domenica 30 ottobre 2011
sabato 29 ottobre 2011
BORSELLINO, L’ULTIMA VERITA’
La strage di via D'Amelio |
"Quell'autobomba rubata a spinta", il racconto del pentito Spatuzza
"Io so di via D'Amelio perché l'auto imbottita di tritolo l'ho rubata io". Comincia così la narrazione con cui Gaspare Spatuzza riscrive la strage di Borsellino e della sua scorta e scagiona otto palermitani condannati all'ergastolo per quel reato. Una testimonianza ricca di dettagli, compresa la descrizione di un misterioso cinquantenne, "non di Cosa Nostra", che aspettava la Fiat 126 nel garage dove fu trasformata in autobomba: un uomo che potrebbe essere il collegamento con i servizi deviati.
Tutto cominciò con una soffiata. Ancora oggi non si sa esattamente da dove è venuta. Forse dal Sisde, il servizio segreto civile che l’ha trasmessa alla polizia di Palermo. O forse dalla polizia di Palermo, che l’ha trasmessa al Sisde. Era una soffiata fasulla. Sull’auto che aveva fatto saltare in aria Paolo Borsellino e sui mafiosi che l’avevano rubata. Dopo quasi vent’anni, è arrivato però Gaspare Spatuzza che ha riscritto la storia delle stragi siciliane. Lo racconta lui come hanno ammazzato, il 19 luglio del 1992, l’erede di Falcone. Cancellando con le sue confessioni indagini pilotate e processi passati al vaglio della Cassazione, indicando depistaggi e piste ingannevoli. Un romanzo nero riscontrato punto dopo punto negli ultimi due anni. In una drammatica narrazione Gaspare Spatuzza rivela come i boss – e probabilmente qualcun altro – prepararono ed eseguirono il massacro.
"Io so di via D’Amelio perché l’auto imbottita di tritolo l’ho rubata io…". Comincia così il primo interrogatorio – il 26 giugno del 2008 – dell’uomo d’onore di Brancaccio con il procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari. Repubblica è venuta in possesso delle 1138 pagine della richiesta di revisione con la quale la magistratura di Caltanissetta ha chiesto la "sospensione della pena" per otto imputati ingiustamente condannati all’ergastolo, otto palermitani trascinati nel gorgo delle investigazioni da falsi collaboratori di giustizia e da un’inchiesta poliziesca che oggi è sotto accusa. Se quasi vent’anni fa, poliziotti e pubblici ministeri si erano fidati (dopo quella soffiata "inquietante", come la definiscono i procuratori siciliani) del picciotto di borgata Vincenzo Scarantino che li ha portati verso il nulla, adesso Gaspare Spatuzza spiega come andarono veramente le cose. E parla soprattutto di sé. Di quando lui – e non Scarantino, il bugiardo - rubò quella Fiat 126 che poi servì per l’attentato. Di come la portò in giro per Palermo. Fra garage e magazzini, dalla foce del fiume Oreto fin sotto la casa della madre del magistrato.
Tutte le falsità del pentito Scarantino si erano concentrate proprio sul furto di quella 126. Ecco la nuova versione di Gaspare Spatuzza. Con un disegno di suo pugno del luogo dove rubò l’auto. Con tutte le foto del percorso dell’utilitaria attraverso Palermo: dal box dove fu custodita al box dove fu imbottita di esplosivo. Parla Gaspare Spatuzza: "Io fui incaricato di un furto di una Fiat 126 da Fifetto Cannella, per ordine del boss Giuseppe Graviano. In quel momento ho pensato subito al giudice Rocco Chinnici, anche lui saltò su una 126... ma non sapevo ancora a cosa mi stavo prestando... L’ho rubata io insieme a Vittorio Tutino, nella notte fra l’8 e il 9 luglio, dieci giorni prima della strage. Poi, l’ho tenuta in diversi magazzini".
Il pentito racconta come preparano la strage, giorno dopo giorno: "Cannella, mi disse che avrei dovuto rubare proprio una 126. Era prima di mezzanotte. L’abbiamo trovata in una stradina che collega via Oreto Nuova con via Fichi d’India… io rimango in macchina… vedendo che lui, il Tutino, aveva perso del tempo… cerco di andare a vedere cosa stava combinando… quindi scendo dalla macchina e gli dico: ‘Ma che fai?’… e lui mi dice: ‘Mi viene difficile a rompere il blocca sterzo’… rimango lì con lui che poi è riuscito a romperlo ma non ce la facciamo a metterla in moto perché aveva rotto tutti i fili, quindi decidiamo di portarla via a spinta".
L’auto che ucciderà il procuratore Borsellino, dieci notti prima era una carcassa che neanche partiva.
Ricorda ancora Spatuzza: "La macchina era sul rossiccio e tra l’amaranto e il sangue di bue… comunque era di un colore rosso spento… quindi attraversiamo verso Brancaccio e la portiamo in un magazzino di Fondo Schifano. Percorriamo via Fichi d’India, San Ciro, via San Gaetano fino al capannone dove io avevo già iniziato la ‘macinatura’ dell’esplosivo che era nascosto in alcuni fusti di metallo". Poi Spatuzza e Tutino avvertono Fifetto Cannella e Giuseppe Graviano: "Abbiamo la macchina". Poi ancora Spatuzza incontra da solo il suo boss,Giuseppe Graviano, quello che lui chiama "Madre Natura". Dice: "Mi fa un sacco di domande: mi chiede di questa 126… dove l’avevo rubata, se era intestata a persone di nostra conoscenza e gli ho detto di no, se qualcuno l’aveva già cercata e gli ho detto ancora di no. Gli ho spiegato che c’era la frizione bruciata, e per bruciare la frizione in quel genere… sicuramente la macchina era di una donna perché le donne portano i tacchi… quindi hanno il problema di staccare la frizione. E poi gli ho anche detto che ci ha… il problema della frenatura… che freni non ce ne ha… lui mi dice: ‘Puliscila tutta e di levare tutti i santini e anche l’immagine di Santa Rosalia’. Io quindi la pulisco tutta… levo tutti i segnali di riferimento che si poteva e ho bruciato i documenti, fogli, tutto quello che esisteva l’ho bruciato… anche un ombrello".
Dopo due giorni Gaspare Spatuzza sposta l’auto in un altro suo magazzino di corso dei Mille, dove poi porta un meccanico. "Sono andato a cercare a questo Maurizio Costa e gli ho detto che dovevamo fare un lavoretto nella 126, gli ho spiegato che si doveva fare la frenatura ma non gli ho detto altro. Gli ho fatto capire che l’auto era di un latitante e gli ho fatto capire anche che non doveva parlare. Quindi sono andato a comprare i ganasci, olio e altri pezzi. Ho speso quasi centomila lire". Spatuzza riceve da Vittorio Tutino due batterie e un antennino da collegare a un telecomando. E anche l’ordine di rubare due targhe di altre Fiat 126 per metterle sopra all’autobomba. Il boss Graviano gli raccomanda di rubare le targhe il sabato mattina, il 18 luglio. Così il furto, probabilmente, verrà denunciato solo il lunedì successivo. Dopo la strage.
E’ a quel punto che venerdì 17 luglio, verso le tre del pomeriggio, una Fiat 126 color amaranto scivola per le vie di Palermo carica di tritolo. Alla guida c’è Gaspare Spatuzza, accanto a lui Fifetto Cannella. Appena s’infila in corso dei Mille, Spatuzza incrocia con lo sguardo Nino Mangano, il capo del mandamento di Brancaccio che gli fa da battistrada su un’altra automobile. Spatuzza è sorpreso, poi capisce che è lì un po’ per controllarlo e un po’ per proteggerlo. Corso dei Mille, via Roccella, via Ventisette Maggio, piazza dell’Ucciardone dove c’è il vecchio carcere. Proprio, in quella piazza, c’è un posto di blocco della Guardia di Finanza. La staffetta Mangano avverte Spatuzza, che svolta all’improvviso verso il Borgo Vecchio. Si ferma a un chiosco, prende tempo. Quando Nino Mangano gli dice che la strada è libera, la Fiat 126 ritorna indietro, supera l’Ucciardone e punta verso la via Don Orione. Dopo poche decine di metri l’utilitaria sparisce dentro un garage di via Villasevaglios 17.
C’è uno scivolo di cemento, c’è un cancello di ferro e poi una saracinesca. Quando sale, Gaspare Spatuzza infila il muso della Fiat 126 lì dentro, dove ci sono ad aspettarlo due uomini. Uno è Renzo Tinnirello della "famiglia" di corso dei Mille, l’altro è Ciccio Tagliavia di Brancaccio. Ma alle loro spalle, nell’ombra, c’è anche uno sconosciuto, un uomo di una cinquantina d'anni che non è un mafioso. Nel 2009 Gaspare Spatuzza aveva indicato quell’uomo, con nome e cognome, come un appartenente ai servizi segreti. Nel 2010 ha fatto marcia indietro, parlando solo "di una certa somiglianza". Spento il motore della Fiat 126, Tinnirello dice a Spatuzza di pulire lo sterzo per cancellare le sue impronte digitali. Poi Tinnirello e Tagliavia imbottiscono l’auto e preparano l’innesco. Gaspare Spatuzza torna verso la sua Brancaccio, passa dall’Ucciardone ("il posto di blocco della Finanza non c’era più") e intuisce - dalla vicinanza con la casa della madre di Paolo Borsellino - a cosa servirà quella Fiat 126.
Era dalla prima settimana di luglio che erano cominciati gli appostamenti in via Mariano D’Amelio. Il primo sopralluogo. Poi, il secondo sopralluogo "circa una settimana prima della strage". Li avevano fatti Fabio Tranchina e Giuseppe Graviano. Il boss aveva chiesto a Tranchina di procurarsi anche un appartamento lì vicino ("senza agenzie, mi raccomando...") ma poi aveva visto un giardino dietro la casa della madre del magistrato e aveva deciso di piazzarsi lì con il telecomando. Sabato 11 luglio il boss Salvatore Biondino e i due cugini Salvatore Biondo e Giovan Battista Ferrante (uno detto "il lungo" e l’altro "il corto") provano il telecomando in campagna. Lunedì 13 luglio i Ganci della Noce contattano Antonino Galliano e lo avvertono di "tenersi pronto per pedinare" Borsellino la domenica successiva. Il 16 luglio Salvatore Biondino dice a Giovanni Brusca che è "sotto lavoro" ma che non ha bisogno di aiuto per la strage. Il 17 luglio Biondino chiama Ferrante e gli ordina "di tenersi libero per domenica che c’è da fare". Sabato 18 luglio Raffaele Ganci informa Salvatore Cancemi che, il giorno dopo, Borsellino morirà.
Alle sette del mattino di domenica 19 luglio i mafiosi delle "famiglie" della Noce, di San Lorenzo e di Porta Nuova sono "in osservazione" intorno a via Mariano D’Amelio. Alle 16,58 il procuratore salta in aria con cinque agenti della sua scorta. Sono stati solo i mafiosi? Scrive il procuratore Sergio Lari nella richiesta di revisione del processo Borsellino presentata, qualche giorno fa, alla procura generale di Catania: "Dopo diciannove anni, potrebbe sembrare singolare, se non addirittura anomalo, che siano state avviate nuove indagini destinate a mettere in discussione ‘verità’ che ormai sembravano acquisite". E, riferendosi alle false piste, il procuratore scrive: "Bisogna comprendere se con i depistaggi si volevano coprire la responsabilità di ‘soggetti esterni’ a Cosa Nostra riconducibili ad apparati deviati dei servizi segreti, ovvero ad altre Istituzioni o a organizzazioni terroristico-eversive".
La Repubblica, 28.10.2011
mercoledì 26 ottobre 2011
Il governo vuole smantellare la Direzione Investigativa Antimafia
Giuseppe Lumia |
Nella provincia con la più alta densità mafiosa d’Italia, quella di Agrigento, il governo si appresta a sopprimere la Direzione investigativa antimafia. L’esecutivo, che non perde occasione per intestarsi i meriti dei risultati ottenuti contro le mafie, continua a tagliare risorse proprio a quei magistrati, poliziotti, carabinieri, finanzieri della Dia che arrestano i boss e sequestrano i loro beni. Infatti, oltre alla chiusura di alcune sedi locali della Direzione, il centrodestra pensa di cancellare, con un emendamento inserito nella legge di bilancio, l’indennità aggiuntiva percepita dal personale per la delicatezza del lavoro e i rischi a cui è sottoposto.
Si tratta di provvedimenti che smontano l’apparato investigativo messo in piedi da Giovanni Falcone e sviliscono la dignità e la professionalità di chi è al servizio delle istituzioni contro le mafie. Fu proprio il magistrato siciliano a volere e istituire la Dia nel periodo in cui ricoprì il ruolo di direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. Falcone aveva capito che per combattere la mafia non bastavano gli strumenti e le forze ordinarie di cui lo Stato già disponeva per reprimere i reati. Serviva una struttura interforze dedicata esclusivamente alla repressione del fenomeno mafioso. Falcone fece appena in tempo a istituirla prima di essere assassinato da Cosa nostra.
Oggi il governo vuole fare a pezzi uno degli strumenti più avanzati e moderni nella lotta alle mafie, che nel corso degli anni ha consentito di ottenere risultati straordinari. Basti pensare che solo in questi ultimi tre anni le attività investigative della Dia hanno portato al sequestro di beni per 5,7 miliardi, di cui 1.2 confiscati. Quindi, anche a considerare le esigenze di bilancio, la Dia dovrebbe essere esclusa visto il valore dei beni recuperati al patrimonio dello Stato. Anzi, un governo intelligente avrebbe dovuto potenziare, con più risorse e strumenti, la capacità investigativa della Direzione e premiare il lavoro svolto da tutto il personale. Invece l’esecutivo la priva di alcune strutture periferiche fondamentali e punisce uomini e donne che ogni giorno si trovano in prima linea sul fronte della lotta alla mafia, infliggendo loro anche l’umiliazione di realizzare le indagini in carenza di organico e con mezzi inadeguati.
