdese contro la mafia dopo la strage di Ciaculli

Nel 1963, dopo la strage di Ciaculli, il pastore valdese Pietro Valdo Panascia prese posizione contro Cosa Nostra: "Speravo di aprire - commentò poi - un dialogo tra i cristiani per fare qualcosa contro la mafia..."
di DINO PATERNOSTRO
La strage di Ciaculli del 30 giugno 1963 sconvolse l’opinione pubblica siciliana e nazionale. A Palermo, dilaniati da una Giulietta al tritolo (PA 78373), davanti a Villa Serena di Ciaculli, a pochi passi dall’abitazione del boss mafioso Salvatore “Totò” Greco “Cicchiteddu”, avevano perso la vita Mauro Malausa, tenente dei carabinieri, Silvio Corrao, maresciallo di polizia, Calogero Vaccaro, maresciallo dei carabinieri, Marino Fardella, carabiniere, Eugenio Altomare, carabiniere, Pasquale Nuccio, maresciallo artificiere, e Giorgio Ciacci, soldato artificiere, mentre altri militari dell'Arma riportavano gravissime ferite. La macchina era stata imbottita di tritolo, mediante un ordigno innescato con la tecnica nuova della doppia carica: una effettiva e l'altra apparente. La prima carica, facilmente individuabile, doveva servire a trarre in inganno Salvatore Greco “Cicchiteddu”, la seconda ad ucciderlo. Avvisati da una telefonata anonima, i carabinieri arrivarono sul posto dov’era stata abbandonata la macchina e disinnescarono la prima carica. Ma quando il maresciallo Pasquale Nuccio aprì la portiera, alla quale era collegata la seconda carica, quella nascosta sotto il sedile del posto di guida, l'esplosione dilaniò tutti e sette i militari. Una tecnica feroce e micidiale, che provocò orrore tra la gente comune e costrinse lo Stato a darsi una mossa. La mafia si presentava inequivocabilmente con le mani grondanti del sangue innocente di esponenti delle forze dell’ordine. Per la verità, una strage l’aveva già consumata a Portella della Ginestra 16 anni prima, ma le vittime di quella strage erano contadini “comunisti”, mentre stavolta le vittime appartenevano tutte alle forze dell’ordine. Tra l’altro, nello stesso giorno, altri due uomini furono uccisi a Villabate, periferia di Palermo. Sette più due: in un solo giorno nove morti.
Davanti a tanto orrore, la Chiesa cattolica palermitana, guidata dal cardinale Ernesto Ruffini, non seppe o non volle reagire. A farlo, invece, fu la piccola Chiesa Valdese, guidata dal pastore Pietro Valdo Panascia. Appena una settimana dopo, infatti, il 7 luglio 1963, le strade di Palermo furono tappezzate da un manifesto intitolato «Iniziativa per il rispetto della vita umana». «La Comunità Evangelica Valdese – si leggeva nel testo – associandosi con animo commosso al lutto cittadino per la inumana strage avvenuta nei giorni scorsi, in seguito agli attentati dinamitardi di Villabate e di Villa Serena, in cui nove preziose vite umane sono state stroncate in modo crudele, mentre esprime il profondo senso di solidarietà umana, nel dolore, alle famiglie delle vittime, auspica che non solo siano prese, da parte degli organi competenti, delle misure per reprimere ogni atto di criminalità che con così preoccupante frequenza insanguina le vie e i dintorni della nostra città, ma soprattutto fa appello a quanti hanno la responsabilità della vita civile e religiosa del nostro popolo, onde siano prese delle opportune iniziative per prevenire ogni forma di delitto, adoperandosi con ogni mezzo alla formazione di una più elevata coscienza morale e cristiana, richiamando tutti ad un più alto senso di sacro rispetto della vita e alla osservanza della Legge di Dio che ordina di NON UCCIDERE». Un’iniziativa clamorosa ed inusuale quella della Chiesa Valdese e del suo pastore, che, senza nominare esplicitamente la parola “mafia”, richiamava tutti ad un impegno concreto ed esplicito contro la violenza, mediante un’adeguata formazione della coscienza morale e cristiana e richiamando tutti «alla osservanza della Legge di Dio che ordina di non uccidere». Ma la Chiesa palermitana e il cardinale Ruffini snobbarono l’iniziativa, che considerarono «un ridicolo tentativo di speculazione protestante». «Nemmeno il cardinale mi ha risposto – avrebbe detto, amareggiato, qualche anno dopo il pastore Panascia – Chiedevo accoratamente di aprire un dialogo, di unirci, come cristiani, per fare qualcosa contro la mafia: tutti si occupano di mafia, politici e giornalisti, sindacalisti e sociologi. Tutti, fuorché i cristiani…». Pietro Valdo Panascia è a Palermo morto lo scorso 19 ottobre, all’età di 97 anni: si può dire che la sua vita è stata traccia indelebile di impegno civile e cristiano.
In quell’estate del 1963, chi non snobbò affatto l’iniziativa contro la mafia del pastore Panascia e della Chiesa Valdese di Palermo fu Paolo VI, il nuovo Papa, successore di Giovanni XXIII. Il 5 agosto, infatti, monsignor Angelo Dell’Acqua, sostituto della segreteria di Stato vaticana, sicuramente su disposizione di Paolo VI, scrisse una lettera al cardinale Ernesto Ruffini, ricordandogli il «manifesto per deplorare i recenti attentati dinamitardi che hanno provocato numerose vittime fra la popolazione civile», pubblicato dalla Chiesa Evangelica Valdese. «Nel segnalare detta iniziativa all’attenzione dell’Eminenza Vostra – proseguiva la lettera – mi permetto sottoporre al Suo prudente giudizio di vedere se non sia il caso che anche da parte ecclesiastica sia promossa un’azione positiva e sistematica, con i mezzi che le sono propri – d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale – per dissociare la mentalità della così detta “mafia” da quella religiosa e per confortare questa ad una più coerente osservanza dei principi cristiani…». La risposta del cardinale Ruffini alla lettera vaticana fu molto risentita. «Conoscevo già il manifesto pubblicato dal Pastore valdese: iniziativa molto facile, che ha lasciato il tempo di prima! – scrisse Ruffini l’11 agosto 1963 - Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa. E’ una supposizione calunniosa messa in giro, specialmente fuori dell’Isola di Sicilia, dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia…». La Chiesa palermitana, secondo il cardinale, non aveva nulla da rimproverarsi, non si sentiva chiamata in causa perché a posto con la coscienza; e soprattutto non aveva nulla da imparare dai pastori protestanti. L'anno successivo, in occasione della Pasqua, l'arcivescovo avrebbe scritto la nota lettera pastorale, intitolata “Il vero volto della Sicilia”, dove affermava che la mafia esisteva, sì, ma si trattava solo di delinquenza comune alimentata da «giovinastri disoccupati». «Il prelato metteva così la mafia a carico dei poveri – sottolinea padre Nino Fasullo, direttore della rivista “Segno” - sollevando "il salotto buono" da ogni sospetto, da ogni e qualsiasi responsabilità».
I contenuti della lettera pastorale “Il vero volto della Sicilia” del 27 marzo 1964, che il cardinale Ruffini aveva indirizzato al clero, ai fedeli e a tutti i siciliani, suscitarono un vespaio di polemiche. Insieme alla difesa acritica della Sicilia e della sua classe dirigente, essa conteneva un attacco a Danilo Dolci e al romanzo “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, indicati come i responsabili della “cattiva fama” della Sicilia nel mondo. Una tesi che il pastore Pietro Valdo Panascia contrastò con garbata fermezza, in un opuscolo pubblicato dal giornale “L’Ora” del 9-10 aprile 1964. «Il problema – scrisse Panascia – sta nello stabilire se il male c’è o non c’è..., prima di gridare all’untore… Ora che il male ci sia e che lo vedano anche gli stranieri… è fuori dubbio. (…) Giova al rinnovamento morale, spirituale e sociale del nostro popolo cullarlo nella facile retorica di una esaltazione che confonde le idee e lo lascia in una inferiorità umiliante da cui invece dovremmo con ogni mezzo aiutarlo ad uscire, anche a costo di essere fraintesi, malvisti, odiati dai benpensanti e da quanti hanno una vita facile e comoda?». E il cardinale, il 10 aprile, rispose al pastore in forma privata, riconoscendogli «onesta e amore della giustizia», ma difendendo il senso del suo intervento.
NELLA FOTO: Il pastore Pietro valdo Panascia
28 ottobre 2007

domenica 28 ottobre 2007

Sanità, 118. Interrogazione PD: “Recenti assunzioni inconciliabili con il piano di rientro"

“Il governo Cuffaro dica chiaramente come ritiene possibile far conciliare il Piano di rientro della spesa sanitaria che prevede, fra l’altro, la riorganizzazione del 118, con la decisione di permettere alle ultime 74 assunzioni fatte ad agosto per altre finalità, di affollare ulteriormente l’esercito di oltre 3300 autisti-soccorritori già in servizio”. Lo chiedono i deputati regionali PD Roberto De Benedictis e Filippo Panarello, componenti della commissione Sanità all’Ars, e il capogruppo Antonello Cracolici, che hanno presentato un’interrogazione all’assessore regionale alla Sanità.
“Il 118 - dicono i deputati PD – costa in Sicilia circa 230 milioni di euro l’anno a fronte, ad esempio, dei 90 milioni che l’analogo e più efficiente servizio costa nella regione Piemonte. Secondo la relazione della sottocommissione Enrinches-Ghirardini-Giustolisi il servizio deve eliminare gli sprechi, costare meno ed essere più efficiente, così come richiesto anche dal Piano di rientro del deficit”.

“Ma nonostante la gravità della situazione – si legge nell’interrogazione - nel mese di agosto di quest’anno, e cioè immediatamente dopo la stipula del Piano, la SISE SpA, società che ha in carico il personale del 118, ha proceduto all’assunzione a tempo determinato di 74 nuovi ispettori-verificatori, col compito di accertare eventuali danni degli automezzi impegnati (si evidenzia che, a fronte delle 269 ambulanze in servizio, ogni verificatore risulta addetto in media al controllo di un numero inferiore a 4 ambulanze!).
Queste assunzioni – prosegue l’interrogazione - sono avvenute per chiamata diretta, senza alcuna selezione ad evidenza pubblica, nonostante il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti avessero già avuto modo di stigmatizzare precedenti assunzioni di personale eseguito dalla stessa SISE SpA con le medesime procedure. Oltretutto fra i mesi di settembre ed ottobre, cioè subito dopo la loro assunzione quali verificatori, agli stessi è stato fatto frequentare un corso OVAS (Operatore Volontario Assistente Sanitario) per autista-soccorritore, tenutosi presso la centrale operativa del 118 di Messina, della una durata di 20 giorni”

“Tutto ciò – concludono De Benedictis, Panarello e Cracolici – fa pensare al possibile inserimento in servizio di 74 nuove unità in aggiunta agli oltre 3300 autisti-soccorritori già in servizio, al di fuori ed in contrasto con ogni programmazione del servizio stesso e con gli impegni di contenimento della spesa assunti nel cosiddetto Piano di Rientro”.


IL TESTO DELL'INTERROGAZIONE


All’Assessore Regionale alla Sanità

Premessi gli enormi costi del servizio “118” in Sicilia che, come riferito dalla sottocommissione Enrinches-Ghirardini-Giustolisi per il miglioramento del sistema di emergenza/urgenza, grava sul Servizio Sanitario Regionale per circa 230 milioni di euro/anno a fronte dei 90 milioni di euro/anno che l’analogo e più efficiente servizio costa nella regione Piemonte;

Visto che la relazione della suddetta sottocommissione evidenzia una lunga serie di carenze e criticità del servizio di emergenza/urgenza siciliano e la necessità di avviare una profonda ristrutturazione dell’intero servizio, pervenendo ad una sua maggiore efficienza unitamente al contenimento della relativa spesa;
Visto che anche il “Piano di Contenimento e di Riqualificazione del Sistema Sanitario Regionale 2007-2009”, cosiddetto Piano di Rientro (nel seguito PdR), sottoscritto a Roma il 31 luglio 2007 dal presidente della Regione Siciliana, dal Ministro della Sanità e dal Ministro dell’Economia, mette in luce “gli alti costi determinati dall’espletamento di tale servizio” prevedendone la riorganizzazione, inclusa la revisione della convenzione con la Croce Rossa Italiana da deliberarsi da parte della Giunta Regionale entro il 30 novembre 200 7in modo da assicurare il cambiamento di gestione fin dal 1° gennaio 2008, nonché una serie di misure di risparmio sul servizio in atto;
Appreso che, nonostante la gravità della situazione e le misure previste nel PdR, nel mese di agosto di quest’anno, e cioè immediatamente dopo la stipula del suddetto piano, la SISE SpA, società che ha in carico il personale del servizio “118”, ha proceduto alla assunzione a tempo determinato di 74 nuovi ispettori-verificatori, col compito di accertare eventuali danni degli automezzi impegnati (si evidenzia che, a fronte delle 269 ambulanze in servizio, ogni verificatore risulta addetto in media al controllo di un numero inferiore a 4 ambulanze!);
Evidenziato che tali assunzioni sono avvenute per chiamata diretta, senza alcuna selezione ad evidenza pubblica e che già il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti hanno avuto modo di stigmatizzare precedenti assunzioni di personale eseguito dalla stessa SISE SpA con le medesime procedure;

Considerato che fra i mesi di settembre ed ottobre, cioè subito dopo la loro assunzione quali verificatori, agli stessi è stato fatto frequentare un corso OVAS (Operatore Volontario Assistente Sanitario) per autista-soccorritore, tenutosi presso la centrale operativa del “118” di Messina per una durata di 20 giorni;

Ritenuto che tale procedura preluda al possibile inserimento in servizio di 74 nuove unità in aggiunta agli oltre 3300 autisti-soccorritori già in servizio, al di fuori ed in contrasto con ogni programmazione del servizio stesso e con gli impegni di contenimento della spesa assunti nel cosiddetto Piano di Rientro;

per sapere

1) se il Governo era informato delle assunzioni che sono state operate dalla SISE SpA nel mese di agosto 2007 e quale ne è la sua valutazione;

2) come ritiene tali assunzioni compatibili con il “Piano di Contenimento e di Riqualificazione del Sistema Sanitario Regionale 2007-2009” firmato il 31 luglio 2007 ed in particolare con la riorganizzazione ivi prevista del servizio “118” in Sicilia;

3) se può escludere che le 74 unità in parola, assunte come verificatori, possano aggiungersi agli autisti-soccorritori già in servizio.

Palermo, 25 ottobre 2007
De Benedictis, Cracolici, Panarello

Fiction su Riina, ascolti record e anche il boss la guarda in cella

Il padrino nel carcere milanese di Opera giovedì sera ha rinunciato all'abitudine di andare a letto alle dieci per la prima puntata del "Capo dei capi". La madre di uno dei poliziotti morti con Paolo Borsellino: "Pentiti"

di SALVO PALAZZOLO

PALERMO - Per due ore è rimasto immobile davanti alla sua vita che scorreva dentro il piccolo televisore, unico lusso della cella al carcere duro, nel girone più blindato di Milano-Opera. Salvatore Riina non ha battuto ciglio quando si è rivisto ragazzino nella Corleone del dopoguerra, messa in scena da Mediaset per la prima puntata del "Capo dei capi". Lui, il padrino vero, non ha tradito alcuna sensazione per la scena del primo incontro con Luciano Liggio. La cena che lo fece diventare quello che è adesso, il responsabile di una catena di delitti e di misteri ancora irrisolti. Giovedì sera, Totò Riina ha rinunciato alla maniacale abitudine di andare a letto alle dieci. Per rivedere in fiction tutti i compagni della Corleone ruggente del dopoguerra: da Bernardo Provenzano, che è rinchiuso nel carcere di Novara, a Vito Ciancimino, il figlio del barbiere del paese che divenne il sindaco di Palermo, morto ormai da sei anni. Per una sera, Riina ha rinunciato alla sua passione televisiva per lo sport. Provenzano, invece, ha seguito le ultime notizie dei Tg e alle nove, puntuale, si è messo a letto. Fra i 7 milioni 146 mila spettatori che hanno seguito il "Capo dei capi" (è stato il programma più visto, con il 27,21 per cento di share) non c'è stato, però, solo uno spettatore eccellente. A Palermo, anche la madre di uno dei poliziotti morti con Paolo Borsellino ha ripercorso la vita di quei ragazzi di Corleone. E oggi lancia un appello a Totò Riina, quello vero: "Devi pentirti - dice Emilia Catalano, la mamma di Agostino - hai rivisto la tua vita? Cosa hai costruito? Cosa stai lasciando a tua moglie e ai tuoi figli? Solo morte e ancora dolore".
Proprio i figli e la moglie sono stati la preoccupazione principale di Totò Riina per la serie televisiva prodotta da Valsecchi. Racconta l'avvocato Luca Cianferoni: "Quando si è saputo che Mediaset aveva in preparazione questo lavoro abbiamo chiesto di poterlo visionare, unicamente per comprendere come sarebbero stati raccontati la moglie e soprattutto i figli di Riina. La vicenda giudiziaria è una cosa, il lato personale è un altro". In realtà, i figli di maschi del capo dei capi hanno seguito presto la strada del padre. Giovanni, 31 anni, è rinchiuso all'ergastolo. Giuseppe Salvatore, 30 anni, spera di uscire presto, dopo una condanna per associazione mafiosa e un processo d'appello che la Corte di Cassazione ha ordinato di rifare. "Adesso, Giuseppe si è iscritto a Economia e Commercio", dice l'avvocato Cianferoni. Giuseppe sembrava davvero il volto diverso dalla famiglia: prima di finire in carcere, si era fatto persino intervistare da Speciale Tg1, per ribadire la sua voglia di "vita normale". E intanto, organizzava una cosca tutta sua, con la complicità di alcuni insospettabili professionisti palermitani, per aggiustare appalti. Adesso, in carcere, i Riina si scambiano lettere. Fra loro, e con gli altri corleonesi. Chi scrive di più è Leoluca Bagarella. "Riina sta molto male - ribadisce Cianferoni - non può restare dove si trova". I giudici del tribunale di sorveglianza di Milano la pensano diversamente. E di recente, hanno ribadito il loro no agli arresti domiciliari o al trasferimento in una struttura ospedaliera. "Stanno arrivando altri esami del sangue - annuncia il legale - che metteranno in evidenza la gravità del quadro clinico".

(La Repubblica, 27 ottobre 2007)

FINCHE’ CONDANNA NON CI SEPARI. La politica siciliana delegata a un tribunale

di Agostino Spataro
Fino a qualche anno addietro sarebbe stato impensabile che il futuro politico della Regione potesse essere appeso agli esiti di una sentenza di tribunale. Come quella che sarà emessa a conclusione del cosiddetto processo talpe che vede imputato, fra gli altri, il presidente della Regione. Siamo cioè di fronte a una variabile inedita della politica che affida alla magistratura la risoluzione di un delicatissimo problema che, evidentemente, il centrodestra non desidera o non può risolvere. Una nuova delega ai giudici che già suppliscono, loro malgrado, la scarsa volontà delle istituzioni politiche e di governo che non intendono assumersi la loro parte di responsabilità nella lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione nella pubblica amministrazione. Ora anche l´onere di decidere le sorti politiche di un´istituzione importante qual è la Regione.
In altri momenti si è parlato di «via giudiziaria», perfino di alterazione dell´equilibrio fra poteri costituzionali autonomi. In questo caso nessuno se ne lagna. Tutto bene? Credo proprio di no. Molti cominciano a chiedersi: ma se la politica rinuncia ai suoi compiti e li delega alla magistratura cosa ci stanno a fare i partiti, l´Ars, il governo, i deputati? Una domanda inquietante alla quale bisognerebbe rispondere recuperando le funzioni primarie della politica, nel pieno e trasparente rispetto dei ruoli di maggioranza e d´opposizione. Seriamente. Non come ha fatto mercoledì a Palermo l´onorevole Casini il quale, forse pensando di trovarsi in un´isoletta sperduta del mar dei Sargassi, si è spinto a rivendicare per l´Udc il «monopolio della lotta alla mafia». Se queste sono l´analisi e la via indicata (ai giovani) c´è da star freschi sul futuro di questa regione.
Al di là del merito specifico, infatti, i comportamenti politici derivati da questa vicenda giudiziaria alimentano la tendenza antipartitica che ancora non ha investito la Sicilia. Qui, nonostante tutto, la malapolitica gode di un certo consenso. Ovviamente, fino a quando ci sarà qualcosa da mungere dal seno di mamma Regione. Ma se questa ondata dovesse arrivare potrebbe risultare più devastante che altrove, giacché investirebbe il sistema nel suo punto più debole, ovvero in questa Regione, trasfigurata da sessant´anni di malgoverno, ormai sotto tutela del governo centrale e di grandi corporazioni finanziarie titolari di crediti miliardari.
In Sicilia, dunque, la crisi non è solo di credibilità, ma anche di progettualità e di liquidità. Mancano le idee e le risorse per realizzarle. Questo è il nostro dramma. Poiché i migliori cervelli sono scappati e gli ingenti finanziamenti trasferiti dallo Stato e dalla Ue sono stati sprecati per soddisfare interessi affaristici e clientelari. E con l´esaurirsi delle risorse finanziarie, tutti i nodi verranno al pettine: si dovrà rendere conto di promesse non mantenute, di spartizioni inconfessabili quanto asimmetriche. Insomma, si sta raschiando il fondo del barile e perciò il gioco non può continuare. Forse è meglio uscire dal pantano.
Ma chi potrà assumersi la grave responsabilità di fermare le macchine? A poco più di un anno dalle elezioni, non è facile sciogliere l´Ars, il governo, bloccare sul nascere carriere e belle speranze. Manco a parlarne di questa eventualità. E difatti nessuno ne parla. Tranne Cuffaro che la brandisce come una minaccia. Perciò, tutti concordi nell´affidare ai giudici la responsabilità, magari sperando che la fatidica sentenza arrivi il più tardi possibile. Speranze che cominciano ad avere un qualche fondamento dopo che la presidenza della Corte di cassazione ha dichiarato ammissibile l´istanza di remissione presentata dai difensori di Cuffaro, giacché resta aperta la possibilità di un trasferimento del processo in altra sede e con altra corte.
Senza scomodare Kafka, non sarebbe questa la prima volta che i tempi di un processo vanifichino gli effetti che esso avrebbe potuto determinare. Si profila cioè un´attesa lunga, snervante che potrebbe paralizzare le già grame attività dell´Ars e del governo della Regione e degli enti territoriali. Anche questo è un segno dei tempi difficili che stiamo vivendo, di una nuova caduta di ruolo che spinge la regione verso il precipizio. E proprio quando sarebbe necessario il dispiegamento di tutte le potenzialità politiche, culturali, imprenditoriali e morali per far fronte alla crisi evidente che attanaglia l´Isola. Tutti gli indicatori e le proteste sociali lo confermano. Basterebbe vedere quello che, in questi giorni, succede a Palermo. Invece c´è un rifiuto cieco di prendere atto di una realtà socio-economica striminzita, ingiusta, nella quale a pochi arricchimenti, più o meno illeciti, corrispondono nuove povertà e nuova emigrazione. Una realtà controversa dove si finge di sconoscere l´origine di una buona fetta del reddito e quasi tutto dipende dall´entità e dai meccanismi della spesa pubblica. Una situazione dunque ad altissimo rischio sociale che, se si facesse sul serio la lotta alle diverse forme d´illegalità, potrebbe diventare esplosiva. Perciò la via d´uscita non è certo facile, meglio affidarla alla sentenza di un tribunale.
da la Repubblica