Come al solito quando si tratta di tagliare, il governo preferisce mettere le mani laddove non si dovrebbe togliere nemmeno un euro, come la sicurezza o l’istruzione. Le mafie e l’ignoranza sono due pesanti fattori di sottosviluppo, pertanto, proprio in un momento di crisi la lotta alle mafie e la scuola rappresentano il miglior investimento da fare per liberare l’economia dal condizionamento delle organizzazioni criminali e promuovere una cultura della legalità, al fine di allargare gli spazi dell’iniziativa economica legale, dello sviluppo sano e positivo, della partecipazione, della cittadinanza attiva.
lunedì 24 ottobre 2011
Nino Rocca, operatore sociale palermitano: "Io c'ero a Roma il 15 ottobre. E ci vuole il coraggio del confronto..."
"La terza guerra mondiale è scoppiata" diceva il subcomandante Marcos nel '94 , dal Chiapas, in Messico, quando portava avanti la sua guerra di resistenza contro un capitalismo devastante che seminava vittime in ogni parte del mondo suscitando guerre in ampie regioni nei paesi del terzo mondo. Questa "guerra"non è finita altrove e in più ha raggiunto anche i paesi occidentali, i paesi ricchi che si credevano al riparo, e che si sono arricchiti sulle spalle di paesi non casualmente poveri ma impoveriti, invece, da ben precise politiche mondiali. Politiche che hanno causato più morti delle due guerre mondiali messe assieme, in questi decenni che noi occidentali riteniamo di cosiddetta pace. Oggi anche i nostri giovani (ma non solo loro) sempre più acquistano consapevolezza che la "guerra" si avvicina e che anche il loro futuro è reso incerto da una economia cinica e devastante che colpisce anche i paesi più sviluppati. Alla manifestazione del 15 ottobre, a cui ho partecipato assieme ad altri circa 150.000 mila "indignati," era proprio contro questa politica che si voleva sottolineare il più aperto dissenso. Ma si sono manifestati due modi completamente diversi di fronteggiare questa "guerra". Uno, quello della maggioranza dei manifestanti: non violento, variegato, ma non per questo meno incazzato e determinato a cambiare un assetto politico che uccide, alla lettera, in paesi lontani dai nostri occhi, e che da noi "uccide" il futuro di migliaia di purtroppo ex lavoratori e le prospettive di chi non è ancora entrato nel mondo del lavoro e non sa nemmeno se vi entrerà mai. L'altro modo, minoritario ma comunque molto corposo e organizzato, che ha esplicitamente manifestato il proprio no a questo stato di cose scegliendo la via della devastazione e del conflitto aperto.
Queste due rappresentazioni di una giusta reazione ad un liberismo esasperato e violento sono state evidenziate, in modo plastico e drammaticamente reale, nella maxi manifestazione del 15 ottobre, creando una profonda ma speriamo non incolmabile spaccatura tra due modalità, diversissime, di fronteggiare uno stesso problema. Nelle riunioni preparatorie antecedenti la partenza si era tutti d'accordo sulla gravità della crisi, sulla necessità di reagire, ma non si è saputa trovare una sintesi condivisa su quali dovessero essere le forme di questa reazione. Ci chiediamo per quale motivo non si è trovata una intesa prima che si verificasse questa spaccatura che, naturalmente, non giova affatto alla causa comune. Forse nessuno dei due gruppi contrapposti ha saputo rappresentare le aspettative di un popolo di "indignati" che cerca un modo per uscire dalla crisi e costruire un percorso "altro" nella politica e nell'economia. E' facile ora lanciare anatemi dall'una e dall'altra parte, ma le recriminazioni, le accuse reciproche, anche le delazioni, non fanno che indebolire un fronte che deve invece restare unito contro la crisi. Occorre allora riaprire il dialogo interrotto dopo la manifestazione, cercare di applicare il difficile metodo della democrazia partecipativa che tenga conto delle differenze senza penalizzare le minoranze, recuperare con determinazione un possibile consenso. Solo così sarà forse possibile costruire un blocco sociale forte, una massa critica consistente, pena il ridursi a una moltitudine di gruppi sempre più autoreferenzial, e incapaci di produrre un cambiamento invece così necessario. Con questa breve riflessione voglio lanciare un appello a tutti gli "indignati" appartenenti ai centri sociali o ad altri gruppi organizzati perché si riprenda il dialogo, ci si riappropri di una logica inclusiva, non esclusiva, si rafforzi la volontà di costruire un fronte unico, sia pure diversificato da mille espressioni. Per evitare sterili battibecchi su teoremi ideologici è necessario che partiamo dalle concrete lotte sociali di ogni giorno, la lotta per il diritto alla casa, allo studio, al lavoro, alla cittadinanza, alla diversità, alla libera circolazione delle genti e non solo delle merci. Solo sul terreno della pratica quotidiana potremo forse recuperare il dialogo interrotto. A questo tipo di politica vorrei si accostassero i giovani e anche i giovanissimi, come mio figlio. Che da una manifestazione che poteva essere grandiosa e che si è invece dispersa in mille rivoli scompaginati, potessero trarre l'energia, la "carica" necessaria a non sentirsi soli, a sentirsi invece tanti, compatti, per affrontare la vita, giorno dopo giorno, credendo che un mondo migliore di questo sia possibile.
Nino Rocca
Queste due rappresentazioni di una giusta reazione ad un liberismo esasperato e violento sono state evidenziate, in modo plastico e drammaticamente reale, nella maxi manifestazione del 15 ottobre, creando una profonda ma speriamo non incolmabile spaccatura tra due modalità, diversissime, di fronteggiare uno stesso problema. Nelle riunioni preparatorie antecedenti la partenza si era tutti d'accordo sulla gravità della crisi, sulla necessità di reagire, ma non si è saputa trovare una sintesi condivisa su quali dovessero essere le forme di questa reazione. Ci chiediamo per quale motivo non si è trovata una intesa prima che si verificasse questa spaccatura che, naturalmente, non giova affatto alla causa comune. Forse nessuno dei due gruppi contrapposti ha saputo rappresentare le aspettative di un popolo di "indignati" che cerca un modo per uscire dalla crisi e costruire un percorso "altro" nella politica e nell'economia. E' facile ora lanciare anatemi dall'una e dall'altra parte, ma le recriminazioni, le accuse reciproche, anche le delazioni, non fanno che indebolire un fronte che deve invece restare unito contro la crisi. Occorre allora riaprire il dialogo interrotto dopo la manifestazione, cercare di applicare il difficile metodo della democrazia partecipativa che tenga conto delle differenze senza penalizzare le minoranze, recuperare con determinazione un possibile consenso. Solo così sarà forse possibile costruire un blocco sociale forte, una massa critica consistente, pena il ridursi a una moltitudine di gruppi sempre più autoreferenzial, e incapaci di produrre un cambiamento invece così necessario. Con questa breve riflessione voglio lanciare un appello a tutti gli "indignati" appartenenti ai centri sociali o ad altri gruppi organizzati perché si riprenda il dialogo, ci si riappropri di una logica inclusiva, non esclusiva, si rafforzi la volontà di costruire un fronte unico, sia pure diversificato da mille espressioni. Per evitare sterili battibecchi su teoremi ideologici è necessario che partiamo dalle concrete lotte sociali di ogni giorno, la lotta per il diritto alla casa, allo studio, al lavoro, alla cittadinanza, alla diversità, alla libera circolazione delle genti e non solo delle merci. Solo sul terreno della pratica quotidiana potremo forse recuperare il dialogo interrotto. A questo tipo di politica vorrei si accostassero i giovani e anche i giovanissimi, come mio figlio. Che da una manifestazione che poteva essere grandiosa e che si è invece dispersa in mille rivoli scompaginati, potessero trarre l'energia, la "carica" necessaria a non sentirsi soli, a sentirsi invece tanti, compatti, per affrontare la vita, giorno dopo giorno, credendo che un mondo migliore di questo sia possibile.
Nino Rocca
Giuliano Rocca (14 anni): "La mia esperienza a Roma il 15 ottobre al corteo degli indignados"
Tutto è cominciato quando mio padre mi ha chiesto se volessi andare con lui alla manifestazione che si sarebbe tenuta a Roma il 15 ottobre. Subito, senza nemmeno esitare troppo, ho accettato. Fin da quando ero piccolissimo i miei genitori mi hanno sempre portato (anche nel marsupio) alle manifestazioni che ci sono a Palermo o a Cinisi. Ma questa manifestazione di Roma, fatta in 900 città nel mondo, era una vera chicca! Papà aveva già prenotato i posti in pullman, infatti saremmo partiti con altri di Palermo, divisi tra Cobas, centri sociali organizzati e collettivi studenteschi. Qualche giorno prima della partenza però, arriva notizia che non ci sono più posti, avevano sbagliato a fare i conti, e che io e mio padre non saremmo potuti partire. Ma venerdì 14, quando ormai ci eravamo rassegnati a stare a casa, mio padre, che non si era arreso, mi viene a prendere all'uscita da scuola, dicendo di sbrigarmi perché era riuscito ad accordarsi con gli organizzatori del viaggio e aveva trovato i due posti meritati. Di pomeriggio siamo partiti circa un'ora dopo il dovuto, come del resto ci aspettavamo tutti. Io e mio padre, rispettivamente il più giovane e il più anziano su quel pullman (14 e 64 anni, gli altri un'età fra i 20-25 anni più o meno) ci siamo sorbiti le 13 ore circa di viaggio, scandite da continue pause-sigaretta ad ogni autogrill, che hanno allungato quell'estenuante viaggio. Dormire poco e niente, date le continue soste, il traghettamento da Messina a Reggio Calabria, il parlare degli altri ragazzi e gli inni alla rivolta al grido di "saccheggiamo la capitale!", parole che erano tutte un programma di quello che avrebbero fatto i nostri accompagnatori il giorno dopo, o almeno così pensavamo. La mattina seguente, finalmente, arrivo a Roma, alla stazione in periferia di Anagnina. Da lì, io e papà, staccati dal gruppo, abbiamo preso la metro, con l'intenzione di avvicinarci al centro città per andare a dormire (finalmente) qualche oretta a casa di un amico. Arrivati, dopo una breve dormita, ci siamo rimessi in marcia in direzione Piazza della Repubblica, dove c'era il concentramento per la partenza del corteo. Siamo arrivati lì con il corteo già partito. Percorrendo il corteo dalla fine all'inizio, ho notato che erano presenti No-Tav, un camion dei Cobas, Collettivi per l'acqua Pubblica (capeggiati da Alex Zanotelli), piccole associazioni per l'assistenza ai diversamente abili, sindacati vari, giovani comunisti, una moltitudine di gente con la maschera del protagonista del film "V per Vendetta", simbolo di rivoluzione, e un gruppetto di anarchici, seguiti da una trentina di apparenti black block, tutti neri con caschi e volto coperto che, per quanto fossero pochi, non promettevano bene. Scesi da via Cavour, poco prima dell'arrivo al Colosseo, i primi casini. Il gruppetto di black block fa saltare la prima auto. Una massa di persone si riversa nelle vie parallele, cercando di non passare davanti l'auto incendiata. Puntualmente arrivano i Vigili del Fuoco, ogni tanto bloccati da qualche persona che, incoscientemente, gli si para davanti, ostruendogli il passaggio. Spenta l'auto, arrivati anche noi al Colosseo da una via alternativa, notiamo che sono 2 le auto incendiate, e che sono stati distrutti i vetri di una pompa di benzina. Il corteo prosegue di fianco al Colosseo, con una donna che, parlando dal camion dei Cobas, dotato di altoparlanti, grida a quella trentina di giovani devastatori di non bloccare il corteo e di farsi da parte. I primi casini tra i manifestanti, ma il corteo prosegue. In Via Labicana, i primi scontri. Una carica della polizia, proveniente da una traversa, fa indietreggiare improvvisamente parte del corteo, facendo trovare così black block e un mucchio di manifestanti in testa alla manifestazione, bloccati tra due schieramenti di forze dell'ordine. I black block, che gira voce siano diventati circa un migliaio, distruggono una caserma, altre auto, incendiano l'ex sede del ministero della difesa, devastano le sedi delle banche e i loro sportelli automatici, mentre ai lati si muovono gruppi di pseudo-writer che scrivono sui muri "pianta grane, non tende", riferendosi alle tende degli indignados, e che oltre a scritte di questo tipo, fanno tag per conto proprio, per segnare il loro passaggio. Proviamo a rientrare in quella parte di corteo isolata, ma un'altra carica della Polizia ci convince a continuare per strade parallele. Arriviamo in via Merulana, dopo aver udito altre esplosioni, probabilmente bombe carta e molotov contro auto e forze dell'ordine. Proviamo a scendere per la via, ma ci accorgiamo che alla fine, proprio in direzione dell'ingresso di piazza San Giovanni, punto di arrivo del corteo, ci sono schieramenti di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza e ci convinciamo di trovare un posto tranquillo dove fermarci. Arriviamo in una villa, piazza Vittorio, dove per 2 ore e mezza vediamo sfilarci davanti sirene con mezzi corazzati, diretti sul luogo degli scontri, per contrastare le forze del disordine. Stanchi e ormai alle strette con i tempi (il pullman di ritorno sarebbe partito tra circa 2 ore), ci rifugiamo in un bar per vedere in diretta alla tv cosa sta succedendo. I black block hanno dato fuoco ad una camionetta dei carabinieri e un carabiniere scappa giusto in tempo dal mezzo, mettendosi in salvo miracolosamente. Molti feriti, sia tra forze dell'ordine che tra rivoltosi. Alla tv le immagini di una ragazza con il volto pieno di sangue, poliziotti distesi, ambulanze che corrono, camionette in corsa che disperdono i manifestanti, sanpietrini che volano, lanciati da giovani incappucciati. Veniamo a sapere che è stata "occupata" la basilica di Massenzio e che hanno lanciato una statua della Madonna che è andata distrutta sotto i piedi dei black block. Sconcertati, ci mettiamo in marcia per prendere la metro e tornare ad Anagnina, un lungo viaggio di ritorno ci aspetta.
Giuliano Rocca
Giuliano Rocca
Giuseppe Lumia: Quale unità d'Italia bisogna celebrare?
Giuseppe Lumia |
Il 2011 è l’anno della celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, quale traguardo storico dell’identità e della coesione nazionale. Un appuntamento che suscita entusiasmo grazie agli appelli del Presidente Napolitano e che, allo stesso tempo, è sottoposto agli attacchi volgari della Lega. Le sembra che l’Unità sia un valore realmente condiviso e sentito nella società?
Dobbiamo chiederci quale Unità d’Italia vogliamo celebrare oggi. Vi sono diversi modi di approcciarsi ad una ricorrenza così importante che deve coinvolgere tutti, soprattutto le nuove generazioni. A me pare che a prevalere sia un approccio retorico. E’ inevitabile che nelle iniziative ci sia una forte dose di narrazione retorica volta a mettere in luce solo ed esclusivamente gli aspetti celebrativi del processo unitario. Oscurare tuttavia quelli negativi non va bene, alla fine si rischia di rendere poco credibile un cammino molto travagliato. Un’eccessiva rappresentazione epica dell’Unità d’Italia non dà spazio ad una riflessione di ampio respiro sui progetti nazionali, nonché sui valori e sui principi che hanno animato il periodo risorgimentale. Bisogna avere il coraggio di avviare una trattazione critica dei fatti e delle scelte politiche operate prima e dopo la fatidica data de! l 1861 e che hanno segnato la vita di interi territori e popolazioni. E’ un limite guardare l’Unità d’Italia come una sorta di totem da adorare e venerare per richiamare i cittadini ad un senso di comunione emotiva. Si rischia di sprecare una grande occasione per comprendere le radici problematiche di una Unità che nel corso dei decenni si è sempre più sfilacciata, non solo sotto l’evidente profilo economico, ma anche della coesione dei territori, soprattutto tra Nord e Sud, e dei diritti di cittadinanza.
La lega, quindi, ha ragione?
Per niente. I suoi attacchi rientrano nell’altro approccio, quello di chi vuole cancellare i valori e i principi del Risorgimento e il lungo percorso che dall’Unità d’Italia, attraverso le due guerre mondiali e il dramma del periodo fascista, ci ha portato alla Repubblica. Sono gli stessi che ogni giorno mettono in discussione la nostra Carta costituzionale, pensando che per il Paese non ci sia più un futuro comune, utilizzando magari un federalismo fiscale che prepara la rottura definitiva tra Nord e Sud. Tali differenze, che pur ci sono, sono spiegate attraverso una banale volgarizzazione delle cause che le hanno determinate, tutte a carico del Sud. In altre parole si tratta di un approccio funzionale alla propaganda e al tornaconto elettorale di una parte minoritaria del Paese che, proprio dal binomio Settentrione/Meridione, ha tratto notevoli benefici. Basti pensare alle scelte di politica economica che gi&agr! ave; all’indomani dell’Unità mortificavano la produzione agricola e manifatturiera del Mezzogiorno e incoraggiavano lo sviluppo industriale e i commerci del Nord. Una disparità di trattamento perpetuatasi nel tempo, che ha assegnato al Nord il ruolo di locomotiva del Paese e al Sud quello di mercato passivo di consumi e di accaparramento della sua migliore forza lavoro, grazie ad un’emigrazione forzata dal bisogno e con elementi di discriminazione anche violenti.
Lei non è d’accordo né col primo, né con il secondo approccio.
Entrambi si basano su letture parziali e ingiuste dell’Unità d’Italia e soprattutto forniscono soluzioni sbagliate, se non addirittura pericolose per il futuro del nostro Paese e dei suoi cittadini.
Qual è la sua lettura dell’Unità d’Italia?
C’è un altro approccio: quello positivo ed innovativo che, soprattutto nel Mezzogiorno, deve diventare forte e dirompente. Naturalmente ciò richiede un’analisi seria e rigorosa del fatto incontrovertibile: non c’è mai stata una vera Unità, ma una sostanziale divisione che ci consegna oggi un’Italia ancora duale. Il Nord produce e il Sud consuma i suoi prodotti, appunto; il Nord organizza i migliori servizi sociali, sanitari, formativi; il Sud si struttura in Regioni assistenziali. Al Nord la politica progetta gli interventi nel campo produttivo e infrastrutturale, senza tralasciare la dimensione clientelare e burocratica e anche quella collusiva con le mafie; al Sud la politica abdica in partenza ad una funzione progettuale e corre tutta a gestire quel maledetto sistema dell’intermediazione burocratico-clientelare e spesso affaristico-mafiosa.
Ci spieghi meglio.
Il patto che ha tenuto insieme il Paese dall’Unità d’Italia ai giorni nostri si sta lentamente sfaldando. Quell’accordo tacito per cui il Nord produce beni e attorno vi organizza i migliori servizi (dalle scuole agli ospedali) e il Sud consuma i prodotti del Nord e attorno vi organizza reti assistenziali è saltato. Questo modello, voluto dalle classi politiche che si sono succedute fino ad oggi, è stato messo in crisi dalla globalizzazione. Il Settentrione, infatti, non hanno più bisogno dei mercati del Meridione. E se in passato le industrie del Nord avevano necessità della manodopera del Sud oggi sono migliaia i giovani meridionali più qualificati che ogni anno lasciano la propria casa alla ricerca di un futuro migliore. Una nuova migrazione che impoverisce il Mezzogiorno delle sue migliori intelligenze e professionalità.
Responsabilità solo del Nord?
Assolutamente no. Anche le classi dirigenti del Sud hanno partecipato alla costruzione dell’Italia duale, tutta a danno dei territori del Mezzogiorno.
Come uscirne?
Intanto, selezionando una classe dirigente onesta e capace di coniugare legalità e sviluppo, facendo della lotta alla mafia e all’intermediazione il caposaldo fondamentale dell’azione politica. E poi avviando una riflessione profonda sull’Unità d’Italia, che faccia capire gli errori commessi per ricostruire un nuovo paradigma politico e culturale dove, sia il Nord che il Sud, siano terre di produzione e consumo, nel rispetto della sostenibilità ambientale di ogni territorio. Penso ad esempio, ad un indice che misuri il livello qualitativo e quantitativo della dotazione infrastrutturale (strade, porti, interporti, fibre ottiche …) e dei servizi (sanitari, sociali, scolastici, universitari, di ricerca …) al fine di stabilire un piano di investimenti che metta tutte le Regioni nelle stesse condizioni di produrre benessere, legalità e sviluppo, senza discrezionalità, arroganze ! del Nord e piagnistei del Sud. Così possiamo recuperare il senso più nobile e autentico del nostro stare insieme e costruire un nuovo patto di Unità che recuperi la migliore memoria e avvii una radicale stagione di cambiamento.
L’Unità d’Italia è legata a doppia mandata con l’annoso tema del divario tra il Nord e il Sud del Paese. È questa la sua ricetta per affrontare la “questione meridionale” e ricostruire una nuova unità d’Italia?
Il problema delle differenze che separano il nord dal sud continua ad esistere. A 150 anni dall’Unità d’Italia possiamo affermare che la “questione meridionale” è più grave che mai e nelle varie aree territoriali del sud permangono ritardi che ci impongono una rigorosa verifica delle cause che hanno determinato tale situazione e allo stesso tempo predisporci a scelte di grande innovazione e cambiamento. I dati parlano chiaro. Tutti i rapporti e le indagini statistiche evidenziano ancora una volta i gravi ritardi occupazionali e produttivi, come pure le difficoltà in cui versano i territori del Mezzogiorno in termini di diritti negati e di mancanza di opportunità di lavoro, soprattutto per i giovani. La “questione meridionale” ritorna. Si discute, ci si divide. Si paventano partiti del Sud, banche del Sud e misure inedite. Tuttavia è facile prevedere l’ennesimo fa! llimento. Riproporre la “questione meridionale” come si è sempre fatto non produrrà niente di buono. Dopo tanto affannarsi si rischia di partorire il topolino: la solita richiesta di maggiori risorse al governo centrale, il solito rito meridionalista. Ci vuole una svolta vera e riformista, moderna e progettuale.
Secondo lei ci sono le condizioni perché si verifichi questa svolta?
Affrontare e risolvere la “questione meridionale” vuol dire affrontare e risolvere la “questione delle classi dirigenti”. Da loro dipende lo stato di sottosviluppo in cui versa il Mezzogiorno d’Italia. E non mi riferisco soltanto alla classe politica, ma anche a quella imprenditoriale e sociale. In ognuna di esse la parte più forte ha preferito mantenere le sue rendite di posizione, consolidando i rapporti di forza esistenti a scapito del cambiamento e del progresso. Così si spiega l’avanzare, nel corso dei decenni, di un fronte conservatore che ha impedito lo sviluppo e l’emancipazione del Sud. Un fronte così potente che anche davanti al disastro economico e sociale prodotto ha sempre potuto contare su una larghissima base di consenso. In ogni ambito si è venuto a creare un sistema di potere burocratico-clientelare e spesso affaristico-mafioso, che ha tenuto in pugno tutto e ! tutti. In questo modo certa politica è riuscita ad assicurarsi i voti, certa imprenditoria ad ottenere soldi e appalti pubblici, la mafia ad espandere il proprio dominio. Un brodo di coltura alimentato dalle politiche assistenziali di chi era al governo e ha sempre considerato il Meridione come una terra di nessuno, da trattare come granaio elettorale. In nome di tutto ciò sono stati chiusi occhi e tappate orecchie e bocche davanti a scandali e nefandezze.
Chi ha avuto in mano il potere nel Mezzogiorno ha scartato la difficile, ma positiva, strada del bene comune in cambio di uno squallido assistenzialismo, senz’altro molto più facile da gestire per coltivare consenso e privilegi personali.
Ecco perché affrontare seriamente la “questione meridionale” vuol dire rinnovare il sistema politico, abbandonando le classiche categorie e sfidando i partiti sul campo dell’innovazione, della legalità e dello sviluppo. La politica deve misurarsi sui problemi della società e della gente, attraverso proposte concrete e praticabili e attorno a queste costruire politiche che rispondano alle esigenze delle persone. A nulla servono le posizioni oltransiste del radicalismo ideologico, anzi, esse non fanno altro che relegare le forze progressiste a posizioni marginali e di pura testimonianza. Non ha senso continuare a ragionare ancora con le vecchie categorie destra/sinistra, fascisti/comunisti. Bisogna cambiare i paradigmi del quadro politico secondo lo schema innovatori/conservatori.
Altro che investimenti, c’è chi invece intende risolvere il problema col federalismo affinchè ogni territorio possa gestire in proprio la ricchezza che produce.
Il federalismo è nemico del Mezzogiorno? Sì, se il federalismo avvantaggerà le regioni settentrionali e penalizzerà quelle meridionali, lasciando invariate le distanze economiche e sociali che ancora esistono. No, invece, se il federalismo sarà solidale e capace di far camminare tutti insieme, valorizzando le potenzialità che in ogni regione esistono e accelerando il cammino delle regioni meridionali per portarle al passo di quelle del centronord. Insomma, l’Italia va ripensata e riorganizzata come un sistema-paese che sa fare squadra, che sa unire le forze pur rispettando le differenze e le peculiari caratteristiche di ogni territorio. Così il nuovo assetto federale sarà una marcia in più e non la rovina dell’Unità d’Italia, a danno soprattutto del Mezzogiorno.
Il federalismo quindi può rappresentare un’opportunità per il Mezzogiorno?
Così come il governo lo intende danneggerebbe e accentuerebbe le differenze tra la parte più ricca della Penisola e quella più povera. Tutte le regioni devono essere messe nelle condizioni di diventare terre di produzione secondo le loro vocazioni e peculiarità. Lo Stato, quindi, fissi degli indici di sviluppo e intervenga in quei territori che si trovano al di sotto per garantire a tutti i cittadini e alle imprese gli stessi diritti e le stesse opportunità, indipendentemente dal luogo in cui si trovano. L’autonomia delle Regioni, all’interno di un quadro nazionale federato secondo i principi di solidarietà e di sussidiarietà, può rappresentare un buon tavolo di sfida, ma entrambi i livelli, quello nazionale e quello locale, devono fare la loro parte. Solo se si investe sulle infrastrutture, materiali e immateriali, sulla scuola, sulla ricerca, sull’energia alternativ! a, sulla fiscalità di vantaggio, sulla lotta alla mafia … si può far sviluppare il Meridione d’Italia, attuare il federalismo e mettere in moto l’intero Paese.
Il governo, invece, non fa altro che fare figli, il Nord, e figliastri, il Sud, aumentando il divario tra le zone più ricche e quelle più povere del Paese. Il 18 novembre del 2010 il Comitato interministeriale per la programmazione economica ha destinato al Settentrione ben 20 miliardi di euro per la realizzazione di infrastrutture e soli 200 milioni per il Mezzogiorno.
Questo l’interesse del governo nei riguardi del Sud e della “questione meridionale”, a fronte del fatto che sia il ministero degli affari regionali, sia lo stesso Cipe siano guidati da due meridionali, di cui uno peraltro meridionalista. Per Berlusconi conta molto la “questione settentrionale” o, per dirla in modo più esplicito, il sostegno della Lega, che non si fa scrupoli a ricattare il governo se non ottiene quello che chiede. Con l’avallo dei politici del Sud, facenti parte del suo schieramento, pronti sempre e comunque a dimostrargli sudditanza e fedeltà incondizionata. Ancora una volta l’esecutivo abbandona il Mezzogiorno a se stesso, salvo poi in campagna elettorale utilizzarlo come serbatoio di voti da rastrellare con il clientelismo e la propaganda. Il meccanismo è ormai collaudato: tenere il Sud in agonia in modo tale da poter fare leva sui bisogni primari delle persone e ! sulle false promesse. Al resto provvede la disinformazione messa in atto quotidianamente dalla Lega, che lamenta la redistribuzione delle risorse statali a favore del Sud, salvo poi scoprire che il governo, ad oggi, ha dirottato decine di miliardi di Fas al Settentrione; un esempio per tutti: il pagamento delle multe per le quote latte degli allevatori Padani. Così aumenta il gap economico tra Nord e Sud e di conseguenza le disparità sociali e culturali. L’Italia non può essere governata secondo le logiche al ribasso della convenienza e del consenso.