sabato 27 ottobre 2007

LA GRANDE TRUFFA. Ponte sullo stretto, il pasticcio continua

di Simone Verde
Maggioranza divisa e battuta in Senato sul ponte sullo Stretto di Messina. Con un emendamento alla Finanziaria in cui l'Italia dei Valori ha votato a fianco del centro-destra per impedire la chiusura della società responsabile della grande opera pubblica. Primo strascico politico, la defezione di Franca Rame dal gruppo di Antonio Di Pietro, per protesta «contro dichiarazioni contraddittorie e l'incapacità a perseguire una linea politica chiara e coerente con il programma». Ma anche «contro un progetto irrealizzabile, servito soltanto a sperperare denaro pubblico in una delle più grandi truffe degli ultimi anni».
Al centro della polemica, la Stretto di Messina Spa, creata nel 1981 proprio per la realizzazione del ponte. Una struttura costata finora oltre 150 milioni di euro e, come dimostrato da varie inchieste della procura di Messina, ripetutamente al centro di attenzioni della mafia. Società, però, il cui scioglimento chiesto dalla maggioranza avrebbe obbligato lo stato a versare oltre 350 milioni di euro di rimborsi agli azionari. Spesa che il ministro Di Pietro dichiara da tempo di voler evitare, proponendo di non procedere alla soppressione della società e di assorbirla nell'Anas per incaricarla di nuove infrastrutture in Sicilia e in Calabria.
Un compromesso, però, che non è riuscito a convincere la maggioranza. Innanzitutto - sostengono alcuni - poiché mantenere in vita una struttura già responsabile di sprechi, alla lunga potrebbe portare a spese superiori alla penale stessa. Poi, poiché i rischi di infiltrazione mafiosa suggeriscono di chiudere quello che sta diventando un vero e proprio carrozzone. Infine, poiché appare inaccettabile finanziare una società per progetti non in programma e dalla fattibilità ancora da dimostrare. A rinforzare queste perplessità, un'inchiesta apparsa sulla Repubblica nel novembre 2006, in cui venivano rese note spese faraoniche per progetti e studi tanto surreali quanto inconcludenti. Ricerche sul «Flusso dei cetacei fra Scilla e Cariddi» o su «L'impatto antropologico dei lavori sulla popolazione locale». Tutti elementi ribaditi e ricordati in Senato da Natale Ripamonti, relatore di maggioranza per il provvedimento. «Non si capisce - afferma Ripamonti - perché una società dal passato così discusso debba rimanere in piedi. Il problema è che Di Pietro non si vuole rassegnare all'idea che il ponte non si farà. E per questo propone l'assorbimento in Anas. per lasciare una porta aperta, in futuro, alla realizzazione del progetto».
Secondo il senatore dei Verdi, a motivare l'ostinazione di Di Pietro sarebbe innanzitutto «l'esigenza di distinguersi politicamente all'interno del governo. Tanto più che il ministro è uscito perdente dallo scontro con Clemente Mastella». Un'esigenza resa ancora più pressante dall'eventualità di elezioni anticipate e dalla presenza, tra i deputati dell'Italia dei Valori, di Aurelio Misiti, da sempre potente e convinto sostenitore del ponte. Un deputato cresciuto nelle file del Pci, ex segretario nazionale della Cgil-Scuola e passato nelle file berlusconiane nel 1994. Un salto che gli permise di essere nominato nel 1994 Presidente del Consiglio dei Lavori Pubblici e Commissario straordinario per le grandi opere del sud nel 2003. Una tortuosa vicenda politica per il momento conclusasi con l'elezione delle file del partito di Di Pietro con l'ambizione di rappresentare quella parte di elettorato calabrese che spera di trarre vantaggi dalla costruzione del ponte.
dal manifesto

QUEI BRAVI RAGAZZI. Da oggi in distribuzione l'ultimo libro di Claudio Fava

POLLARI aveva mentito. Fu definitivamente chiaro tre mesi dopo quell’audizione, quando la Commissione entrò in possesso di un carteggio tra la CIA e il SISMI che risaliva ai giorni successivi al rapimento di Abu Omar. Si trattava di due note confidenziali con cui i servizi segreti americani informavano i colleghi italiani sugli sviluppi del caso: il 15 maggio 2003 la CIA comunica a Pollari che l’imam si trova al Cairo, interrogato dai servizi egiziani. Sei giorni dopo un’altra nota conferma che Abu Omar è detenuto in una località segreta in Egitto.
Pollari ha mentito a tutti. Alla Commissione d’inchiesta del Parlamento Europeo, al Comitato di controllo dei servizi segreti, ai magistrati che lo hanno interrogato e poi incriminato per concorso in sequestro di persona. Nega di essere stato avvertito dal suo predecessore al SISMI, l’ammiraglio Battelli, che la CIA voleva una mano per organizzare una dozzina di extraordinary renditions in Italia; nega di aver incontrato Jeff Castelli, il grande capo della CIA in Italia, per raccogliere la sua richiesta di collaborazione nel rapimento di Abu Omar; nega di aver ordinato al generale Pignero, capo dipartimento del SISMI, di organizzare i primi accertamenti sull’egiziano in vista del sequestro; nega di essere a conoscenza di una riunione a Bologna tra i capicentro regionali del SISMI per mettere a punto una strategia in vista dell’operazione; nega che due colonnelli, D’Ambrosio, capocentro SISMI di Milano, e Fedrigo, capocentro di Trieste, siano stati trasferiti su due piedi in altra sede e ad altro incarico perché avevano manifestato dubbi sull’opportunità e la liceità di quell’operazione. Quando non nega, Pollari tace. Dice: «Violerei il segreto di Stato». Dopo quell’audizione a Bruxelles, sarà la sua unica linea di difesa.
No, non l’unica. Una linea di difesa più sfrontata gliela garantiranno gli inquilini di Palazzo Chigi. L’11 novembre 2005, in una lettera riservata alla Procura di Milano, il premier Silvio Berlusconi scrive che «[...] il governo ed il SISMI sono del tutto e sotto ogni profilo estranei rispetto a qualsivoglia risvolto riconducibile al sequestro di Abu Omar», per concludere che sull’intera vicenda va opposto il segreto di Stato. Riconfermato, un anno e mezzo più tardi, dal governo di centrosinistra. E con la Procura di Milano come la mettiamo? Va fermata, fa sapere da Palazzo Chigi Romano Prodi. L’avvocatura dello Stato viene incaricata di presentare ricorso alla Corte Costituzionale per invalidare il rinvio a giudizio di Nicolò Pollari e degli altri imputati. Uno scontro istituzionale d’inaudita e incomprensibile durezza che ha una sola lettura possibile: Pollari e la CIA non devono essere processati.
Dietro quel ricorso c’è un malcelato imbarazzo nei confronti del governo americano; e c’è il disagio della politica romana per quell’agire così rigoroso dei giudici di Milano, tra i pochi ancora caparbiamente convinti che la legge in Italia debba essere uguale per tutti. «Quasi» uguale, fa sapere il ministro della Giustizia Clemente Mastella: lui, fino a quando non si sarà risolta la querelle istituzionale tra governo e procura, le richieste di estradizione per quegli agenti della CIA non le firmerà: stiamo valutando, ne riparliamo tra un mese, anzi dopo l’estate. Anzi, non ne parliamo più.
Anche sulla Commissione d’inchiesta di Bruxelles, dopo le audizioni del procuratore Spataro e del generale Pollari, cresce un fastidio fatto di parole negate, di silenzi incomprensibili, di dichiarazioni avventate. E di inviti declinati. Il primo rifiuto arriva da Enzo Bianco, presidente del COPACO (il Comitato Parlamentare di Controllo sui servizi segreti). Lo chiamo io stesso, all’inizio di marzo. Il deputato della Margherita, che è stato anche ministro dell’Interno, sembra sinceramente compiaciuto per l’invito: certo, mi spiega, dovrà prima chiedere l’autorizzazione al presidente della Camera, quelli del COPACO sono vincolati al segreto. Segreto è un’utile parola che rimbalzerà spesso su questa vicenda: lo evoca Bianco, lo oppone Pollari, lo impone Berlusconi, lo riconferma Prodi... La risposta di Bianco si farà comunque attendere a lungo. E sarà negativa: impegni parlamentari, spiegherà la sua segretaria, agenda piena, magari ne riparliamo… Ne riparliamo? Quando? In primavera si vota, l’Unione vince e Bianco lascia il COPACO. Pazienza.
Il secondo rifiuto arriva da Enrico Micheli, sottosegretario, fresco di nomina, nel governo Prodi, con delega ai servizi segreti. Per due mesi Micheli si nega, prende tempo, rimanda. Chiamo Marco Minniti, viceministro dell’Interno, provo a spiegargli che il governo italiano e il centrosinistra, così traccheggiando, rischiano di perdere la faccia. Nessun altro governo europeo si è sottratto alla collaborazione con la Commissione: Zapatero ci ha mandato il potentissimo ministro degli Esteri Moratinos, portoghesi e britannici hanno messo a disposizione mezzo esecutivo, a Skopje e a Bucarest siamo stati accolti dai presidenti della repubblica, in Germania ci hanno aperto gli archivi dei servizi segreti, perfino la CIA ha accettato d’incontrarci... «Ci penso io», dice Minniti. Fatto sta, che due giorni prima della data fissata per l’audizione con Micheli, la segreteria della Commissione d’inchiesta riceve da Roma un fax di quattro righe: il sottosegretario non viene, non ne ha voglia, non saprebbe cosa dirci... Quando tireremo le somme, dopo un anno di lavoro e centinaia di audizioni, all’appello mancheranno solo il governo polacco e quello italiano.
Strafottenza? Sbadataggine? Non credo. C’è come un tarlo, un’ansia di seppellire questa vicenda in fondo a un sacco, di fingere non solo che qualcosa di illecito sia mai accaduto ma che i protagonisti di questa recita siano tutti irreprensibili servitori dello Stato. Da gratificare con encomi e promozioni, altro che processi! È così che Pollari resta al suo posto. Ha mentito, ha taciuto, è imputato per concorso in un sequestro di persona eppure conserva la propria inossidabile impunità politica. Ad aprile l’Unione vince le elezioni, Berlusconi va a casa ma il governo di centrosinistra riconfermerà il generale alla guida del servizio segreto militare. «Convochiamolo almeno al COPACO», propone qualcuno. Lo invitano ad agosto, di domenica, con le Camere ormai chiuse. Pollari, gessato blu e cravatta a pois, si presenta con dieci faldoni di carte. Quando termina l’audizione, fuori è già buio, ha parlato per quattro ore ma ciò che ha continuato a ripetere si racconta in poche parole: «Mai autorizzato azioni illegali». La cosa stupefacente è che gli credono tutti: così, sulla parola. Ecco Claudio Scajola, Forza Italia, presidente del Comitato: «Quella di Pollari è stata una relazione puntuale, lunga, documentata. Le accuse che abbiamo letto sui giornali in queste settimane appaiono confutate punto per punto».
Pollari verrà sostituito, nel corso di un normale avvicendamento assieme ai capi del SISDE (l’intelligence civile) e del CESIS (la struttura di coordinamento tra i servizi), solo il 16 dicembre, dieci giorni dopo la richiesta di rinvio a giudizio formalizzata dal PM di Milano contro di lui e contro altri 32 imputati. Il generale lascia a testa alta, dopo aver firmato, a tempo ormai scaduto, decine di nomine per piazzare i suoi fedelissimi nei posti chiave del SISMI. Lascia con una nomina a consigliere speciale di Palazzo Chigi e con la gratitudine del premier Prodi: gratitudine per cosa? Un premio alla carriera e alla fedeltà arriva negli stessi giorni anche a Pio Pompa, ex braccio destro di Pollari. Per conto del suo capo, a cui riferiva dettagliatamente ogni ribalderia, il signor Pompa aveva messo in piedi una struttura clandestina di dossieraggio e disinformazione come non se ne vedevano dai torbidi anni Sessanta. Per anni, dal suo ufficio romano del SISMI, Pompa organizza la metodica schedatura di magistrati, politici e giornalisti vicini al centrosinistra. In una di queste farneticanti cartelline si legge che quattro Procure italiane (Torino, Milano, Roma e Palermo) sono accusate di attuare una strategia «destabilizzante» ai danni del governo Berlusconi. «Occorre prefigurare una serie di contromisure per contrastare e neutralizzare le succitate iniziative», si legge su uno dei dossier, «anche attraverso l’adozione di provvedimenti traumatici nei confronti di singoli soggetti». Provvedimenti traumatici, scrive Pompa: quanto traumatici? Uno dei fascicoli ritrovati nell’archivio segreto dell’agente Pompa è dedicato al premier Romano Prodi: una raccolta di atti giudiziari di vecchie inchieste ormai archiviate, i suoi discorsi da presidente della Commissione Europea, un repertorio di dicerie, spazzature... Salteranno fuori quarantacinque dossier, dal viceministro Visco al giudice Caselli: quarantacinque nemici da «neutralizzare», secondo i suggerimenti di Pio Pompa. In un’altra cartellina sono conservati invece curriculum, foto e note sugli spostamenti del procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro: lo hanno pedinato e tenuto discretamente d’occhio per mesi come se fosse un pericoloso terrorista. Insomma, con Pollari e Pompa il SISMI s’è trasformato in un corpo separato dello Stato con licenza di depistare, istigare, inquinare. Se non è un rumor di sciabole, poco ci manca.
In un paese normale, a quei rumori si sarebbe risposto richiamando i militari in caserma e mettendoli in riga, cacciando le mele marce, ristabilendo il primato della verità. In un paese normale: non in Italia, non in questi anni balordi. E così, mentre a Milano il signor Pompa viene rinviato a giudizio per favoreggiamento aggravato nel sequestro di Abu Omar, a Roma, coloro che nei suoi dossier erano indicati come «nemici da disarticolare», decidono che è tempo di premiarlo trasferendolo dal SISMI al ministero della Difesa. Dei quaranta senatori e deputati che nella precedente legislatura avevano firmato una risoluzione per chiedere conto al governo Berlusconi delle sue menzogne sul rapimento di Abu Omar, non uno si fa avanti. Nemmeno chi da viceministro (Marco Minniti) o da presidente di Commissione (Luciano Violante) avrebbero adesso strumenti e funzioni. È in quei giorni che anch’io ricevo un affettuoso segnale d’interessamento. La lettera, anonima, è stata imbucata a Fiumicino ed è spedita a un mio indirizzo privato che non figura sull’elenco del telefono. Il testo è breve, vergato a mano in buon italiano. «Se non vuoi fare la fine di tuo padre, lascia stare il generale Pollari.» A buon intenditor…