È evidente, però, che a dettare la linea della politica economica italiana sia soltanto il Nord e che a decidere dell’assetto istituzionale ed economico del Paese sia principalmente la Lega. Il Mezzogiorno cosa fa, resta a guardare?
Il Sud deve farsi trovare pronto alla caduta della Seconda Repubblica, che sta franando perché ha tradito le speranze e le aspettative dalle quali era nata e perché, soprattutto, non ha fatto leva sul rapporto legalità e sviluppo. In questi ultimi vent’anni, infatti, la legalità è stata ripetutamente offesa e i diritti dei cittadini calpestati; hanno prevalso intese di casta, di cricca e di malaffare. Così sono state mortificate le potenzialità di sviluppo del Meridione d’Italia, nonché la competitività produttiva del Nord.
Su cosa si deve puntare la politica per ritrovare di nuovo la bussola necessaria a governare questo Paese?
La politica, dopo anni di berlusconismo, è nella polvere e non è in grado di affrontare le sfide del nostro tempo. A destra come a sinistra ci sono istanze di rinnovamento per riconquistare serietà, credibilità ed esprimere una grande progetto, che abbia come fondamento il binomio legalità/sviluppo. Su questo vanno costruite, al di là dei classici schieramenti, forze ed alleanze politiche capaci di fare le riforme indispensabili per andare avanti.
Appare estremamente difficile che la classe politica possa fare scelte di rottura col passato e decida di fare scelte inedite per riedificare il Paese su nuove basi.
Bisogna riscrivere quel patto per rifondare una nuova Unità d’Italia, dove tutte le regioni siano terre di produzione, ognuna secondo le proprie vocazioni e specificità. È questo il campo da gioco su cui si deciderà il futuro del nostro Paese. Per fare questo è necessario che le classi dirigenti del Mezzogiorno abbiano il coraggio di assumersi le proprie responsabilità, sfidando il sistema politico sul terreno dell’innovazione vera e radicale. Bisogna superare gli steccati ideologici e di schieramento per affrontare e risolvere i problemi reali della gente. È quello che stiamo cercando di fare in Sicilia con il sostegno alle riforme. Solo se riusciremo a riportare in mano pubblica la gestione dell’acqua, a radicare e diffondere la raccolta differenziata, a eliminare gli sprechi e costruire una sanità d’eccellenza, ad avere una pubblica amministrazione efficace ed eff! iciente … diventeremo credibili e forgeremo una politica nuova capace di perseguire il bene comune. La buona politica, quindi, è chiamata a creare le condizioni per liberare i cittadini dal condizionamento clientelare e mafioso e puntare sulla qualità del consenso. Come diceva Libero Grassi “Se i politici hanno un cattivo consenso faranno cattive leggi”. La lotta alla mafia, per la legalità e lo sviluppo, deve diventare la priorità da perseguire con provvedimenti che colpiscano al cuore gli interessi delle organizzazioni criminali e sprigionino le risorse e le energie sane del nostro Paese.
ACCADE IN SICILIA. Come visitare la riserva dello Zingaro, restannu 'nmenzu a strata...
La riserva dello Zingaro |
Sono esterrefatta. Mi chiedo che impressione facciamo a dei turisti che vengono a visitare la nostra terra. Il tizio della ditta mi risponde "Ma i turisti perchè vengono fuori stagione?". "Fuori stagione?!? Uno non è libero di venire quando vuole?!? E poi proprio da noi che abbiamo un tempo quasi sempre buono, che fino a ottobre la gente fa il bagno a mare? "E allora questi turisti -mi rimbecca- perchè non si organizzano prima di partire?". "Ma proprio questi due sono organizzatissimi! E' che commettono l'errore di pensare che da noi le cose funzionino come da loro!".
Suggerisco ai due turisti di affittarsi una macchina e andare sul sicuro, ma nessuno dei due si è portato la patente, pensando che non servisse.
Penso che non gli resta che "attaccarsi al tram". Ma metaforicamente.
I due temerari non si scoraggiano e telefonano al b&b di Scopello dove avevano prenotato una camera: la signora del b&b, senza che glielo chiedano, si offre per andarli a prendere al bivio famigerato.
Il giovane tedesco ha commentato che in Germania non succederebbero queste cose. Ma ambedue: che una linea di autoservizi ti lasciasse per strada, lontano chilometri da un centro abitato; e anche che qualcuno fuoriuscisse dal suo specifico ambito di competenza, con disponibilità e senso d'accoglienza, per venirti a prendere a chilometri di distanza.
"Uno ad uno e palla a centro" penso. Ma penso anche che non dobbiamo consolarci con questo, e a che la questa terra sarebbe meravigliosa se alla nostra proverbiale disponibilità associassimo anche un efficiente sistema di servizi. E un territorio ben custodito e non devastato, come spesso contribuiamo a fare.
Maria Di Carlo
Il "disordine" che fa comodo agli "ordini"...
di Gian Antonio Stella
A cosa servono gli Ordini se non tengono ordine tra i loro iscritti, pretendendo il rispetto delle regole deontologiche? Era una domanda lecita dopo la scelta dell'Ordine degli Avvocati di non muover foglia contro i neo-colleghi imputati della truffa all'esame di Catanzaro, quando copiarono in 2.295 su 2.301 lo stesso tema. E legittima dopo la scoperta che l'Ordine dei Medici non si era mai accorto (in venti anni!) che Girolamo Sirchia aveva al Policlinico una segretaria pagata non dall'ospedale ma da un'industria farmaceutica fornitrice. Ma è una domanda obbligata oggi dopo la lettura di La zona grigia/Professionisti al servizio della mafia edizioni «La Zisa». In cui Nino Amadore, del Sole 24 Ore, ricostruisce le ambiguità e i silenzi dei vari Ordini nei confronti degli associati coinvolti in faccende di mafia, camorra, 'ndrangheta. Colletti bianchi che, a sentire il presidente di Cassazione Gaetano Nicastro, sono indispensabili ai criminali: «Cosa Nostra gode purtroppo di una vasta rete di fiancheggiatori nell'ambito di una certa borghesia mafiosa, fatta di tecnici, di professionisti, di imprenditori, di esponenti politici e della burocrazia». Come potrebbero certi padrini potentissimi ma semi-analfabeti investire nell'edilizia in Lussemburgo, nell'acquisto di un pacchetto azionario alle Cayman o nell'acquisto di 12 miliardi di metri cubi di gas dall'azienda ucraina Revne per «un valore di mercato di tre miliardi di euro» senza «un'accorta analisi fatta da gente preparata, che conosce i mercati»? Come potrebbero appropriarsi degli appalti pubblici senza la complicità di architetti, ingegneri, commercialisti, funzionari regionali e comunali ben decisi a regolarsi sul loro lavoro come le tre scimmiette che non vedono, non sentono, non parlano? Amadore ricorda, tra gli altri, il caso del tributarista coinvolto nell'«operazione Occidente » che vide l'arresto di 46 persone appartenenti in parte al giro di Salvatore Lo Piccolo. «Accusato di aver riciclato il denaro delle 10 famiglie mafiose si è difeso: "Ho solo fatto il mio lavoro di consulente, di certo non vado a chiedere la fedina penale di tutti i miei clienti". » Tema: i suoi «probiviri» non han niente da dire? Sempre lì torniamo: «quando» un Ordine può intervenire? Nel caso del processo per il riciclaggio del «tesoro » (stima: 150 milioni di euro) di Vito Ciancimino, il libro segnala come i professionisti condannati siano stati due: il tributarista palermitano Gianni Lapis e l'avvocato internazionalista romano Giorgio Ghiron. Cinque anni e 4 mesi a testa. Ma se Lapis è stato subito sospeso dall'Ordine di Palermo, Ghiron risulta, molti mesi dopo la sentenza, ancora al suo posto. O così dice il sito dell'Ordine di Roma. Come mai? Il destino personale dell'uomo, va da sé, non c'entra: se è innocente lo dimostrerà in Appello. Auguri. Ma resta il tema: perché, come sostiene il presidente dell'Ordine dei Medici Annibale Bianco, un Ordine dovrebbe attendere la sentenza in Cassazione per censurare un iscritto? Che ce ne facciamo di una sanzione supplementare se c'è già una sentenza che magari espelle il condannato dalla professione? Se un Ordine non serve a tenere ordine «al di là» degli iter giudiziari, a cosa serve? A organizzare belle cene in compagnia?
Dal "Corriere della sera"
A cosa servono gli Ordini se non tengono ordine tra i loro iscritti, pretendendo il rispetto delle regole deontologiche? Era una domanda lecita dopo la scelta dell'Ordine degli Avvocati di non muover foglia contro i neo-colleghi imputati della truffa all'esame di Catanzaro, quando copiarono in 2.295 su 2.301 lo stesso tema. E legittima dopo la scoperta che l'Ordine dei Medici non si era mai accorto (in venti anni!) che Girolamo Sirchia aveva al Policlinico una segretaria pagata non dall'ospedale ma da un'industria farmaceutica fornitrice. Ma è una domanda obbligata oggi dopo la lettura di La zona grigia/Professionisti al servizio della mafia edizioni «La Zisa». In cui Nino Amadore, del Sole 24 Ore, ricostruisce le ambiguità e i silenzi dei vari Ordini nei confronti degli associati coinvolti in faccende di mafia, camorra, 'ndrangheta. Colletti bianchi che, a sentire il presidente di Cassazione Gaetano Nicastro, sono indispensabili ai criminali: «Cosa Nostra gode purtroppo di una vasta rete di fiancheggiatori nell'ambito di una certa borghesia mafiosa, fatta di tecnici, di professionisti, di imprenditori, di esponenti politici e della burocrazia». Come potrebbero certi padrini potentissimi ma semi-analfabeti investire nell'edilizia in Lussemburgo, nell'acquisto di un pacchetto azionario alle Cayman o nell'acquisto di 12 miliardi di metri cubi di gas dall'azienda ucraina Revne per «un valore di mercato di tre miliardi di euro» senza «un'accorta analisi fatta da gente preparata, che conosce i mercati»? Come potrebbero appropriarsi degli appalti pubblici senza la complicità di architetti, ingegneri, commercialisti, funzionari regionali e comunali ben decisi a regolarsi sul loro lavoro come le tre scimmiette che non vedono, non sentono, non parlano? Amadore ricorda, tra gli altri, il caso del tributarista coinvolto nell'«operazione Occidente » che vide l'arresto di 46 persone appartenenti in parte al giro di Salvatore Lo Piccolo. «Accusato di aver riciclato il denaro delle 10 famiglie mafiose si è difeso: "Ho solo fatto il mio lavoro di consulente, di certo non vado a chiedere la fedina penale di tutti i miei clienti". » Tema: i suoi «probiviri» non han niente da dire? Sempre lì torniamo: «quando» un Ordine può intervenire? Nel caso del processo per il riciclaggio del «tesoro » (stima: 150 milioni di euro) di Vito Ciancimino, il libro segnala come i professionisti condannati siano stati due: il tributarista palermitano Gianni Lapis e l'avvocato internazionalista romano Giorgio Ghiron. Cinque anni e 4 mesi a testa. Ma se Lapis è stato subito sospeso dall'Ordine di Palermo, Ghiron risulta, molti mesi dopo la sentenza, ancora al suo posto. O così dice il sito dell'Ordine di Roma. Come mai? Il destino personale dell'uomo, va da sé, non c'entra: se è innocente lo dimostrerà in Appello. Auguri. Ma resta il tema: perché, come sostiene il presidente dell'Ordine dei Medici Annibale Bianco, un Ordine dovrebbe attendere la sentenza in Cassazione per censurare un iscritto? Che ce ne facciamo di una sanzione supplementare se c'è già una sentenza che magari espelle il condannato dalla professione? Se un Ordine non serve a tenere ordine «al di là» degli iter giudiziari, a cosa serve? A organizzare belle cene in compagnia?
Dal "Corriere della sera"
mercoledì 19 ottobre 2011
Cerca casa il radar anti-migranti di Siracusa
di Antonio Mazzeo Il primo dei nuovi radar anti-migranti della Guardia di finanza era stato installato segretamente lo scorso mese di febbraio nella penisola della Maddalena (Siracusa), una delle aree più importanti della Sicilia sotto il profilo ambientale, paesaggistico ed archeologico. Le vibrate proteste dei residenti e delle associazioni ambientaliste avevano però costretto il Comando delle fiamme gialle prima a sospendere l’attivazione degli impianti, successivamente a individuare un altro sito per re-installare il traliccio di 36 metri e i pericolosi sensori del sistema di sorveglianza costiera. I militari sono stati di parola e da un paio di giorni i tecnici di AlmavivA Spa di Roma, la società che ha ottenuto l’appalto per l’installazione e la manutenzione dei radar in sud Italia e Sardegna, hanno iniziato le operazioni di smontaggio dell’impianto. Ad annunciare ufficialmente il dietro front della Guardia di finanza, la ministra dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, siracusana. “Lo spostamento del radar da una zona sottoposta a vincolo paesaggistico e dall’alto valore naturalistico, prospiciente l’Area Marina protetta del Plemmirio, è un risultato importante per tutta la cittadinanza”, ha commentato. “Un grazie particolare va alla Guardia di Finanza, che si è dimostrata particolarmente sensibile verso le istanze che stavano alla base della richiesta di spostamento del radar, ed ha cooperato con noi per il raggiungimento di questo risultato”. La ministra aveva ripetutamente fatto pesare tutto il suo potere politico per ottenere la rimozione del sistema di rilevamento. In una nota al quotidiano La Sicilia del 27 febbraio 2011, Stafania Prestigiacomo aveva definito un “errore a cui va posto rimedio” la scelta d’installare il radar al Plemmirio. “La costruzione di una struttura tanto ingombrante lungo il litorale di un’area marina protetta, che nella stagione estiva è densamente popolata, doveva essere evitata”. Parole sacrosante, peccato che la ministra non ha sentito il dovere di pronunciarle pure per i radar d’identica tipologia che la Guardia di finanza chiede d’installare all’interno dei parchi e delle riserve naturali di Puglia e Sardegna. Pugliesi e sardi, figli di un dio minore, hanno dovuto presidiare e bloccare gli ingressi delle aree prescelte ed appellarsi ai tribunali amministrativi per impedire la trasformazione dei territori in orrende postazioni elettromagnetiche per la guerra alle migrazioni.
“Possiamo rassicurare tutti che il nuovo impianto sarà realizzato all’esterno del comune di Siracusa”, hanno annunciato amministratori e fiamme gialle. Top secret il luogo dove risorgerà il traliccio radar. Negli ultimi mesi sono state fatte alcune ipotesi. L’Associazione degli industriali di Siracusa ha avuto l’ardire di proporre l’utilizzo di un camino od una torre nella zona industriale e del petrolchimico di Augusta-Priolo (una delle aree più inquinate di tutto il Mediterraneo), per poi scoprire che le emissioni elettromagnetiche del radar avrebbero potuto avere pericolose conseguenze per le strumentazioni di controllo degli impianti ospitati. Sempre la ministra Prestigiacomo si era detta disponibile ad offrire l’area della VED Vetroresina Engineering Development di Melilli (Sr), l’azienda di famiglia produttrice di tubi e cavi sottomarini. È probabile però, che alla fine il nuovo sensore della Guardia di finanza verrà installato in una delle tante aree sottoposte a servitù militare della fascia costiera sud-orientale compresa tra il Golfo d’Augusta, Pachino e Capo Passero.
“Piena soddisfazione” per l’avvio delle procedure di rimozione del radar è stata espressa da Alessandro Acquaviva, coordinatore del circolo SEL di Siracusa. “Tale risultato è il frutto di una lunga mobilitazione della cittadinanza, delle associazioni ambientaliste, di quelle forze politiche che hanno sostenuto sin dall’inizio la protesta dell’associazione Plemmiryon che si è sviluppata attraverso sit-in, presidi, volantinaggi e assemblee”. Secondo Acquaviva, “a condizionare la decisione di rimuovere è stato anche l’esito favorevole dei recenti ricorsi presentati dai comitati civici della Puglia e della Sardegna contro l’installazioni di radar nei rispettivi territori”.
L’associazione Plemmyrion di Siracusa aveva evidenziato in particolare la “sorprendente velocità” con cui gli enti preposti avevano consentito l’istallazione di “un mostro ad altissima frequenza con onde elettromagnetiche che attraverseranno tutto il territorio della Penisola Maddalena, di Ortigia, cuore della città di Siracusa, delle zone residenziali di Fanusa, Arenella e Ognina”. L’ex presidente Marcello Lo Iacono aveva rilevato che la SAI 8, consegnataria per la gestione del pubblico acquedotto di Siracusa, aveva autorizzato le fiamme gialle a costruire la stazione di rilevamento in un “luogo difforme alla convenzione del Comune che invece faceva riferimento all’impianto di sollevamento fognario di Capo Murro di Porco, distante 2 km. Il radar è stato realizzato non rispettando né l’area stabilita di 88 mq né le distanze dai confini riscontrabili sulla pianta del progetto”.
L’installazione è poi avvenuta senza che il progetto fosse sottoposto a valutazione dell’incidenza ambientale, come invece previsto dalla direttiva 92/43/CEE del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatiche. “Manca inoltre uno studio sull’impatto elettromagnetico”, aggiunge Lo Iacono. “L’amministrazione militare si è limitata a presentare una dichiarazione di conformità redatta dall’ingegnere Gianpaolo Macigno di Siracusa, consulente tecnico della società appaltatrice, che ha tratto delle conclusioni manifestamente insufficienti a comprovare la non pericolosità delle radiazioni emesse dal radar. Peraltro le asserite misurazioni sono state effettuate prima ancora che esso venisse attivato. Lo stesso consulente precisa che si tratta di mere simulazioni numeriche e che solo a radar attivo si potrà valutare la reale situazione e accertare la conformità ai parametri di legge”.
I dispositivi radar per la rete di rilevamento anti-migranti sono stati prodotti da Elta Systems, società interamente controllata dal colosso industriale militare ed aerospaziale israeliano IAI. Codificati come EL/M-2226 ACSR (Advanced Coastal Surveillance Radar), fanno parte della famiglia di trasmettitori in X-band (dagli 8 ai 12.5 GHz di frequenza), che operano emettendo un’onda continua sinusoidale (CW Continuous Wawe), di cui può variare sia la frequenza che l’ampiezza.
A rilevare la pericolosità e alcune incongruenze tecniche degli apparati è stato il professore Massimo Coraddu, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), dopo uno studio dettagliato delle analisi d’impatto elettromagnetico presentate dalla società Almaviva per gli impianti di Siracusa e Gagliano del Capo (Lecce). “Esistono notevoli incertezze riguardo all’esatta modalità di funzionamento del radar, dovute all’incompletezza delle analisi e a incoerenza con quanto riportato dal costruttore”, afferma Coraddu. “Gravi incongruenze si rilevano nella documentazione riguardo l’ampiezza verticale del fascio e il guadagno d’antenna. La mancata conoscenza del diagramma radiante dell’antenna e della sua esatta forma fisica, non consente una precisa valutazione numerica delle emissioni, né in condizioni di campo vicino, né nell’approssimazione di campo lontano”.
“ELTA Systems specifica che l’impianto consente la sorveglianza dello spazio marino antistante, che viene esplorato sistematicamente, individuando eventuali bersagli e risolvendoli con grande precisione spaziale e temporale”, aggiunge il fisico. “Tali caratteristiche sembrano in contrasto con quanto dichiarato nella relazione dell’ing. Macigno, dove la velocità di rotazione è considerata costante e dove l’angolo d’inclinazione del radar rispetto alla superficie del mare è posto pari a 0°. Per il fatto che quest’angolo sia fissato sull’orizzonte e tenendo conto che si trova ad un’altezza maggiore di 100 mt, si viene a creare una zona d’ombra che non permetterebbe d’ispezionare la porzione di superficie marina più vicina alla costa che, secondo la diversa altezza delle sorgenti, può variare dai 200 ai 2.300 metri di distanza dal radar”.
A Coraddu, poi, sembra poco probabile che il radar possa valutare direzione, velocità e numero di persone a bordo di una piccola imbarcazione a 20 Km di distanza, come invece assicura la società produttrice, “scansionando semplicemente a velocità di rotazione costante il tratto di mare antistante”. “È verosimile invece che la velocità sia costante solo in fase di sorveglianza, mentre nel momento in cui un bersaglio viene individuato, il dispositivo possa essere bloccato e il fascio puntato e mantenuto sul target per tutto il tempo necessario alla sua completa definizione. Per tutto questo tempo il bersaglio sarà irraggiato con continuità e questa durata è quindi fondamentale per determinare la dose assorbita. Questo caso, nella valutazione del possibile danno alle persone, deve essere individuato come peggior incidente possibile”.
Massimo Coraddu denuncia come le misurazioni dei campi elettromagnetici siano state effettuate utilizzando la sonda isotropa EP330, fabbricata dalla NARDA Srl, che registra campi sino alla frequenza massima di 3 GHz, mentre il radar è programmato per emettere a frequenze molto superiori. “Non si è tenuto conto di tutti i contributi alle emissioni, nonostante le normative prevedano che le valutazioni vadano effettuate con tutte le sorgenti in funzione alla massima potenza”, aggiunge Coraddu. “Le stazioni di sorveglianza prevedono anche un dispositivo di telecomunicazione, un ponte radio, per inviare i dati in tempo reale al centro di Comando, Controllo, Comunicazioni, Computing ed Informazioni C4I del Comparto aeronavale della Guardia di finanza. Le emissioni di questo sistema Tlc devono quindi essere valutate e sommate a quelle del radar vero e proprio. In entrambe le analisi di impatto elettromagnetico non si è tenuto conto in alcun modo del contributo del ponte radio per le telecomunicazioni”. Radar anti-migranti dall’insostenibile impatto elettromagnetico, dunque, pericolosissimi per la salute dell’uomo e per le specie vegetali e animali.
Ulteriori ombre sulla nuova rete di sorveglianza costiera della Guardia di finanza sono state paventate da alcuni parlamentari del Pd. Con un’interrogazione presentata lo scorso 7 marzo alla Camera, prima firmataria l’on. Elisabetta Zamparutti, si sottolinea come l’asse del PON 1 con cui la Comunità europea ha finanziato l’acquisto dei radar in Israele, “prevede indicazioni di sostenibilità ambientale” e “riguarda la sicurezza in termini di inclusione sociale, di lotta alla criminalità organizzata che sfrutta il lavoro nero a danno degli immigrati, ecc. e non in termini di priorità di tipo militare”. “Parlare di difesa nazionale per il monitoraggio degli sbarchi clandestini sembra incongruente”, affermano gli interroganti. “Chiediamo se non si ritenga di bloccare i fondi per la realizzazione di un’opera il cui affidamento è avvenuto in contrasto con la normativa europea che prevede un bando pubblico di gara per affrontare i problemi legati all’immigrazione secondo una logica inclusiva e non di difesa militare”.
“Possiamo rassicurare tutti che il nuovo impianto sarà realizzato all’esterno del comune di Siracusa”, hanno annunciato amministratori e fiamme gialle. Top secret il luogo dove risorgerà il traliccio radar. Negli ultimi mesi sono state fatte alcune ipotesi. L’Associazione degli industriali di Siracusa ha avuto l’ardire di proporre l’utilizzo di un camino od una torre nella zona industriale e del petrolchimico di Augusta-Priolo (una delle aree più inquinate di tutto il Mediterraneo), per poi scoprire che le emissioni elettromagnetiche del radar avrebbero potuto avere pericolose conseguenze per le strumentazioni di controllo degli impianti ospitati. Sempre la ministra Prestigiacomo si era detta disponibile ad offrire l’area della VED Vetroresina Engineering Development di Melilli (Sr), l’azienda di famiglia produttrice di tubi e cavi sottomarini. È probabile però, che alla fine il nuovo sensore della Guardia di finanza verrà installato in una delle tante aree sottoposte a servitù militare della fascia costiera sud-orientale compresa tra il Golfo d’Augusta, Pachino e Capo Passero.
“Piena soddisfazione” per l’avvio delle procedure di rimozione del radar è stata espressa da Alessandro Acquaviva, coordinatore del circolo SEL di Siracusa. “Tale risultato è il frutto di una lunga mobilitazione della cittadinanza, delle associazioni ambientaliste, di quelle forze politiche che hanno sostenuto sin dall’inizio la protesta dell’associazione Plemmiryon che si è sviluppata attraverso sit-in, presidi, volantinaggi e assemblee”. Secondo Acquaviva, “a condizionare la decisione di rimuovere è stato anche l’esito favorevole dei recenti ricorsi presentati dai comitati civici della Puglia e della Sardegna contro l’installazioni di radar nei rispettivi territori”.
L’associazione Plemmyrion di Siracusa aveva evidenziato in particolare la “sorprendente velocità” con cui gli enti preposti avevano consentito l’istallazione di “un mostro ad altissima frequenza con onde elettromagnetiche che attraverseranno tutto il territorio della Penisola Maddalena, di Ortigia, cuore della città di Siracusa, delle zone residenziali di Fanusa, Arenella e Ognina”. L’ex presidente Marcello Lo Iacono aveva rilevato che la SAI 8, consegnataria per la gestione del pubblico acquedotto di Siracusa, aveva autorizzato le fiamme gialle a costruire la stazione di rilevamento in un “luogo difforme alla convenzione del Comune che invece faceva riferimento all’impianto di sollevamento fognario di Capo Murro di Porco, distante 2 km. Il radar è stato realizzato non rispettando né l’area stabilita di 88 mq né le distanze dai confini riscontrabili sulla pianta del progetto”.
L’installazione è poi avvenuta senza che il progetto fosse sottoposto a valutazione dell’incidenza ambientale, come invece previsto dalla direttiva 92/43/CEE del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatiche. “Manca inoltre uno studio sull’impatto elettromagnetico”, aggiunge Lo Iacono. “L’amministrazione militare si è limitata a presentare una dichiarazione di conformità redatta dall’ingegnere Gianpaolo Macigno di Siracusa, consulente tecnico della società appaltatrice, che ha tratto delle conclusioni manifestamente insufficienti a comprovare la non pericolosità delle radiazioni emesse dal radar. Peraltro le asserite misurazioni sono state effettuate prima ancora che esso venisse attivato. Lo stesso consulente precisa che si tratta di mere simulazioni numeriche e che solo a radar attivo si potrà valutare la reale situazione e accertare la conformità ai parametri di legge”.
I dispositivi radar per la rete di rilevamento anti-migranti sono stati prodotti da Elta Systems, società interamente controllata dal colosso industriale militare ed aerospaziale israeliano IAI. Codificati come EL/M-2226 ACSR (Advanced Coastal Surveillance Radar), fanno parte della famiglia di trasmettitori in X-band (dagli 8 ai 12.5 GHz di frequenza), che operano emettendo un’onda continua sinusoidale (CW Continuous Wawe), di cui può variare sia la frequenza che l’ampiezza.