LA SECONDA VOLTA. Come muore un italiano...

di GABRIELE POLO
Prendiamo atto: per «difetto di giurisdizione» un tribunale della Repubblica non può giudicare l'uomo che - per sua stessa ammissione - ha ucciso Nicola Calipari sparandogli addosso la notte del 4 marzo 2005 a pochi metri dall'aeroporto di Baghdad. Vuol dire che la giustizia italiana si dichiara impotente di fronte a una magistratura superiore, quella sì davvero competente, quella del «soggetto mandante», gli Stati uniti d'America. In altre parole vale la legge dell'impunità per qualunque reato commesso, ovunque venga commesso, se di quel reato è responsabile un marine americano. Non assolto preventivamente in quanto persona in carne e ossa, ma per la divisa che porta, per ciò che rappresenta: il dominio a stelle e strisce sul mondo.
Prendiamo atto: la giurisdizione dello stato italiano sui propri cittadini, le tutele che dovrebbe garantire loro, si estinguono di fronte a un potere più grande, quello sì davvero praticato, quello della superpotenza mondiale. Vuol dire che la sovranità nazionale è orpello per la retorica che nelle scuole della Repubblica fa inchinare i bambini di fronte alla bandiera. Un falso, nulla di più. In altre parole vale la legge del più forte, e di fronte a esso non si può far altro che abbassare la testa, nel migliore dei casi chiedere comprensione e implorare clemenza. Vale per la sentenza di ieri come per quella del Cermis, ma è la stessa cosa per la costruzione di una nuova base militare Usa a Vicenza. Atti giuridicamente infondati, politicamente non dovuti e gratuiti.
Prendiamo atto: la guerra non finisce mai di uccidere. Lo fa materialmente e poi lo rifà simbolicamente. E la seconda volta è persino peggio della prima. Perché ti dice che sei un niente, che il meccanismo incombe su di te ed è più forte di te. Di italiani in Iraq ne sono morti più d'uno e di mestieri diversi: soldati, giornalisti, contractors, agenti segreti, tutti uniti nella stessa sorte e tutti vittime della stessa superiore ragione, quella della primazia occidentale che porta civiltà seminando morte. E lasciando morte alle spalle, magari poi andandosene come abbiamo fatto noi, senza curarsene più, pensando di essere assolti dal proprio ritirarsi, come se nulla fosse successo. Tranne quei morti, così terribilmente uguali agli altri che non vogliamo vedere. Perché nell'andarcene rimuoviamo anche i «nostri». Come per Baldoni, come per Calipari.
Prediamo atto: avevano ragione tutti quelli (giornalisti, politici, militari) che ci avevano detto fin dal 5 marzo di lasciar perdere, di non illuderci su come sarebbe andata a finire. Più arguti di noi, quelli che ci invitavano al realismo, quelli che ci accusavano d'ingenuità. Hanno «vinto» loro. Ma noi quell'ingenuità ce la teniamo stretta, perché è la sola cosa che ci permette ancora di non misurare la vita in euro. O in dollari.
dal manifesto

giovedì 25 ottobre 2007

LEONI ADDORMENTATI di Attilio Bolzoni

Nel cuore della Sicilia del feudo sembra che il tempo non passi mai. Tra silenzi e strade senza nome, storie di 'piccuttunazzi' del passato, musei dell'Antimafia e 'padrini' che 'sciusciano'

Il cadavere del giudice era ancora dentro l'auto, messa di traverso e trapassata dalle pallottole di una mitraglia. Curvo a terra, un capitano dei carabinieri raccoglieva bossoli infilando le sue mani fra i piedi di uomini immobili come statue. Erano le eccellentissime toghe di Palermo. Il procuratore generale. Il presidente della Corte d'appello. Il procuratore capo della Repubblica. Stavano lì con gli occhi puntati sul selciato, muti, sudati, pietrificati. Avevano facce che sembravano maschere.«Andiamo via di qui, saliamo a Corleone», disse Gianni trascinandomi per un braccio. Gianni Lo Monaco era il cronista anziano del quotidiano L'Ora, il giornale delle grandi battaglie siciliane. Il cadavere nell'auto era quello di Cesare Terranova, consigliere istruttore. Era appena tornato da Roma, dove per due legislature era stato in commissione parlamentare Antimafia come «indipendente di sinistra». Da giudice, dieci anni prima, aveva provato a incastrare Luciano Liggio e due sconosciuti contadini che si chiamavano Totò Riina e Bernardo Provenzano. L'anno era il 1979, il mese settembre. Fu Gianni che mi portò per la prima volta a Corleone. La strada più breve - cinquantanove chilometri - passava allora e passa ancora oggi da Marineo, cinque tornanti e poi la discesa verso il pianoro che sfiora il bosco della Ficuzza e il casino di caccia che i Borboni vollero maestoso ai piedi della Rocca Busambra. Gianni non parlò fino a quando arrivammo alla montagna. Il paese era là dietro. Cominciò a fare la conta delle strade che portano lassù: «Tutti pensano che Corleone sia un luogo isolato, difficilmente raggiungibile. E invece ci sono altre tre strade che vanno a Palermo, un'altra che attraversa Prizzi e arriva diretta sino ai primi paesi della provincia di Caltanissetta, un'altra che lo congiunge a Partanna, alla fine della valle del Belice». Corleone non era 'lontana' come dicevano. E come avevo sempre creduto. Era nel cuore della Sicilia del feudo, a pari distanza quasi da Palermo e da tutte le altre antiche capitali di mafia dell'isola: Villalba, Lercara, Salemi, Alcamo, Partinico. C'erano montagne che dividevano quelle case aggrappate agli spuntoni e c'erano percorsi che scavalcavano le montagne. Corleone era in mezzo. Quel pomeriggio, il 25 di settembre, la piazza era deserta. C'era solo una donna che stava incollando su alcune tavole disposte a semicerchio un centinaio di immagini in bianco e nero, una accanto all'altra e tutte con dei numeri scritti sotto. Date. In fondo alla piazza c'era anche un ragazzo smilzo che inseguiva fogli e cartoni portati via dal vento. La donna era Letizia Battaglia, il ragazzo Franco Zecchin. I fotografi di Palermo. Erano lì per far conoscere a Corleone i loro scatti di quell'infame 1979 siciliano. Una mostra sulla mafia in una piazza deserta. C'erano ritratti di Michele Reina, il segretario della Democrazia cristiana di Palermo ucciso a marzo. Ce n'erano di Mario Francese, il cronista giudiziario del Giornale di Sicilia abbattuto sotto casa a gennaio.C'erano foto di Boris Giuliano, il capo della squadra mobile, uno sceriffo buono, un vero segugio, il primo poliziotto italiano invitato ufficialmente alla scuola dell'Fbi, a Quantico, per 'studiare'. L'avevano assassinato al bar Lux, il 21 di luglio. Era stato un sicario solitario che si sussurrava fosse venuto proprio da Corleone per scivolargli alle spalle. Un nome che faceva paura: Leoluca Bagarella. Erano i Corleonesi che avevano cominciato a seminare il terrore a Palermo e in tutta la Sicilia. Era deserta la piazza di Corleone e non c'era anima viva nemmeno su corso Bentivegna, la via principale che finisce quasi davanti al municipio e dove un budello ripido si arrampica sulla collina. Case di tufo, una fontana in pietra, un vecchio portone di legno consumato dal tempo. «Lì dove vedi il portone c'era un salone da barba, il salone di Giovannino, come ragazzo di bottega aveva suo figlio: Vito», mi raccontò Gianni. Mi venne subito in mente Il Padrino di Mario Puzo. Come si chiamava il capo della «famiglia»? Vito. Don Vito Corleone. Quel ragazzo di bottega del salone da barba di Giovannino sarebbe diventato negli anni a seguire per meno di un mese sindaco di Palermo e per più di due decenni il padrone della città. Vito Ciancimino. Un altro corleonese. In quei mesi del 1979 i suoi amici di partito avevano cominciato a isolarlo, stavano provando a buttarlo fuori dalla politica e soprattutto dagli affari. Ma lui aveva le spalle coperte. Era nelle mani di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Il vecchio giornalista dell'Ora, dove anch'io avevo appena iniziato a fare il cronista, mi stava facendo scoprire Corleone. Via Rua del Piano, la casa dei Riina. Via Scorsone, la casa dei Bagarella. Il bastione San Rocco, teatro delle 'ammazzatine' della fine degli anni Cinquanta, la grande guerra di mafia combattuta in paese, da una parte il vecchio patriarca Michele Navarra e dall'altra loro, sempre loro: un giovanissimo Totò Riina, l'inseparabile Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella che era il fratello più grande di Leoluca. E poi Lucianeddu, Luciano Liggio che si atteggiava ad Al Capone, che con quel suo sigaro in bocca sembrava più gangster che mafioso, spavaldo, chiacchierone. E non così astuto come gli altri amici suoi, sempre dimessi, con addosso quei vestiti larghi e spiegazzati, sempre impregnati di quell'odore aspro, di campi arsi. Contadini. Li chiamavano 'peri incritati', piedi sporchi di terra. Li chiamavano anche 'i picciuttunazzi di Corleone'. Avevano già conquistato il loro paese. E volevano conquistare la Sicilia. Prima di tornare a Palermo, quel giorno Gianni mi portò su una cima dalla quale si domina Corleone. E' la Rocca dei Maschi. Sotto c'era una distesa di tetti. E intorno eucalipti, pale di fichi d'india, un ruscello. Ci sarei tornato quasi trent'anni dopo alla Rocca dei Maschi, l'11 aprile del 2006, nel giorno in cui da quelle parti catturarono il vecchio Bernardo. Il suo miserabile covo pieno di ricotte e cicoria era lassù, dietro una curva. Sono diversi i Corleonesi. E hanno una 'parlata' tutta loro. Per esempio, quando qualcuno dice in siciliano 'quello s'annaca', non vuol dire che sta camminando ondeggiando ma vuol dire che si sta vantando. L'annacamento in tutta la Sicilia occidentale era anche il movimento tipico dei mafiosi. A Corleone i mafiosi però non si 'annacano', i mafiosi di Corleone 'sciusciano'. Soffiano. Spostano aria stando fermi, senza alzare un dito. E' stato un vecchio di Corleone a confidarmi, tanto tempo dopo quella mia prima visita in paese, le differenze che ci sono fra Corleone e il resto del mondo mafioso. Era un poliziotto in pensione, quello che prese Totò Riina il 15 dicembre del '63, quando lui non era ancora un boss e non si era ancora buttato latitante per un quarto di secolo. Allora girava con una carta di identità intestata a un certo Giovanni Grande. Lo fermarono fuori dalla galleria Aldisio, nella parte alta del paese, dove una volta c'era la fabbrica del ghiaccio. Erano tutti appostati fuori dal tunnel. Il commissario Angelo Mangano, il brigadiere Biagio Melita e poi lui, il vecchio maresciallo di polizia che lo riconobbe: «Tu sei Riina, tu sei Salvatore Riina». Gli rispose il futuro capo dei capi della Cosa Nostra: «Un uomo che è un uomo almeno una volta nella vita la villeggiatura se la deve fare». La 'villeggiatura' per quei siciliani là è la prigione, il carcere. Il poliziotto in pensione mi spiegò che i mafiosi del suo paese appartenevano a un'altra razza. Ossessionati dalla segretezza. Paranoici. Sempre terrorizzati dai complotti, dalle trappole. Mi spiegò pure che solo la 'famiglia' di Corleone aveva uomini d'onore riservati. I Corleonesi conoscevano tutti gli altri uomini d'onore della Cosa Nostra ma gli altri non conoscevano tutti i Corleonesi. Una specie di loggia all'interno della mafia siciliana. Una Super Cupola per pochi. Fra quei pochi, ce n'era uno che chiamavano 'il professore'. E in effetti Leoluca Di Miceli, una quindicina di anni fa, insegnava in una scuola media del paese. Era di quelli segreti. Passeggiava su corso Bentivegna e tutti lo salutavano e lo ossequiavano. Era 'inteso', gli portavano rispetto. A Corleone in tanti avevano scommesso sul suo futuro da grande boss. Ma appena 'il professore' girava l'angolo si sentivano tanti bisbigli: «Peccato per il professore, ragiona più con la testa di sotto che con la testa di sopra». Gli piacevano troppo le femmine, a Di Miceli. Era la sua debolezza, agli occhi di certi paesani. Non sarebbe mai potuto diventare un capo. Per molti anni non è accaduto nulla in quella Corleone. Non doveva accadere niente. Nel cortile di casa dei Padrini non si sparava e non si spacciava, non si facevano saltare in aria negozi o cantieri. Era la legge imposta dai più forti. Corleone era avvolta nel silenzio, addormentata dai suoi signori. Poi però vennero gli anni che in paese si cominciò a parlare sempre di meno dei vecchi e sempre di più dei giovani. Dei figli. I figli maschi dei boss. Erano tornati tutti. Quelli di Totò Riina, appena fu catturato nel '93 sulla circonvallazione di Palermo. E quelli di Bernardo Provenzano, quando era ancora latitante. Giovanni e Salvo, Angelo e Francesco Paolo.I primi erano 'precisi' al padre, lo 'zio Totò'. Irruenti e prepotenti. Gli altri erano studenti modello, educati, sembravano allevati lontano dalla violenza. Giovanni Riina era già ergastolano a ventiquattro anni. Salvo era finito in galera subito dopo. Presto 'u picciriddu' - così chiamano in famiglia Salvo - uscirà dal carcere dopo cinque anni nei bracci speciali del 41 bis. A Corleone stanno preparando i festeggiamenti. Sembra che il tempo non passi mai, lì sotto la Rocca Busambra.
(Pubblicato il 15 ottobre 2007 www.dweb.repubblica.it)

lunedì 22 ottobre 2007

A Corleone l'anteprima de "Il Capo dei Capi"

(segue dalla prima)
L'intenzione degli autori, dice Claudio Fava, che con Stefano Bises, Domenico Starnone e con la collaborazione di Attilio Bolzoni e Giuseppe D'Avanzo, è autore della serie, prodotta dalla Taodue per Mediaset, è quella di raccontare e «provare a comprendere la quotidiana banalità del male, ma anche la sua capacità di seduzione, facendo attenzione a che questa non diventi per il pubblico una fascinazione». Claudio Gioè, giovane e ottimo attore siciliano, interpreta Riina. «Noi siciliani siamo esigenti sulle storie di mafia, che sono storie che per noi significano drammi con cui fare i conti. Qui è tutto molto aderente alla realtà, questa fiction è una storia catartica che viene offerta a tutto il pubblico. Nella prima puntata, quando si racconta della ascesa di Riina, che ha avuto un'infanzia affamata, ci può essere il rischio che il personaggio piaccia, ma noi siciliani sappiamo quanto la mafia possa essere subdola e affascinante. Nelle puntate successive però tutto questo si perde ed emerge la ferocia sua e degli altri». Daniele Liotti è l'unico personaggio inventato del film, il poliziotto Biagio Schirò, «che rappresenta tutti i soldati semplici che hanno combattuto la mafia, dei quali sappiamo il nome solo per quelli che sono morti». La “prima” nazionale de “il capo dei capi” la produzione ha voluto tenerla ieri sera a Corleone. E i corleonesi hanno risposto alla grande, riempiendo gli oltre 500 posti a sedere del cinema Martorana e restando persino in piedi. Curiosità, certo. Ma anche tanta voglia di guardarsi allo specchio, tanta voglia di guardare in faccia la mafia e i mafiosi, che a volte ci somigliano. Pubblico delle grandi occasioni ieri sera a Corleone, con un cinema Martorana strapieno, per applaudire gli attori, il regista e gli sceneggiatori. Putroppo, in una serata perfetta, la caduta di stile non poteva mancare. All'improvviso sul palco sono apparsi gli on.li Caputo ed Antinoro, i due "badanti" del sindaco Iannazzo. E giù gli "osanna" per la recente vittoria (del Polo) e per il giovane sindaco (di An). Ma che c'entrava tutto questo con la lotta alla mafia e con l'unità della società civile e politica per provare a vincere una battaglia così impegnativa?
23 ottobre 2007

domenica 21 ottobre 2007

Corleone, qualche proposta per il bilancio 2008

di DINO PATERNOSTRO

In questi giorni a Corleone, pare che l’amministrazione Iannazzo stia lavorando per la predisposizione del bilancio di previsione 2008. Certo, sarebbe un bel traguardo poterlo esaminare ed approvare entro il prossimo 31 dicembre, senza la necessità di ricorrere all’esercizio provvisorio. Per riuscirci, però, ci vuole visione programmatica da parte dell’amministrazione comunale, che dovrebbe avere quattro-cinque idee chiare su cui investire, chiamando al confronto aperto le organizzazioni sindacali e professionali e i gruppi consiliari. Però, non con atteggiamenti del tipo: «Ah Frà, che te serve???...», che pare stiano diventando la regola. Ai consiglieri comunali (almeno speriamo) non dovrebbe servire niente, se non la consapevolezza di dare un contribuito per lo sviluppo produttivo nella legalità e per il funzionamento di quei servizi, che guardino sempre ai ceti sociali più deboli.
Almeno, noi la pensiamo così. E siamo disposti al confronto solo in quest’ottica. A noi interessa che sia avviato il mercato ortofrutticolo, che si provi a far funzionare il caseificio, che si pensi alla grande viabilità, che si pensi ai ceti sociali più deboli.
Per esempio, che senso ha – come ha fatto l’amministrazione comunale con delibera n. 278 del 17.10.2007 – concedere a 33 cittadini che ne hanno bisogno e possiedono i requisiti un contributo per l’affitto della casa d’abitazione relativo all’anno 2005 pari al 28% di quanto ciascuno di loro ha richiesto. E questo perché la Regione ha finanziato al comune solo 9.901,84 euro, a fronte dei 34.733,44 necessari. Sarebbe stato così difficile trovare nelle casse comunali 24 mila euro per dare il contributo “pieno” a tutte le famiglie? E’ una questione di scelte. Come quella, altrettanto sbagliata, che l’amministrazione Iannazzo ha fatto per la refezione scolastica. Siccome in bilancio non ha somme sufficienti (di solito in bilancio si trova quello che si mette, o no?) per iniziare la refezione ad ottobre e finire a maggio, ha dato mandato agli uffici di iniziarla a fine novembre e di terminarla ad aprile. Non sarebbe stato più giusto incrementare la dotazione finanziaria e consentire il regolare svolgimento della refezione scolastica?
Sono le nostre domande così banalmente semplici, che non sarebbe neanche il caso di scrivere. Purtroppo, bisogna farlo perché a Corleone gli amministratori pensano al “altro” rispetto ai servizi per le scuole e per i cetyi sociali più deboli. Ci batteremo per invertire questa impostazione. Con molto realismo, senza illusioni, ma con grande determinazione
d.p.
22 ottobre 2007

No, non ci siamo. Alla prima esternazione il PD siciliano scivola nell’ambiguità e nell’impotenza della vecchia politica.