A rilevare la pericolosità e alcune incongruenze tecniche degli apparati è stato il professore Massimo Coraddu, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), dopo uno studio dettagliato delle analisi d’impatto elettromagnetico presentate dalla società Almaviva per gli impianti di Siracusa e Gagliano del Capo (Lecce). “Esistono notevoli incertezze riguardo all’esatta modalità di funzionamento del radar, dovute all’incompletezza delle analisi e a incoerenza con quanto riportato dal costruttore”, afferma Coraddu. “Gravi incongruenze si rilevano nella documentazione riguardo l’ampiezza verticale del fascio e il guadagno d’antenna. La mancata conoscenza del diagramma radiante dell’antenna e della sua esatta forma fisica, non consente una precisa valutazione numerica delle emissioni, né in condizioni di campo vicino, né nell’approssimazione di campo lontano”.
“ELTA Systems specifica che l’impianto consente la sorveglianza dello spazio marino antistante, che viene esplorato sistematicamente, individuando eventuali bersagli e risolvendoli con grande precisione spaziale e temporale”, aggiunge il fisico. “Tali caratteristiche sembrano in contrasto con quanto dichiarato nella relazione dell’ing. Macigno, dove la velocità di rotazione è considerata costante e dove l’angolo d’inclinazione del radar rispetto alla superficie del mare è posto pari a 0°. Per il fatto che quest’angolo sia fissato sull’orizzonte e tenendo conto che si trova ad un’altezza maggiore di 100 mt, si viene a creare una zona d’ombra che non permetterebbe d’ispezionare la porzione di superficie marina più vicina alla costa che, secondo la diversa altezza delle sorgenti, può variare dai 200 ai 2.300 metri di distanza dal radar”.
A Coraddu, poi, sembra poco probabile che il radar possa valutare direzione, velocità e numero di persone a bordo di una piccola imbarcazione a 20 Km di distanza, come invece assicura la società produttrice, “scansionando semplicemente a velocità di rotazione costante il tratto di mare antistante”. “È verosimile invece che la velocità sia costante solo in fase di sorveglianza, mentre nel momento in cui un bersaglio viene individuato, il dispositivo possa essere bloccato e il fascio puntato e mantenuto sul target per tutto il tempo necessario alla sua completa definizione. Per tutto questo tempo il bersaglio sarà irraggiato con continuità e questa durata è quindi fondamentale per determinare la dose assorbita. Questo caso, nella valutazione del possibile danno alle persone, deve essere individuato come peggior incidente possibile”.
Massimo Coraddu denuncia come le misurazioni dei campi elettromagnetici siano state effettuate utilizzando la sonda isotropa EP330, fabbricata dalla NARDA Srl, che registra campi sino alla frequenza massima di 3 GHz, mentre il radar è programmato per emettere a frequenze molto superiori. “Non si è tenuto conto di tutti i contributi alle emissioni, nonostante le normative prevedano che le valutazioni vadano effettuate con tutte le sorgenti in funzione alla massima potenza”, aggiunge Coraddu. “Le stazioni di sorveglianza prevedono anche un dispositivo di telecomunicazione, un ponte radio, per inviare i dati in tempo reale al centro di Comando, Controllo, Comunicazioni, Computing ed Informazioni C4I del Comparto aeronavale della Guardia di finanza. Le emissioni di questo sistema Tlc devono quindi essere valutate e sommate a quelle del radar vero e proprio. In entrambe le analisi di impatto elettromagnetico non si è tenuto conto in alcun modo del contributo del ponte radio per le telecomunicazioni”. Radar anti-migranti dall’insostenibile impatto elettromagnetico, dunque, pericolosissimi per la salute dell’uomo e per le specie vegetali e animali.
Ulteriori ombre sulla nuova rete di sorveglianza costiera della Guardia di finanza sono state paventate da alcuni parlamentari del Pd. Con un’interrogazione presentata lo scorso 7 marzo alla Camera, prima firmataria l’on. Elisabetta Zamparutti, si sottolinea come l’asse del PON 1 con cui la Comunità europea ha finanziato l’acquisto dei radar in Israele, “prevede indicazioni di sostenibilità ambientale” e “riguarda la sicurezza in termini di inclusione sociale, di lotta alla criminalità organizzata che sfrutta il lavoro nero a danno degli immigrati, ecc. e non in termini di priorità di tipo militare”. “Parlare di difesa nazionale per il monitoraggio degli sbarchi clandestini sembra incongruente”, affermano gli interroganti. “Chiediamo se non si ritenga di bloccare i fondi per la realizzazione di un’opera il cui affidamento è avvenuto in contrasto con la normativa europea che prevede un bando pubblico di gara per affrontare i problemi legati all’immigrazione secondo una logica inclusiva e non di difesa militare”.
In Africa centrale la prossima guerra di Obama
di Antonio Mazzeo
Dopo Afghanistan, Iraq, Pakistan, Yemen e Libia è l’ora dell’escalation militare USA in Africa centrale. Assassinato Osama bin laden, sconfitto Gheddafi, il nemico number one dell’amministrazione Obama è divenuto Joseph Kony, il capo supremo del Lord’s Resistance Army (Esercito del Signore), l’organizzazione di ribelli ugandesi che dalla seconda metà degli anni ’80 ad oggi si è macchiata di gravi crimini contro l’umanità, massacri, stupri e rapimenti di bambini e adolescenti. Con una lettera al Congresso, il presidente Barack Obama ha annunciato l’invio in Africa centrale di un “piccolo numero di militari equipaggiati per il combattimento” per “fornire assistenza alle forze armate locali impegnate a sconfiggere Joseph Kony. Si tratta, in una prima fase, di un team di “consiglieri” delle forze operative speciali USA, il cui numero dovrebbe crescere entro un mese a un centinaio tra militari e “civili”, compreso un “secondo gruppo equipaggiato al combattimento con personale esperto in intelligence, comunicazioni e logistica”. I militari hanno raggiunto l’Uganda, ma successivamente le forze armate statunitensi potrebbero estendere il loro raggio d’azione al Sudan meridionale, al Darfur, alla Repubblica Centroafricana e alla Repubblica Democratica del Congo. Il controllo della missione è stato affidato allo Special Operations Command - Africa, il comando per le operazioni speciali nel continente con sede a Stoccarda (Germania).
“Il personale USA fornirà informazioni e consulenza, ma non sarà impiegato per combattere”, scrive Obama. “Non entrerà in azione contro i miliziani del Lord’s Resistance Army se non perché costretto all’auto-difesa. Sono state prese tutte le precauzioni per assicurare la massima sicurezza al personale militare USA durante la sua missione”.
Il portavoce di USAFRICOM, il comando degli Stati Uniti per l’Africa, Vince Crawley, ha dichiarato di non sapere sino a quando sarà necessario disporre dei militari in Africa centrale, “tuttavia le nostre unità sono preparate per tutto il tempo che servirà a consentire alle forze armate della regione d’intervenire contro l’LRA in modo autonomo”. Per il Pentagono l’obiettivo a medio termine dell’intervento è la costituzione di una brigata mobile con un migliaio di uomini delle forze armate di Congo, Repubblica Centroafricana, Sudan ed Uganda, a cui l’Unione Africana affiderà i compiti di pattugliamento delle frontiere. Secondo quanto riferito alla BBC da una fonte diplomatica USA, il piano fa pure affidamento sull’intervento della Nigeria e del Sud Africa, “le due sole nazioni africane che hanno le adeguate capacità logistiche”. Per la BBC, anche se nei documenti ufficiali il riferimento è solo al Lord’s Resistance Army, è forte il sospetto che “questa brigata potrebbe intervenire in operazioni esterne contro i gruppi di al-Qaeda in Maghreb e coloro che stanno tormentando oggi le aree del Mali e della Mauritania”.
Nel dicembre 2008, gli eserciti di Uganda, Repubblica Democratica del Congo e Sudan lanciarono una violenta offensiva militare contro i miliziani dell’LRA (Operazione Linghting Thunder). Determinanti furono il supporto logistico, le armi e le apparecchiature “non letali”, per il valore di 23 milioni di dollari, forniti da Washington. Secondo i maggiori quotidiani USA, l’operazione fu pianificata direttamente dagli strateghi del Comando AFRICOM di Stoccarda (Germania). Diciassette consiglieri militari furono inviati in Uganda per lavorare a stretto contatto con gli ufficiali locali e fornire i dati d’intelligence e le riprese satellitari sugli accampamenti nel parco nazionale di Garamba in cui si nascondevano gli uomini di Joseph Kony. L’intervento contro l’LRA si rivelò tuttavia fallimentare e per certi versi pure controproducente: le milizie ribelli scampate ai bombardamenti si vendicarono contro la popolazione civile, massacrando più di 900 persone, in buona parte donne e bambini. L’Esercito del Signore si rifugiò in Darfur, Congo e Repubblica Centroafricana, paese quest’ultimo dove vivrebbe adesso Kony. Alcune organizzazione per i diritti umani con sede negli Stati Uniti affermano tuttavia che le forze ribelli non disporrebbero di più di 400 uomini, un dato che lascia apparire del tutto sovradimensionata ed ingiustificata la mobilitazione militare internazionale contro il “pericolo” LRA.
Secondo il Pentagono, personale militare USA è stato impiegato per lungo tempo nell’addestramento delle forze armate ugandesi in funzione anti-Kony. Washington ha fornito al paese africano aiuti militari per 33 milioni di dollari, principalmente apparecchiature di telecomunicazione e e camion per il trasporto truppe. Lo scorso anno, 550 uomini di US Army Africa, il Comando per le operazioni terrestri nel continente con base a Vicenza, hanno partecipato a Kitgum, nord Uganda (area di aperto conflitto contro l’LRA), ad una delle maggiori esercitazioni mai realizzate in Africa (Natural Fire 10), congiuntamente ai reparti armati di Kenya, Tanzania, Uganda, Rwanda e Burundi. Lo scorso mese d’aprile, ancora con il coordinamento di US Army Africa, il nord Uganda è stato sede di una vasta operazione di lancio paracadutisti, a cui hanno partecipato militari ugandesi, il 21st Special Troops Battalion dell’esercito USA con sede a Kaiserslautern (Germania) e la 197th Special Troops Company della Guardia Nazionale dell’Utah.
Dal 2003 gli statunitensi sono impegnati pure nell’addestramento delle ri-costituite forze armate del Congo, accusate da più parti (comprese alcune agenzie Onu) di efferate violenze contro la popolazione civile. Il Dipartimento di Stato, in particolare, ha finanziato una luna missione di “consiglieri” dell’US Special Operations Command - Africa, prima a Kisangani e successivamente nella regione meridionale del paese. Nello specifico, il team ha curato la formazione sul campo nelle attività di sminamento e distruzione di vecchie munizioni inesplose. Come recentemente annunciato dall’ambasciatore USA in Congo, un battaglione di fanteria leggera congolese, formato e addestrato da personale USA, ha raggiunto la città di Dungu, nel nord-est del paese, per “combattere contro le milizie del Lord’s Resistance Army”. Per creare da zero questo battaglione mobile, Washington ha speso circa 15 milioni di dollari, quasi un quarto dell’ammontare dei programmi di “riforma del settore difesa” destinati al Congo nel 2010. Intervenendo ad un seminario dell’ultraconservatore Center for Strategic and International Studies di Washington, il generale Ham, comandante AFRICOM, ha annunciato che le forze armate USA “accresceranno il proprio aiuto a favore delle forze armate del Congo e della Repubblica Centroafricana contro l’LRA”. “Se mi chiedete se nel mondo esiste oggi il diavolo, io rispondo che esiste nella persona di Joesph Kony e della sua organizzazione”, ha concluso Ham.
La guerra a “bassa intensità” contro l’Esercito del Signore venne lanciata dall’amministrazione USA dopo l’approvazione con voto unanime dei congressisti (primavera del 2009) del cosiddetto LRA Disarmament and Northern Uganda Recovery Act, che invocava il pugno duro per “chiudere definitivamente la lotta al gruppo ribelle di Joseph Kony”. Nel novembre 2010, il presidente Obama presentò al Congresso un piano per “smantellare” il Lord’s Resistance Army e catturare il suo leader. Quattro gli obiettivi chiave: “maggiore protezione dei civili; rimozione di Kony dal campo di battaglia; promozione degli sforzi per reintegrare nella società i restanti combattenti dell’LRA; potenziamento dell’intervento umanitario nella regione per assicurare una continua assistenza alle comunità vittime”. Il piano affidava gli interventi ai Dipartimenti di Stato e alla Difesa e a USAID, l’agenzia alla cooperazione e allo sviluppo degli Stati Uniti d’America.
L’intervento militare USA è stato richiesto alcuni mesi fa dai rappresentanti di quattro “organizzazioni non governative” (Resolve, Enough Project, Invisible Children e Citizens for Global Solutions). Con una lettera aperta al presidente Obama, le ONG lo hanno invitato “a dimostrare tutta la serietà possibile per porre fine alla violenza dell’LRA contro i civili”. “Anche se il supporto a favore dei militari dell’Uganda può sembrare a breve termine il modo migliore per arrestare gli anziani comandanti del Lord’s Resistance Army, è sempre più evidente che essi non sono in grado di farlo”, commentavano i portavoce delle organizzazioni. “La leadership USA ha pertanto l’urgente necessità di trovare alternative praticabili alla strategia odierna e al tipo di sostegno offerto”. Washington li ha prontamente accontentati inviando la special task force in Africa centrale. Alla prossima guerra, militari, ONG e contractor ci andranno piacevolmente insieme.