di ROBERTO TAGLIAVIA

Non può essere condivisibile, infatti, la dichiarazione di Francantonio Genovese sulla vicenda Cuffaro: subordinare le scelte politiche da assumere in Sicilia alla decisione dei giudici, anche se con i tratti “garantisti” usati dal segretario regionale del PD, non è meno sbagliato e grave di chi chiede una esemplare sentenza politica. Né è meno scorretta della furbesca e ricattatoria affermazione di Cuffaro che annuncia le sue dimissioni in caso di una eventuale sentenza di condanna, ancorché di primo grado, per caricare i magistrati della responsabilità di decapitare la Sicilia della sua massima istituzione.
Nell’un caso e nell’altro, così come nella “...istituzionalmente esemplare”(sic!) dichiarazione di Cuffaro, si finisce con lo scaricare sui giudici una pressione e una responsabilità impropria che, infatti, ha già creato nella Procura di Palermo tensioni inammissibili per il prestigio e l’autorevolezza della stessa magistratura.
Al magistrato compete il compito di privare o meno della libertà un cittadino sulla base di responsabilità individuali ben definite, accertate sulla base di precise ipotesi di reato e per un tempo commisurato e definito per legge. Che centra questo compito, già di per sé gravoso, con la politica?
C’è invece una competenza della politica da cui i parlamentari regionali del centrosinistra (tranne qualche lodevole eccezione) sembrano defilarsi: stabilire se i comportamenti di Cuffaro, accertati in più sedi processuali, al di là della loro eventuale rilevanza penale (che, ripeto, è di esclusiva competenza giudiziaria), siano o no rilevanti “politicamente”.
C’è da stabilire se alla guida della Regione, nella carica di Presidente (che tra l’altro, va ricordato, è statutariamente responsabile dell’ordine pubblico nell’Isola) può restare una persona responsabile di quei comportamenti e di quel groviglio di relazioni che sono emersi nel corso delle indagini.
A mio avviso le dimissioni Cuffaro le avrebbe dovute dare da tempo. La valutazione è esclusivamente politica e altrettanto politica è la valutazione sul peso che l’intera vicenda può avere o ha avuto sull’attività politica dell’Assemblea e su quella amministrativa della Regione.
Su questo punto, invece,c’è stato solo un balbettio del genere “l’avevamo detto che era meglio se Cuffaro non si candidava”. Bene, ma visto che Cuffaro si è candidato, che è stato votato e che è ancora lì, cosa propone di fare ora il centrosinistra riformista e democratico?
Per anni, la vita politica siciliana è stata condizionata dalla intangibilità dell’Assemblea regionale e dei governi lì votati. Per anni abbiamo assistito a manifestazioni di protesta che si concludevano con la richiesta dello scioglimento di una Assemblea che invece, per Statuto, non poteva essere sciolta! Oggi, che ciò è finalmente possibile a norma dello Statuto riformato, uno straordinario silenzio grava, invece, su un’Assemblea paralizzata proprio nella sua maggioranza dagli effetti delle vicende giudiziarie. Nessuno però, di fronte alla imperturbabile resistenza di Cuffaro alla Presidenza, evoca l’atto di scioglimento che manderebbe a casa il governo regionale e restituirebbe agli elettori il diritto di esprimere la propria valutazione politica. Così continua un insostenibile minuetto che finisce addirittura coll’apprezzamento della “sensibilità istituzionale” del Presidente Cuffaro: ...roba da matti!
Eppure la richiesta di sciogliere l’Assemblea paralizzata e mandare a casa il Governo è già stata da noi formulata a inizio di anno, in un documento pubblico e reiterata in un intervento al congresso dei DS, sortendone per risposta il silenzio più assoluto.
Non è stato possibile neanche fare delle primarie per il PD una occasione di autentico confronto politico su questo e su altri temi che riguardano la Sicilia.
Oggi, che il travaglio è finito e il nuovo partito nasce, va chiesto con forza agli organismi del PD appena eletti di chiarire il sistema di rapporti politici e istituzionali di cui intendono farsi portatori in Italia e in Sicilia: se, cioè, la separazione dei poteri sia o meno un elemento fondante di questi rapporti e, soprattutto, se nella traduzione siciliana c’è la consapevolezza di quanto questa divisione sia indispensabile alla lotta alla mafia e al malgoverno. Si deve poter aprire un confronto ampio e libero che consenta di assumere posizioni politiche di merito, comprensibili tra i 180 mila elettori siciliani delle primarie, e condivisibili dalla maggioranza del partito piuttosto che da ristretti gruppi che tendono a subordinare a troppo prudenti logiche elettoralistiche problemi di così enorme rilevanza coll’unico risultato di lasciare a Cuffaro il potere di disporre della Sicilia come e quando gli pare, di definire i tempi della politica, di sottoporre la magistratura a pressioni e condizionamenti senza precedenti. Questa situazione blocca la Regione, paralizza la maggioranza di centrodestra e, dietro di essa, tutto il parlamento regionale.

Avviare lo scioglimento dell’Assemblea Regionale Siciliana per cacciare il governo Cuffaro è una decisione non più eludibile per rispondere ai tanti segni di novità e resistenza civile che maturano nella società siciliana.

Roberto Tagliavia
Coord. Reg. Associazione LibertàEguale

20 ottobre. Bandiere rosse e unità a sinistra: un milione in piazza per i diritti

Esultano gli organizzatori della manifestazione contro il welfare e il precariato. Giordano: "Prodi ascolti questo popolo". Ingrao dà la linea: "Non siamo qui contro il governo". Immigrati, precari, donne, studenti, il film del corteo. Ferrero: "Giornata splendida, il premier più forte". Diliberto: "Non è più rinviabile il partito unico a sinistra". Vendola: "Io leader? L'ultima delle questioni"

di CLAUDIA FUSANI

ROMA - Rossa, come le migliaia di bandiere che già alle due del pomeriggio colorano piazza Esedra. Unita, perchè è "l'unità della sinistra" la richiesta assordante che sale dalla piazza. Sarcastica, come il distinto signore in giacca e papillon, secchio e spazzolone in mano e il cartello: "Lavavetri, modello Pitti Uomo"; o come l'altro con un collage di titoli di giornali arrangiato in testa a mo' di cappello che spiega: "20 ottobre/avanti popolo/via la legge 30/via la precarietà". Soprattutto non violenta, non destabilizzante: non sarà questo corteo a dare la spallata al governo Prodi. Anzi, come poi diranno tutti i leader, da Giordano a Diliberto, da Ingrao al ministro Ferrero, "il governo Prodi esce rafforzato dopo questa splendida giornata purchè sappia ascoltare questo popolo". "Siamo un milione" - A sera, sul palco di piazza San Giovanni attraversato dal primo freddo gelido di questo autunno politicamente bollente, gli organizzatori assicurano: "Siamo un milione". Difficile dirlo, impossibile contarli, certo la piazza è piena, il corteo si è dovuto muovere da piazza Esedra alle due e mezzo, quasi un'ora prima del previsto perchè gente, bandiere e carri allegorici non ci stavano più e quando la testa del serpentone arriva in San Giovanni intorno alle diciotto, la coda è ancora sparsa tra piazza S.Maria Maggiore e via Merulana. Gli organizzatori, i tre giornali Liberazione, Manifesto e Carta, Rifondazione e Comunisti, alla vigilia puntavano timidamente a 150 mila persone. Alle tre del pomeriggio dicono "siamo 300 mila". Alle cinque, "500 mila" che poi diventano 700 mila e poi arrivano al milione.
Il compagno Ingrao: "Serve un cambiamento" - Una giornata come questa non ha bisogno di eroi. Simboli sì, meglio ancora se si tratta di un mito vivente. Ed ecco che verso le tre, basco scozzese in testa, la mano destra appoggiata al bastone, il grande vecchio del comunismo Pietro Ingrao, 92 anni, raggiunge a piedi, accompagnato dalla sorella Giulia, la testa del corteo che lo aspetta con lo striscione: "Siamo tutti un programma, contro ogni precarietà"."Vogliamo la luna?" chiede Ingrao. "E perchè no? Vogliamo proprio la luna". Arriva dal grande vecchio comunista la rassicurazione che conta, quella che dà la linea della giorrnata: "Non credo che il corteo di oggi sia contro Prodi e nemmeno contro Veltroni. Però i due sono dei moderati, mentre oggi la massa di popolo vuole un cambiamento profondo e di sostanza. Quanto più si rafforzerà questo movimento tanto più Prodi potrà fare qualcosa di buono". E' la linea. Sono le parole che marcano la differenza tra una giornata che poteva essere un boomerang per la maggioranza e che invece sarà "un abbraccio" e una richiesta al governo a fare di più e meglio. A questo punto sorridono tutti, Franco Giordano, Gennaro Migliore, Giovanni Russo Spena, Oliviero Diliberto, i direttori dei giornali Piero Sansonetti e Gabriele Polo, Giorgio Cremaschi e Gianni Rinaldini, i leader della Fiom, l'unico sindacato che ha aderito alla piattaforma della manifestazione contro il precariato e per i diritti civili e sociali. Le facce tese della vigilia se ne vanno in sorrisi e dichiarazioni rassicuranti: "Prodi ascolti questo popolo" dice il segretario di Rifondazione Franco Giordano. "L'ho sempre ascoltato" gli risponderà in serata il premier. "Sono comunista, ma mica scemo: non faccio una manifestazione contro me stesso. Questa giornata è stimolo e incoraggiamento per il governo perchè migliori le cose" chiarisce una volta per tutte Diliberto dichiarando "sconfitti gli uccelli del malaugurio della vigilia".
Le signore del corteo - Il corteo scivola via festoso. Quello che più conta, senza offese né ultimatum al governo. Compare la signora Lella, coniugata Bertinotti, bionda e collana rossa come le bandiere. "Sono qui - precisa - a rappresentare unicamente me stessa, ho salutato centinaia di compagni e sono molto soddisfatta". Forse di tanto in tanto telefona al marito, il presidente della Camera Fausto Bertinotti che tanto ha tifato per questa manifestazione e che a metà pomeriggio può dichiarare la propria "enorme soddisfazione". Qualche cartello mette scherzosamente in vendita la Cgil il cui leader Epifani aveva invitato gli iscritti a non partecuipare al corteo, meno che mai con le bandiere. Le bandiere della Cgil c'erano, ovviamente. E anche tante. Come quelle arcobaleno, quella della pace che da tanto non si vedevano più in giro. C'è posto per tutti, in questo corteo, per tutti quelli che rivendicano il diritto a un posto in questa società: studenti, precari, immigrati, gay e lesbiche. Le femministe, animate dall'onorevole Elettra Deiana (Rc) animano lo spezzone giallo e autonomo del corteo con la scritta: "Reddito-diritti-libertà delle donne". Ce l'hanno con questa politica un po' troppo "in mano ai maschi". E quasi quasi, per qualche metro, scippano la testa del corteo al comitato organizzatore, rigorosamente maschile.. Quelli che non hanno aderito, tra gioia e rimpianti - Trovano posto anche quelli di sinistra che avevano detto che non ci sarebbero stati e invece ci sono. Mussi, leader di Sinistra democratica, era molto scettico e non aveva aderito: nel corteo si vedono però i suoi deputati Cesare Salvi, Titti Di Salvo, Alba Basso, Silvana Pisa, Giorgio Mele, Piero Di Siena, Paolo Brutti. Il ministro e leader verde Pecoraro Scanio è lontano, ma il suo capogruppo alla Camera Angelo Bonelli è qui a raccogliere firme contro gli Ogm: "Condividiamo la lotta alla precarietà ma non aderiamo". Aderisce "da casa" il sottosegretario all'economia il verde Paolo Cento che ha ubbidito al diktat niente ministri e membri del governo in piazza. Qualcuno, invece, ha disubbidito, come i sottosegretari Alfonso Gianni (Rc) e Danielle Mazzonis. "Verdi e Sd hanno sbagliato" puntulizza Diliberto. Entro Natale la costituente della sinistra - Sono le sette di sera quando tutto il corteo raggiunge piazza San Giovanni già stracolma. Sul palco salgono gli invisibili con le loro storie di precarietà e incertezza. Dalla piazza sale una richiesta netta: unità a sinistra. Così che Giordano può dire: "Entro Natale ci sarà la Costituente di sinistra". Lo seguono Diliberto, Mussi, i Verdi, Paolo Cento. La necessità di un soggetto unitario a sinistra del neonato Partito democratico è evidente a tutti. E va fatto adesso perchè ora c'è la spinta a farlo. Nichi e Franco, duello sordo tra leader - L'entusiamo della piazza mette da parte anche un altro possibile elemento di tensione: la presenza nel corteo di Giordano e di Nichi Vendola, il governatore della Puglia indicato da Bertinotti come possibile Veltroni della Cosa Rossa. "Vendola è persona coerente e farà il presidente della Regione" assicura Giordano. "Io leader? Mi pare l'ultima delle questioni" minimizza il governatore che però rilancia: "La Cosa Rossa non può più attendere".