Dopo Afghanistan, Iraq, Pakistan, Yemen e Libia è l’ora dell’escalation militare USA in Africa centrale. Assassinato Osama bin laden, sconfitto Gheddafi, il nemico number one dell’amministrazione Obama è divenuto Joseph Kony, il capo supremo del Lord’s Resistance Army (Esercito del Signore), l’organizzazione di ribelli ugandesi che dalla seconda metà degli anni ’80 ad oggi si è macchiata di gravi crimini contro l’umanità, massacri, stupri e rapimenti di bambini e adolescenti. Con una lettera al Congresso, il presidente Barack Obama ha annunciato l’invio in Africa centrale di un “piccolo numero di militari equipaggiati per il combattimento” per “fornire assistenza alle forze armate locali impegnate a sconfiggere Joseph Kony. Si tratta, in una prima fase, di un team di “consiglieri” delle forze operative speciali USA, il cui numero dovrebbe crescere entro un mese a un centinaio tra militari e “civili”, compreso un “secondo gruppo equipaggiato al combattimento con personale esperto in intelligence, comunicazioni e logistica”. I militari hanno raggiunto l’Uganda, ma successivamente le forze armate statunitensi potrebbero estendere il loro raggio d’azione al Sudan meridionale, al Darfur, alla Repubblica Centroafricana e alla Repubblica Democratica del Congo. Il controllo della missione è stato affidato allo Special Operations Command - Africa, il comando per le operazioni speciali nel continente con sede a Stoccarda (Germania).
“Il personale USA fornirà informazioni e consulenza, ma non sarà impiegato per combattere”, scrive Obama. “Non entrerà in azione contro i miliziani del Lord’s Resistance Army se non perché costretto all’auto-difesa. Sono state prese tutte le precauzioni per assicurare la massima sicurezza al personale militare USA durante la sua missione”.
Il portavoce di USAFRICOM, il comando degli Stati Uniti per l’Africa, Vince Crawley, ha dichiarato di non sapere sino a quando sarà necessario disporre dei militari in Africa centrale, “tuttavia le nostre unità sono preparate per tutto il tempo che servirà a consentire alle forze armate della regione d’intervenire contro l’LRA in modo autonomo”. Per il Pentagono l’obiettivo a medio termine dell’intervento è la costituzione di una brigata mobile con un migliaio di uomini delle forze armate di Congo, Repubblica Centroafricana, Sudan ed Uganda, a cui l’Unione Africana affiderà i compiti di pattugliamento delle frontiere. Secondo quanto riferito alla BBC da una fonte diplomatica USA, il piano fa pure affidamento sull’intervento della Nigeria e del Sud Africa, “le due sole nazioni africane che hanno le adeguate capacità logistiche”. Per la BBC, anche se nei documenti ufficiali il riferimento è solo al Lord’s Resistance Army, è forte il sospetto che “questa brigata potrebbe intervenire in operazioni esterne contro i gruppi di al-Qaeda in Maghreb e coloro che stanno tormentando oggi le aree del Mali e della Mauritania”.
Nel dicembre 2008, gli eserciti di Uganda, Repubblica Democratica del Congo e Sudan lanciarono una violenta offensiva militare contro i miliziani dell’LRA (Operazione Linghting Thunder). Determinanti furono il supporto logistico, le armi e le apparecchiature “non letali”, per il valore di 23 milioni di dollari, forniti da Washington. Secondo i maggiori quotidiani USA, l’operazione fu pianificata direttamente dagli strateghi del Comando AFRICOM di Stoccarda (Germania). Diciassette consiglieri militari furono inviati in Uganda per lavorare a stretto contatto con gli ufficiali locali e fornire i dati d’intelligence e le riprese satellitari sugli accampamenti nel parco nazionale di Garamba in cui si nascondevano gli uomini di Joseph Kony. L’intervento contro l’LRA si rivelò tuttavia fallimentare e per certi versi pure controproducente: le milizie ribelli scampate ai bombardamenti si vendicarono contro la popolazione civile, massacrando più di 900 persone, in buona parte donne e bambini. L’Esercito del Signore si rifugiò in Darfur, Congo e Repubblica Centroafricana, paese quest’ultimo dove vivrebbe adesso Kony. Alcune organizzazione per i diritti umani con sede negli Stati Uniti affermano tuttavia che le forze ribelli non disporrebbero di più di 400 uomini, un dato che lascia apparire del tutto sovradimensionata ed ingiustificata la mobilitazione militare internazionale contro il “pericolo” LRA.
Secondo il Pentagono, personale militare USA è stato impiegato per lungo tempo nell’addestramento delle forze armate ugandesi in funzione anti-Kony. Washington ha fornito al paese africano aiuti militari per 33 milioni di dollari, principalmente apparecchiature di telecomunicazione e e camion per il trasporto truppe. Lo scorso anno, 550 uomini di US Army Africa, il Comando per le operazioni terrestri nel continente con base a Vicenza, hanno partecipato a Kitgum, nord Uganda (area di aperto conflitto contro l’LRA), ad una delle maggiori esercitazioni mai realizzate in Africa (Natural Fire 10), congiuntamente ai reparti armati di Kenya, Tanzania, Uganda, Rwanda e Burundi. Lo scorso mese d’aprile, ancora con il coordinamento di US Army Africa, il nord Uganda è stato sede di una vasta operazione di lancio paracadutisti, a cui hanno partecipato militari ugandesi, il 21st Special Troops Battalion dell’esercito USA con sede a Kaiserslautern (Germania) e la 197th Special Troops Company della Guardia Nazionale dell’Utah.
Dal 2003 gli statunitensi sono impegnati pure nell’addestramento delle ri-costituite forze armate del Congo, accusate da più parti (comprese alcune agenzie Onu) di efferate violenze contro la popolazione civile. Il Dipartimento di Stato, in particolare, ha finanziato una luna missione di “consiglieri” dell’US Special Operations Command - Africa, prima a Kisangani e successivamente nella regione meridionale del paese. Nello specifico, il team ha curato la formazione sul campo nelle attività di sminamento e distruzione di vecchie munizioni inesplose. Come recentemente annunciato dall’ambasciatore USA in Congo, un battaglione di fanteria leggera congolese, formato e addestrato da personale USA, ha raggiunto la città di Dungu, nel nord-est del paese, per “combattere contro le milizie del Lord’s Resistance Army”. Per creare da zero questo battaglione mobile, Washington ha speso circa 15 milioni di dollari, quasi un quarto dell’ammontare dei programmi di “riforma del settore difesa” destinati al Congo nel 2010. Intervenendo ad un seminario dell’ultraconservatore Center for Strategic and International Studies di Washington, il generale Ham, comandante AFRICOM, ha annunciato che le forze armate USA “accresceranno il proprio aiuto a favore delle forze armate del Congo e della Repubblica Centroafricana contro l’LRA”. “Se mi chiedete se nel mondo esiste oggi il diavolo, io rispondo che esiste nella persona di Joesph Kony e della sua organizzazione”, ha concluso Ham.
La guerra a “bassa intensità” contro l’Esercito del Signore venne lanciata dall’amministrazione USA dopo l’approvazione con voto unanime dei congressisti (primavera del 2009) del cosiddetto LRA Disarmament and Northern Uganda Recovery Act, che invocava il pugno duro per “chiudere definitivamente la lotta al gruppo ribelle di Joseph Kony”. Nel novembre 2010, il presidente Obama presentò al Congresso un piano per “smantellare” il Lord’s Resistance Army e catturare il suo leader. Quattro gli obiettivi chiave: “maggiore protezione dei civili; rimozione di Kony dal campo di battaglia; promozione degli sforzi per reintegrare nella società i restanti combattenti dell’LRA; potenziamento dell’intervento umanitario nella regione per assicurare una continua assistenza alle comunità vittime”. Il piano affidava gli interventi ai Dipartimenti di Stato e alla Difesa e a USAID, l’agenzia alla cooperazione e allo sviluppo degli Stati Uniti d’America.
L’intervento militare USA è stato richiesto alcuni mesi fa dai rappresentanti di quattro “organizzazioni non governative” (Resolve, Enough Project, Invisible Children e Citizens for Global Solutions). Con una lettera aperta al presidente Obama, le ONG lo hanno invitato “a dimostrare tutta la serietà possibile per porre fine alla violenza dell’LRA contro i civili”. “Anche se il supporto a favore dei militari dell’Uganda può sembrare a breve termine il modo migliore per arrestare gli anziani comandanti del Lord’s Resistance Army, è sempre più evidente che essi non sono in grado di farlo”, commentavano i portavoce delle organizzazioni. “La leadership USA ha pertanto l’urgente necessità di trovare alternative praticabili alla strategia odierna e al tipo di sostegno offerto”. Washington li ha prontamente accontentati inviando la special task force in Africa centrale. Alla prossima guerra, militari, ONG e contractor ci andranno piacevolmente insieme.
martedì 18 ottobre 2011
sabato 8 ottobre 2011
La Cgil con la coop "Lavoro e non solo"
La consegna della tessera Cgil a Calogero Parisi |
Giovedì 6 ottobre, a “Casa Caponnetto”, la Cgil ha incontrato i soci lavoratori della coop “Lavoro e non solo” per ribadire il suo convinto sostegno alla difficile battaglia per una gestione dei beni confiscati alla mafia capace di produrre lavoro e sviluppo. I soci della coop hanno deciso di aderire alla Flai, il sindacato dell’agro-industria della Cgil. Una scelta politica significativa, che suggella un rapporto di condivisione etico-politica che dura da anni. All’incontro erano presenti tutti i soci della cooperativa, con in testa il presidente Calogero Parisi; per la Cgil erano presenti Serena Sorrentino, segretaria nazionale con delega alla legalità e alla sicurezza; Dino Paternostro, segretario della Camera del lavoro di Corleone e responsabile del Dipartimento Legalità della Cgil di Palermo, Ferruccio Donato, segretario della Cgil Sicilia, Ennio Li Greci, segretario della Cgil Palermo, Totò Tripi, segretario generale della Flai-Cgil Sicilia, Nuccio Ribaudo, segretario generale della Flai-Cgil Palermo, Saverio Piccione, segretario generale dello Spi-Cgil Sicilia, e Pino Gagliano, segretario generale dello Spi-Cgil Palermo. GUARDA L'ALBUM FOTOGRAFICO
venerdì 7 ottobre 2011
Cidma (ovvero) Centro Inutilizzabile di Documentazione sulla Mafia e sul movimento Antimafia
Corleone, la sede del Cidma |
“Falcone e Borsellino non li ho conosciuti. Quando sono morti avevo 15 anni. Avevo sentito parlare di loro, ma nella spensieratezza – o nella pigrizia – della mia gioventù non mi ero mai presa la briga di andare a vedere chi fossero. Oggi questo è uno dei miei rimpianti. E forse, tra le altre cose, una delle ragioni per cui lavoro qui”. Marilena è una guida molto generosa. Accompagnandoci a visitare il Centro Internazionale di Documentazione sulle Mafie e Movimento Antimafia di Corleone non si risparmia. ” A volte mi dicono che mi arrabbio, mentre spiego ai visitatori le foto e i documenti che sono presenti al centro. Ma in qualche modo io c’entro con questo mondo, perché il mio bisnonno è stato una vittima della mafia, anche se questo non viene riconosciuto. Era una guardia campestre ed è stato ucciso da Luciano Liggio, quando questi era solo un ladro di galline. Lo ha ucciso praticamente sulla porta di casa, sotto gli occhi di moglie e figlio, e la mia bisnonna – siamo negli anni ’50, ricordiamolo – si è costituita parte civile nel processo. E questo perché ci viene sempre rimproverato di essere omertosi! Insieme a mio nonno, ha fatto i nomi, ha raccontato tutto. Non ha avuto paura di nulla. I giornali dell’epoca hanno parlato di lei come della ‘Vedova coraggio’. Ma gli avvocati gliel’avevo detto: ‘signora, può anche ritirare la denuncia perché tanto usciranno.’ E così è stato, con la classica formula dell’insufficienza di prove”.
Come nel caso della “Vedova coraggio”, il lavoro di Marilena consiste soprattutto nel distruggere stereotipi: “Molte persone arrivano qui pensando di sapere tutto sulla mafia o cercando i luoghi che hanno fatto da scenario al “Il Padrino” – si lamenta – ma il film non è neanche stato girato qui”. Le tappe verso la conoscenza sono scandite dalle foto di Letizia Battaglia e della figlia Shobha. Come nella “stanza dei messaggi”, dove le foto di Letizia ritraggono il codice mafioso delle esecuzioni: un morto lasciato a faccia in giù e con le mani in tasca significa che la vittima era una persona qualunque, non affiliata, che si era trovata a passare per caso e aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto; mentre una cassa da morto, povera e priva di decorazioni, lasciata accanto al cadavere, diceva che l’uomo era un infame di nessuna importanza.
Il centro, che è ospitato nell’ex orfanotrofio di San Ludovico, è composto da sole quattro sale: quella “dei messaggi”, quella “del dolore” con foto di Letizia e Shobha, quella dedicata al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che ospita foto donate dal giornalista Gery Palazzotto, e infine, quella più importante di tutte, la stanza “dei faldoni”, dove fanno bella mostra di sé tutti gli atti del maxi-processo. “Fanno bella mostra di sé” perché non sono consultabili, dal momento che non sono catalogati e inventariati. Unica eccezione, il faldone contenente le dichiarazioni di Buscetta, il più noto di tutti. Così accade che studiosi provenienti da tutta Europa, attratti dalla possibilità di studiare gli atti donati dalla camera Penale del Tribunale di Palermo, se ne debbano tornare a casa con un nulla di fatto.
In un undici anni – tanti sono gli anni di vita del Cidma – non si è stati neanche capaci di aprire una collaborazione con l’Università, che permettesse di catalogare il materiale e magari, perché no, anche di incrementarlo.
I problemi che attanagliano il centro sono essenzialmente di due tipi: economici, ma soprattutto politici. Al primo si è cercato di porre rimedio, introducendo nel 2008 un biglietto d’ingresso che copre parte delle spese di gestione. Al secondo, la rivalità che ha opposto per anni l’ex sindaco di Corleone, Nicolò Nicolosi, all’attuale, Nino Iannazzo, che in contrapposizione al Cidma ha inaugurato un “suo” Laboratorio della Legalità, non si è ancora trovato un rimedio. Una faida, tutta interna al centro-destra locale, che ha fatto dell’antimafia un motivo di scontro fra potentati, paralizzando l’attività del centro e rischiando di portarlo alla chiusura.
Di tutto questo Massimiliana Fontana, unica referente per il centro, non vuole parlare. Dopo aver lanciato nel maggio scorso una denuncia pubblica, ora è convinta che ci si avvii verso una soluzione. Per questo non vuole turbare possibili equilibri.