(La Repubblica, 20 ottobre 2007)

sabato 20 ottobre 2007

Il grande poeta russo ha ricevuto a Vercelli il Premio alla Carriera




















Evghenj Alexandrovich Evtushenko è oggi, quel che si dice, un bel signore di 74 anni, con una voce possente ed uno sguardo penetrante.
Nato nel 1933 a Zimà, nella Siberia orientale dove, alla fine dell’800, i suoi nonni erano stati esiliati per tumulti contadini, oggi vive fra la sua Mosca e l’Università americana di Oklaoma dove insegna letteratura russa.
Voce solitaria contro lo stalinismo, la sua produzione poetica inizia nel 1952 e da allora i suoi versi sono stati tradotti in 72 lingue rendendolo famoso in tutto il mondo.
Nelle librerie italiane si possono acquistare i suoi libri: Poesie d’amore, La stazione di Zimà, Terza neve, Autobiografia ed ora, appena pubblicato da Interlinea, “Romanzo con la vita e altre poesie”. Il 4 ottobre scorso, a Vercelli, al Festival della Poesia Civile, gli è stato consegnato il premio alla carriera.
Il prestigioso riconoscimento è dedicato appunto ad una lunga e prestigiosa carriera in quanto Evtushenko è oggi fra i poeti russi contemporanei il più famoso nel mondo.
Con la sua poesia e la sua prorompente personalità, egli ha attraversato 50 anni di storia russa dal dopoguerra ad oggi, anni difficili e tormentati, che egli, anche esprimendo a voce alta il suo dissenso quando necessario, ha saputo vivere con intelligenza e lucidità guadagnandosi plauso e stima in tutto il mondo.
Proprio per il suo impegno e la sua coraggiosa presenza, il Festival della Poesia Civile ha costituito un’ottima occasione per consegnargli l’ambito riconoscimento.
Oltre che poeta, Evtushenko è anche attore, fotografo e regista e la sua voce ancor oggi affascina le platee.
Amatissimo dai giovani in tutta la Russia, le sue letture pubbliche di versi vedono sempre il tutto esaurito ed il pubblico, fra cui molti giovanissimi, gli chiedono il bis come si fa con i divi più noti.
Ha già in agenda per il 12 dicembre prossimo allo Stadio Olimpico di Mosca una lettura di poesie di fronte a 20.000 spettatori.Un così alto numero di biglietti già venduti incoraggia quanti credono non solo nel futuro della poesia ma anche nella sensibilità artistica e nella cultura del popolo russo.
Il III Festival della Poesia Civile di Vercelli, la più importante manifestazione nazionale del settore, che fra le numerose collaborazioni vede anche l’Associazione antimafia “ Libera”, lo ha festeggiato nella serata inaugurale del 4 ottobre, con un caloroso abbraccio mentre lui timidamente ricambiava commosso regalando alla città i suoi versi più famosi.
Come a Mosca, anche a Vercelli, il pubblico in piedi gli ha chiesto più volte di recitare ancora e lui ha ricambiato generoso e visibilmente emozionato.
Il suo “ Romanzo con la vita”, pubblicato per l’occasione dalla casa editrice Interlinea con delle poesie inedite da lui stesso selezionate per il pubblico italiano, è andato a ruba e lui con pazienza affettuosa ha firmato centinaia di dediche.
A presentarlo in un’indimenticabile serata italiana, oltre a Giovanna Ioli dell’Università di Torino, il famoso italianista Evghenj Solonovich e Giovanni Perrino che assieme a lui ha letto in italiano i suoi versi.
20 ottobre 2007

NELLA FOTO: a destra, il grande poeta russo Evghenj Alexandrovich Evtushenko mentre recita a Vercelli alcuni testi poetici con Giovanni Perrino.

Fontana di Trevi e il cinema: "tuffi" celebri, da Anitona a Totò

Il monumento, vittima di un atto vandalico, è apparso in decine di film. Fu consacrato nel 1960 grazie alla Ekberg in "La dolce vita" di Fellini
di ALESSANDRA VITALI

"MARCELLO, come here! Hurry up!". Era il 1960, il miagolìo di Anita Ekberg veniva consegnato alla storia del cinema. E la Fontana di Trevi si stampava nell'immaginario collettivo, consacrata da Fellini come uno dei luoghi-simbolo della Dolce Vita, di una Roma annoiata e dissoluta che cedeva alle lusinghe del Boom. Nessuno avrebbe potuto immaginare di vederla, cinquant'anni dopo, colorata di rosso-pomodoro, vittima di una protesta contro il precariato e la Festa del Cinema. Stretta in una piazza troppo piccola per lei, adagiata su un lato del Palazzo Poli, una storia lunga che comincia con Papa Urbano VIII Barberini intorno al 1620 e si corona alla fine del Settecento, quando diventa una delle scenografie più suggestive che celebrano la Roma papalina, col passare dei secoli la Fontana diventa set ideale. Di sequenze, in certi casi, memorabili. GUARDA LE FOTO "My Goddess!", esclama l'attrice, nei panni di Sylvia, quando alla fine di un vicolo le appare il monumento. Quando Fellini girò la scena era marzo. A marzo, a Roma, fa freddo. L'unica a proprio agio, neanche a dirlo, era la svedese Anitona, così come i romani avevano ribattezzato la Ekberg per stazza e forme prorompenti. L'attrice riuscì a resistere per tutto il tempo necessario nell'acqua gelida, mentre a Mastroianni fu fatta indossare, sotto l'abito di scena, una leggera muta da sub. Dopodiché poté dire: "Sì, Sylvia, vengo anch'io. Vengo anch'io...". Ci pensa Ettore Scola, quattordici anni dopo, a rendere omaggio alla "scena del bagno nella Fontana" e più in generale al grande cinema italiano. E' il 1974, il film è C'eravamo tanto amati. Nino Manfredi infermiere arriva in ambulanza nella piazza, per rispondere a una chiamata. C'è un set aperto lungo i bordi della Fontana, quello di La dolce vita. Fellini, con accanto Mastroianni, entrambi in un bellissimo cameo, sta provando la sequenza. "E quella bionda mezza ignuda nella fontana, chi è?", chiede Manfredi; "E' 'a controfigura della Eccebberg", risponde un attrezzista. C'è Stefania Sandrelli, la Luciana amata per trent'anni da lui, Stefano Satta Flores e Vittorio Gassman, che nella finzione ottiene una particina nel film. Una voce grida "pausa, pausa per tutti", Scola inquadra dall'alto la Fontana, si spengono i riflettori. Un salto indietro nel tempo ci riporta all'inizio degli anni Sessanta. Quando, in TotòTruffa 62, l'imbroglione Totò si spaccia per il Cavalier Ufficiale Antonio Trevi e riesce a vendere "la famosa Fontana - dice - che appartiene alla mia famiglia da molte generazioni". Vittima della truffa, lo sprovveduto Decio Cavallo, "italiano oriundo" tornato dall'America in cerca di "businìss", raggirato con le infinite possibilità di guadagno garantite dal monumento: "I soldi nella Fontana ce li buttano tutti - spiega Totò - poi, ogni tanto, l'affitto alle case cinematografiche, ci girano le pellicole, qua". Sui 10 milioni richiesti, Totò alla fine, grazie al compare Nino Taranto ("il ragionier Girolamo Scamorza") intasca la caparra di 500 mila lire. E addio al povero Decio Cavallo. E ancora. Fontana di Trevi si intitola una commedia italiana del 1960, genere "musicarello", con Claudio Villa, vicenda leggera di due ragazzi che lavorano in un'agenzia turistica proprio di fronte alla Fontana e "rimorchiano" due belle spagnole. A qualche anno prima, il 1954, risale invece Tre soldi nella fontana, classicone della commedia americana con Dorothy McGuire e Clifton Webb, ma anche con Rossano Brazzi, in cui tre ragazze americane che lavorano in Italia gettano le monetine nella vasca sperando di incontrare l'uomo della vita. La canzone, Three Coins in the Fountain, vinse uno dei due Oscar (l'altro alla Fotografia) che il film si aggiudicò. Dal cinema al Web, Fontana di Trevi c'è passata di recente, lo scorso aprile. Quando una turista milanese di quarant'anni, tale Roberta, ha pensato bene di gettarsi nuda nella vasca. Qualche minuto di celebrità, il video che finisce online. E lei che, candida, spiega ai carabinieri furibondi: "Avevo caldo, l'acqua è di tutti".

(La Repubblica, 19 ottobre 2007)

lunedì 15 ottobre 2007

PALERMO HA RICORDATO GIOVANNI ORCEL

Quella targa in Corso Vittorio Emanuele, dove essa fa angolo con via Collegio del Giusino, la si aspettava da più di 80 anni. Da ieri finalmente c’è e “costringerà” tanti palermitani a chiedersi: «ma chi era questo Orcel?». In parte, il testo lo spiega. Giovanni Orcel era un dirigente sindacale della Fiom-Cgil, il “mitico” sindacato dei metalmeccanici. Aveva provato a costruire l’unità tra gli operai e i contadini e fu colpito a morte da un sicario della mafia, la sera del 14 ottobre 1920, proprio in quel posto, a due passi da quello che era stato uno splendido convento dei Padri Gesuiti e che oggi è la sede della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana. A volere la targa sono stati la Cgil Sicilia, la Camera del lavoro di Palermo, da tempo intestata ad Orcel, ed il Centro “Impastato”, che l’ha ripetutamente sollecitata. A scoprirla, alla presenza del presidente della Commissione antimafia, Francesco Forgione, e del suo vice, Giuseppe Lumia («Orcel è uno dei figli migliori della Sicilia degli onesti», hanno detto i due esponenti dell’antimafia), sono stati proprio Italo Tripi, segretario della Cgil Sicilia, e Umberto Santino, presidente del Centro “Impastato”.
Non a caso, proprio Santino, ha detto che quella di ieri è stata «una bella giornata». Infatti, non solo era stata collocata la targa, ma ha visto la luce una biografia del sindacalista assassinato («Giovanni Orcel. Vita e morte per mafia di un sindacalista siciliano. 1887-1920»), scritta da Giovanni Abbagnato, che è stata presentata nei locali della Biblioteca, da Tripi, da Santino, da Maurizio Calà, segretario della Camera del lavoro di Palermo, e da Gianni Rinaldini, segretario generale nazionale della Fiom-Cgil. A fare gli onori di casa ci ha pensato il dott. Gaetano Gullo, direttore della Biblioteca, che ha voluto arricchire la manifestazione con una mostra documentaria su Giovanni Orcel, che resterà esposta al pubblico nell’atrio dell’ex convento gesuitico fino al 20 ottobre, e con una splendida brochure, dove sono riprodotti alcuni documenti d’archivio sul «socialista rivoluzionario Orcel Giovanni, di Luigi e di Marsicano Concetta, nato a Palermo il 27 dicembre 1887».
Ma perché Orcel è stato dimenticato? Perché i martiri successivi hanno messo in secondo piano quelli precedenti? Oppure perché il movimento operaio e contadino del secondo dopoguerra, a forte egemonia comunista, ha voluto lasciare in ombra il “biennio rosso” (1919-1920) ad egemonia socialista? O, ancora, perché il profilo “rivoluzionario” di Orcel mal si adattava alla “via italiana al socialismo”? Forse per tutti questi motivi messi insieme. E magari anche perché, lungamente, la sinistra politica e sindacale siciliana ha avuto posizioni subalterne rispetto alla sinistra politica e sindacale nazionale.
Ma questo è un dibattito ormai consegnato agli storici. «Per l’oggi – ha detto Umberto Santino – è necessario dar vita ad un progetto-memoria che abbia caratteristiche strategiche, nel cui ambito recuperare l’importante storia di lotta per il riscatto, per il lavoro e contro la mafia». Una proposta avanzata alla Cgil e subito accolta da Italo Tripi, Maurizio Calà e Gianni Rinaldini. In concreto, si cercherà di mettere in piedi un laboratorio museale sulla mafia e la l’antimafia, che raccolga testi, documenti, giornali, materiale multimediale, ed abbia anche un luogo fisico che lo ospiti.
Maurizio Calà ha voluto sottolineare come ancora oggi, pur nelle mutate condizioni storico-politiche, il sindacato si trova ancora in prima linea nella lotta per i diritti e contro la prepotenza mafiosa, come dimostrano recenti episodi di intimazioni contro alcuni suoi dirigenti. Italo Tripi ha sottolineato, invece, la necessità di investire sulla memoria per avere una stella polare, che guidi il movimento nelle lotte di oggi. «Oggi – detto Rinaldini, concludendo – onorando la memoria di Giovanni Orcel, abbiamo il dovere di inventare nuove strategie di lotta e un nuovo modo di collocare il sindacato nella società. La nascita del partito democratico, a prescindere dai giudizi che si possono esprimere, rivoluzionerà la politica italiana. E il sindacato si troverà in una posizione del tutto inedita, nell’ambito della quale non potrà che accrescere la sua autonomia dalla politica».
Dino Paternostro
16 ottobre 2007

FOTO. Dall'alto: il momento della scopertura della targa; Lumia e Forgione sotto la targa.

Mafia, chiesta condanna a 8 anni per Cuffaro. Il politico imputato: "Sono amareggiato, mai favorite le cosche"

La richiesta avanzata dal procuratore nei confronti del governatore della Sicilia. Gli avvocati chiedono il trasferimento del processo "per grave situazione ambientale". Berlusconi: "Sono solidale con lui"

PALERMO - Otto anni di reclusione: questa la richiesta avanzata dal procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone, al termine della requisitoria nel processo alle cosiddette "talpe della Dda", nei confronti del presidente della Regione Sicilia, Salvatore Cuffaro, imputato di favoreggiamento a Cosa nostra e rivelazione di notizie riservate. I pm hanno poi chiesto la condanna a 18 anni per il manager della sanità privata Michele Aiello, che deve rispondere di associazione mafiosa; nove anni per il maresciallo del Ros Giorgio Riolo, accusato di concorso in associazione mafiosa; cinque anni per il radiologo Aldo Carcione, imputato di concorso in rivelazioni di segreto d'ufficio. Pene pecuniarie sono state invocate per le società Atm (1 milione e 549 mila euro) e per la Diagnostica per immagini (un milione di euro). Cuffaro si dichiara amareggiato: "Ho appreso delle richieste formulate dai pubblici ministeri con amarezza, sentimento accresciuto dall'intima consapevolezza che mai mi ha abbandonato in questi anni, di non avere mai posto in essere condotte tese a favorire la mafia". Al fianco del Governatore si schiera Silvio Berlusconi che conferma "la solidarietà" a Cuffaro. "La stima che nutro nella sua intelligenza mi fa escludere in maniera assoluta che egli possa essere coinvolto in quelle vicende in cui si pretende di coinvolgerlo" dichiara il presidente di Forza Italia. "Questo è stato definito il processo alle 'talpe' - ha detto il procuratore Pignatone, alla fine della requisitoria, prima di formulare le richieste di pena - ma questa definizione è riduttiva. Questo processo ha svelato alcuni aspetti strategici e vitali per Cosa nostra, facendo emergere il coacervo di interessi illeciti che hanno accomunato mafiosi, imprenditori, professionisti ed esponenti delle istituzioni, compresi rappresentanti politici. Mai, come in questo processo è stato ricostruito, in un'aula giudiziaria, il fenomeno delle fughe di notizie, rivelando un panorama desolante di sistematico tradimento anche da parte di esponenti degli apparati investigativi".
In riferimento alla fuga di notizie, attribuita al governatore della Sicilia, sull'esistenza di intercettazioni a casa del boss Guttadauro, che nel 2001 portò alla rimozione della microspia e alla neutralizzazone dell'indagine, Pignatone ha sottolineato la "gravità della condotta di Cuffaro, che in quei giorni veniva eletto presidente della Regione siciliana". L'ultima considerazione, Pignatone l'ha dedicata al "comportamento processuale degli imputati" perché "non è stato possibile ricostruire l'intera catena delle rivelazioni delle notizie riservate, e dunque accertare se vi era una fonte interna alla Procura, e chi era quella persona in diretto collegamento con Roma, con cui Cuffaro commentava l'esito delle indagini". "A questo punto ci aspettavamo una richiesta pesante, peraltro anticipata anche in questi giorni da qualcuno. Certo, non ci attendavamo il massimo previsto dalla legge. Comunque da noi, anche la richiesta di un solo giorno di carcere, sarebbe stata ritenuta eccessiva". Questo il commento dei legali di Cuffaro, Nino Caleca e Nino Mormino, che proprio questa mattina hanno depositato, nella terza sezione del Tribunale di Palermo, l'istanza in cui chiedono la "remissione" del processo in altra sede giudiziaria per "la grave situazione ambientale". A decidere sarà la Cassazione.
(La Repubblica, 15 ottobre 2007)

Veltroni: "Da oggi tutto è più vecchio. Sul governo spinta riformista". "L'Italia guarda avanti molto più della stessa classe politica"

Roma, parla il segretario del Partito democratico: "Primarie, fatto storico". "Il Paese chiede innovazione e coesione". "Resto sindaco di Roma"

ROMA - Si apre una nuova storia. Che parlerà un nuovo linguaggio, seguirà nuove regole, scardinando, se necessario, certi schemi "politicamente corretti" del secolo scorso. Per questo non ci si dovrà stupire se arriveranno "risposte eterodosse". Walter Veltroni si presenta così nella sua prima conferenza stampa da segretario del Partito democratico. Rilanciando il successo delle primarie, marcando con forza il profilo riformatore del Pd e mandando un messaggio al governo: sostegno ma anche spinta riformatrice. Parla di innovazione Veltroni, che chiede un passaggio parlamentare per dare al paese istituzioni nuove. "Il paese guarda avanti molto più della classe politica". Cruciale, per il segretario, il pacchetto di riforme costituzionali che approderanno nell'aula della Camera il prossimo 22 ottobre: "Se c'è convergenza tra le diverse parti si possono fare in otto mesi" Le linee guida del pd. "Si apre una nuova stagione politica: il Pd fa invecchiare molte delle consuetudini della politica italiana" dice Veltroni. Che sintetizza la linee guida del nuovo partito: innovazione ("perché il paese ha voglia di guardare al futuro") e coesione ("nel senso di essere coesi nell'affermare un programma di idee e non contro qualcuno"). Rapporti con il governo. Da una parte lealtà e sostegno. Dall'altra un'azione di sollecitazione. Con l'obiettivo di arrivare alla fine della legislatura. Veltroni sintetizza così il nodo tra il Pd e il governo Prodi. Tema delicato. Che mette in discussione l'esistenza stessa dell'esecutivo. Veltroni, oggi, parla di "sollecitazione riformista" nei confronti del governo. "Noi - spiega il neosegretario - sentiamo il bisogno di prepararci per le prossime scadenze elettorali con un profilo del Pd che possa da un lato aiutare il governo e dall'altro esserne aiutato. Si svolgerà una funzione di sollecitazione in questo senso ma con grandissima realtà e con l'obiettivo di arrivare alla fine della legislatura".
Il programma. Il Pd "punta ad essere il primo partito italiano e proseguire con il coltivare la sua vocazione maggioritaria" e continuerà a muoversi parallelamente su un doppio binario. Continuando presentarsi come partito che ha un programma mentre, contemporaneamente, sostiene il governo. "Questa - sottolinea il sindaco di Roma - è la dialettica fisiologica". Primarie, un fatto storico. "E' un dato unico nella storia politica europea". Veltroni commenta così, nel corso della conferenza stampa, l'esito della primarie. "più di tre milioni di italiani hanno votato non contro qualcuno ma per qualcosa. "Questo è un voto ad altissima intensità e che apre una nuova stagione politica" continua il segretario. Per lui, quello delle primarie, non è solo "un voto contro l'antipolitica", ma una richiesta di "discontinuità". A cui bisogna dare risposta. Dialogo con l'area socialista. Il Pd dovrà "aprire un dialogo e un confronto" con "tutta l'area socialista e le altre forze che oggi fanno parte della coalizione" e dovrà "discutere e seguire con attenzione l'evoluzione della politica e dei programmi della sinistra radicale". Così Veltroni fotografa i rapporti a sinistra del Pd. Nessun cenno, per adesso, alla sinistra estrema. "Il centrodestra sega il nostro esempio". "Mi auguro che un evoluzione analoga alla nostra venga fatta anche nel centro destra". Secondo Veltroni, che cita "gli imbarazzi" nella Cdl sul caso Storace e sull'identità nazionale, si deve quindi aprire "una nuova stagione" per superare le divisioni "Berlusconi-sinistra" e "affrontare i veri problemi del paese". "Resto sindaco". "Un incarico politico non è in contrasto con un incarico amministrativo". Veltroni conferma la sua volontà di rimanere sindaco di Roma. "Continuerò a fare come ho fatto in questi mesi frenetici di campagna elettorale - prosegue - ho preso un impegno con i cittadini ed intendo rispettarlo".

(La Repubblica, 15 ottobre 2007)

mercoledì 10 ottobre 2007

Corleone, il 29 ottobre sarà inaugurata la nuova ala del Presidio Ospedaliero "Dei Bianchi"

L'annuncio è stato dato dal direttore generale dell'Ausl 6, Salvatore Iacolino, durante l'incontro con la Cgil e gli operatori sanitari dell'ospedale e del distretto. "Una buona notizia - dicono Mario Scialabba e Leo Cuppuleri della Fp-Cgil - ma vigileremo affinche gli impegni vengano rispettati"

CORLEONE – La nuova ala dell’ospedale di Corleone (moderna, arredata di tutto punto e dotata di moderni mezzi tecnologici) sarà inaugurata il prossimo 29 ottobre. Entrerà in funzione la nuova sala operatoria e quella vecchia (messa a norma) a breve potrà nuovamente funzionare. Già sono cominciati ad arrivare nuovi infermieri ed è in corso l’asta pubblica per il reclutamento di operatori socio-sanitari (OSS). E, per il Distretto, presto arriverà un moderno ecografo e sarà avviata una seria riflessione su come dotarlo di locali in proprietà. Non si tratta di un miracolo, ma del risultato di un serrato confronto tra la Cgil e la direzione generale dell’Ausl 6, che ha consentito di superare contraddizioni ed incertezze, mettendo a punto una precisa strategia per il rilancio dell’ospedale di Corleone. L’atto finale di questo confronto si è svolto ieri mattina, nella sede della direzione amministrativa del P.O. di Corleone, nel corso dell’incontro chiesto dalla Cgil e convocato dal direttore generale, dott. Salvatore Iacolino. Un incontro importante, convocato a Corleone per discutere esclusivamente dei problemi sanitari di Corleone, al quale Iacolino ha voluto che partecipassero anche le altre sigle sindacali e diversi dirigenti dell’Ausl (il direttore sanitario dott. Giovanni Peritore, il dott. Gaetano La Corte, il dott. Antonino Lucca, il dott. Calogero Riggio, il direttore del P.O. dott. Michele Lumetta e il direttore del Distretto dott. Nino Colletti). E alcuni risultati si sono visti. A cominciare dalla data di inaugurazione e di messa in funzione della nuova ala dell’ospedale, in costruzione da vent’anni. «Il prossimo 29 ottobre – ha detto Iacolino – consegneremo alla comunità di Corleone questa nuova struttura sanitaria, per il cui completamento l’Azienda ha investito notevoli risorse finanziarie. Non è una cosa da poco, se si pensa che, di questi tempi, più che aprirle le strutture sanitarie si chiudono». «Siamo soddisfatti – dicono Mario Scialabba e Leo Cuppuleri della Fp-Cgil – dei risultati che la nostra azione sindacale è riuscita ad ottenere e vigileremo affinché gli impegni assunti siano mantenuti. In questo momento, l’unico punto critico resta l’incertezza sui tempi di reperimento degli OSS. I nostri operatori sanitari non possono aspettare il 2008, alcune unità bisogna reperirle subito». «L’apposita gara per reperire gli OSS sarà espletata nel più breve tempo possibile. Nel frattempo, verificheremo con la ditta delle pulizie la possibilità di un estensione del servizio per i prossimi due mesi, compatibilmente con le nostre risorse finanziarie», replica Iacolino.
Nel corso dell’incontro, il sindacato ha messo sul tappeto anche la necessità di un confronto urgente per definire l’attribuzione del coordinamento ad alcune figure professionali e per ridiscutere l’articolazione dell’orario di lavoro per il personale. E la direzione generale ha assunto l’impegno di convocare un altro incontro a Palermo intorno al 23 ottobre.
Prima dell’incontro sindacale, il dott. Salvatore Iacolino ha incontrato in municipio il sindaco Nino Iannazzo e il presidente del consiglio comunale Mario Lanza. Poi ha fatto anche un sopralluogo nei locali della nuova ala dell’ospedale. E, prima di andare via, ha avanzato una proposta ai suoi interlocutori: «Incontriamoci ancora per dare all’Azienda spunti per il programma attuativo locale 2008».
11 ottobre 2007
FOTO. Dall'alto: il dott. Iacolino durante l'incontro di ieri; gli operatori sanitari.