Parla, invece e volentieri, del cambiamento culturale che si è avuto a Corleone dalla cattura di Provenzano in poi. Non tanto perché, catturato il boss, la gente poteva permettersi di non avere più paura – ci tiene a precisare – ma perché l’essere additati sempre come il paese della mafia ha suscitato, secondo lei, un moto di rigetto e uno scatto di ribellione.
C’è molto orgoglio ferito nelle sue parole: “Incontrare tutti i giorni persone che arrivano da ogni parte del mondo con una certa idea e, nel nostro piccolo, riuscire a smontargliela, è una grossa soddisfazione”, racconta. Ma un centro studi sulla mafia e il movimento antimafia non dovrebbe fare molto di più che spazzare via qualche luogo comune e restituire l’onore a un paese che si sente offeso?
Pubblicato da: Narcomafie, ottobre 2011
Attacco all'euro, attacco all'Europa
di Agostino Spataro
La crisi c’è ed è grave. Nessuno può negarla. Le cause sono molteplici e di natura complessa, interne e internazionali. In questo secondo dopoguerra, si sono verificate crisi, anche gravi. Tuttavia, mai era successo, come oggi accade, che a decretarle, a pilotarle e a pretendere di risolverle debbano essere tre agenzie private straniere (quasi tutte Usa) i cui soci hanno da difendere corposi interessi societari, per altro concorrenti con altri dei paesi sottoposti al vaglio delle loro analisi. Su questo punto non mi dilungo e rimando ai due articoli (allegati) scritti dal giornalista indipendente Alberto Puliafito (che ho travato sul web) che ci danno un’idea circa la proprietà delle famose “società di rating”, dei loro compiti e comportamenti (non sempre lineari), dei loro rapporti con il “dio-mercato”, con le varie consorterie finanziarie, con i singoli Stati e forze politiche più o meno influenti. Non c’è bisogno di essere esperti d’alta finanza per cogliere il valore destabilizzante di questi ben dosati e tempestivi verdetti emanati dalle “agenzie di rating”, a carico di questo o quell’altro Stato. Se ci fate caso, la loro scure si è abbattuta soprattutto contro i Paesi dell' eurozona più esposti ai contraccolpi della crisi, nell’ordine: Grecia, Portogallo, Spagna e ora Italia. Sappiamo che in questi paesi i problemi esistono (e come?). Tuttavia, la triade (che detiene il monopolio del rating) sembra avere preso di mira gli anelli più deboli della catena dell’euro, per indebolirlo, per smantellare lo stato sociale e deprimere i consumi di massa e acuire la conflittualità interna, ecc, ecc. Insomma, una miscela davvero esplosiva che può mettere a dura prova il processo di costruzione unitaria dell’Europa e la stabilità politica dei singoli Stati. Speriamo di sbagliare, ma l’impressione che se ne trae è quella di un attacco all’euro come appetibile moneta di scambio che tanti problemi sta creando al re-dollaro che galleggia in un mare di debito pubblico interno e di deficit commerciali e attraversato da pesanti incursioni finanziarie di governi stranieri (specie cinese e saudita). E’ chiaro che questi Paesi comprando il debito comprano quote di sovranità degli Usa ossia della prima potenza economica e militare del Pianeta. Perciò, oltreatlantico non hanno gradito il varo dell’euro e il conseguente rafforzamento ed allargamento del processo di unità europea. Un’Europa unita, con una moneta forte ed apprezzata sul piano internazionale, non è nei programmi delle oligarchie dominanti statunitensi. D’altra parte, quei governi che desideravano vendere il loro petrolio non più in dollari hanno dovuto subire l’aperta ostilità degli apparati di potere Usa, le rivoluzioni arancione e, in alcuni casi, perfino l’aggressione militare. La Casa Bianca li ha bollati come “Stati canaglia”, “paesi dell’impero del male”, inserendoli in liste di proscrizione nelle quali figurano soltanto le dittature ostili e non le dittature amiche, munifiche e anche un po’ servili. Perciò, è necessario attaccare l’euro, indebolirlo. Se così fosse davvero, sarebbe un attacco all’Unione europea, al suo progetto di crescita autonoma, al suo importante ruolo, economico e politico, nello scacchiere internazionale. Senza più l’euro, l’Unione non ha futuro, rischia la divisione, la dissoluzione e di nuovo la subordinazione all’impero americano che, prima o poi, dovrà affrontare il confronto diretto con la Cina e con altre nuove potenze regionali. Certo, questa è solo un’ipotesi da verificare, tuttavia va presa in considerazione anche per smentirla, con dati e argomenti convincenti. Purtroppo, di queste cose in Italia e in Europa quasi non si parla. Tacciono i grandi giornali, i grandi media, i grandi partiti, i grandi sindacati, i grandi… Tutti grandi, tutti muti! Ma che succede? Perché nessuno di questi soggetti informa la gente di come stanno realmente le cose? Possibilmente usando la lingua ufficiale dello Stato cioè l’italiano e non questa miscellanea di termini tecnici inglesi frutto di un provincialismo utilitaristico al servizio del manovratore. Perché, invece di andare in giro con il “pizzino” delle nuove privatizzazioni (leggi svendita di quel che resta del patrimonio pubblico del popolo italiano) i grandi leader di governo e dell’opposizione non spiegano ai cittadini le cause vere, strutturali della crisi italiana e la loro mancanza d’idee e di progetti per superarla?Certo, si deve tener conto dei verdetti delle società di rating e/o degli andamenti, talvolta bizzarri, dei mercati borsistici. Tuttavia, le dimissioni o il varo del governo, le elezioni anticipate non possono deciderle le società di rating straniere e nemmeno gli operatori di borsa. In Italia, la politica e le scelte si fanno alla luce del sole, nel Parlamento e nelle altre istituzioni repubblicane, sulla base del confronto democratico fra le forze in campo portatrici di proposte alternative. Oppure, in fasi eccezionali come l’attuale, con soluzioni politiche e programmatiche che esaltano la coesione e la responsabilità nazionali, come chiede di fare il presidente Napolitano.
Agostino Spataro
6 ottobre 2011
La crisi c’è ed è grave. Nessuno può negarla. Le cause sono molteplici e di natura complessa, interne e internazionali. In questo secondo dopoguerra, si sono verificate crisi, anche gravi. Tuttavia, mai era successo, come oggi accade, che a decretarle, a pilotarle e a pretendere di risolverle debbano essere tre agenzie private straniere (quasi tutte Usa) i cui soci hanno da difendere corposi interessi societari, per altro concorrenti con altri dei paesi sottoposti al vaglio delle loro analisi. Su questo punto non mi dilungo e rimando ai due articoli (allegati) scritti dal giornalista indipendente Alberto Puliafito (che ho travato sul web) che ci danno un’idea circa la proprietà delle famose “società di rating”, dei loro compiti e comportamenti (non sempre lineari), dei loro rapporti con il “dio-mercato”, con le varie consorterie finanziarie, con i singoli Stati e forze politiche più o meno influenti. Non c’è bisogno di essere esperti d’alta finanza per cogliere il valore destabilizzante di questi ben dosati e tempestivi verdetti emanati dalle “agenzie di rating”, a carico di questo o quell’altro Stato. Se ci fate caso, la loro scure si è abbattuta soprattutto contro i Paesi dell' eurozona più esposti ai contraccolpi della crisi, nell’ordine: Grecia, Portogallo, Spagna e ora Italia. Sappiamo che in questi paesi i problemi esistono (e come?). Tuttavia, la triade (che detiene il monopolio del rating) sembra avere preso di mira gli anelli più deboli della catena dell’euro, per indebolirlo, per smantellare lo stato sociale e deprimere i consumi di massa e acuire la conflittualità interna, ecc, ecc. Insomma, una miscela davvero esplosiva che può mettere a dura prova il processo di costruzione unitaria dell’Europa e la stabilità politica dei singoli Stati. Speriamo di sbagliare, ma l’impressione che se ne trae è quella di un attacco all’euro come appetibile moneta di scambio che tanti problemi sta creando al re-dollaro che galleggia in un mare di debito pubblico interno e di deficit commerciali e attraversato da pesanti incursioni finanziarie di governi stranieri (specie cinese e saudita). E’ chiaro che questi Paesi comprando il debito comprano quote di sovranità degli Usa ossia della prima potenza economica e militare del Pianeta. Perciò, oltreatlantico non hanno gradito il varo dell’euro e il conseguente rafforzamento ed allargamento del processo di unità europea. Un’Europa unita, con una moneta forte ed apprezzata sul piano internazionale, non è nei programmi delle oligarchie dominanti statunitensi. D’altra parte, quei governi che desideravano vendere il loro petrolio non più in dollari hanno dovuto subire l’aperta ostilità degli apparati di potere Usa, le rivoluzioni arancione e, in alcuni casi, perfino l’aggressione militare. La Casa Bianca li ha bollati come “Stati canaglia”, “paesi dell’impero del male”, inserendoli in liste di proscrizione nelle quali figurano soltanto le dittature ostili e non le dittature amiche, munifiche e anche un po’ servili. Perciò, è necessario attaccare l’euro, indebolirlo. Se così fosse davvero, sarebbe un attacco all’Unione europea, al suo progetto di crescita autonoma, al suo importante ruolo, economico e politico, nello scacchiere internazionale. Senza più l’euro, l’Unione non ha futuro, rischia la divisione, la dissoluzione e di nuovo la subordinazione all’impero americano che, prima o poi, dovrà affrontare il confronto diretto con la Cina e con altre nuove potenze regionali. Certo, questa è solo un’ipotesi da verificare, tuttavia va presa in considerazione anche per smentirla, con dati e argomenti convincenti. Purtroppo, di queste cose in Italia e in Europa quasi non si parla. Tacciono i grandi giornali, i grandi media, i grandi partiti, i grandi sindacati, i grandi… Tutti grandi, tutti muti! Ma che succede? Perché nessuno di questi soggetti informa la gente di come stanno realmente le cose? Possibilmente usando la lingua ufficiale dello Stato cioè l’italiano e non questa miscellanea di termini tecnici inglesi frutto di un provincialismo utilitaristico al servizio del manovratore. Perché, invece di andare in giro con il “pizzino” delle nuove privatizzazioni (leggi svendita di quel che resta del patrimonio pubblico del popolo italiano) i grandi leader di governo e dell’opposizione non spiegano ai cittadini le cause vere, strutturali della crisi italiana e la loro mancanza d’idee e di progetti per superarla?Certo, si deve tener conto dei verdetti delle società di rating e/o degli andamenti, talvolta bizzarri, dei mercati borsistici. Tuttavia, le dimissioni o il varo del governo, le elezioni anticipate non possono deciderle le società di rating straniere e nemmeno gli operatori di borsa. In Italia, la politica e le scelte si fanno alla luce del sole, nel Parlamento e nelle altre istituzioni repubblicane, sulla base del confronto democratico fra le forze in campo portatrici di proposte alternative. Oppure, in fasi eccezionali come l’attuale, con soluzioni politiche e programmatiche che esaltano la coesione e la responsabilità nazionali, come chiede di fare il presidente Napolitano.
Agostino Spataro
6 ottobre 2011
giovedì 6 ottobre 2011
Corleone, 11° edizione del Rally "Conca d'Oro": si correrà il 28-29 ottobre
Il norvegese Mikkelsen con la Skoda ufficiale |
Aperte le iscrizioni alla gara che si correrà il 28 e 29 ottobre – Oltre al giovane norvegese ancora in lizza le Peugeot 207 di Batistini, Trentin ed Aghini – Da assegnare anche il titolo del Gruppo N tra Ricci ed il finlandese Arminen – Verifiche, partenza ed arrivo a Corleone
Corleone (Palermo), 3 ottobre – Sarà il il classicissimo Rally Conca d’Oro, giunto alla 31a edizione ed unica gara su sterrato di tutto il Sud, ad assegnare il titolo italiano dedicato ai rallisti “terraioli”. Il prossimo 28 e 29 ottobre, infatti, sugli sterrati del corleonese si concluderà il Trofeo Rally Terra, che dopo la quinta delle sei gare in programma vede al comando la Skoda Fabia S2000 “ufficiale” dei norvegesi Andreas Mikkelsen e Ola Floene, tallonata dalle Peugeot 207 S2000 degli italiani Batistini, Trentin, vincitore del Conca d’Oro 2010, ed Andrea Aghini. Il coefficiente di validità 1,5 consente ancora alla pattuglia tricolore di puntare al titolo. Mikkelsen ha vinto sabato in Friuli la penultima prova del TRT e questo week-end sarà impegnato nel Rally of Scotland, valido per l’IRC, campionato nel quale si trova al sesto posto con la Fabia del Team Skoda UK.
Il Rally Conca d’Oro-Trofeo Franco Vintaloro, indetto dall’A.C. Palermo ed organizzato dal Comune di Corleone e da A.C. Servizi sarà anche decisivo per i titoli CSAI per le vetture del Gruppo N/4 ruote motrici e per il Gruppo N/2 ruote motrici. Per il primo il ballottaggio è tra le Subaru di Ricci e del finlandese Teemu Arminen, secondo a Corleone lo scorso anno, e la Mitsubishi Lancer del sanmarinese Loris Baldacci, mentre nel secondo Gruppo è in testa la Renault Clio di Guerra davanti alla Peugeot 206 di Beschi.
“E’ dal lontano 1985 quando vinse la Citroen del campione europeo Verini, che sulle strade del Conca d’Oro non si cimentava una squadra ufficiale – ha dichiarato il Sindaco di Corleone, Antonino Iannazzo – e ciò vuol dire che questa è la strada giusta per assicurare al pubblico siciliano una gara spettacolare e di prestigio”.
Il rally quest’anno sarà anche valido per lo Challenge di Zona (coeff.2) e per la prima volta ospiterà le Autostoriche.
A questo primo gruppo di probabili presenti – le iscrizioni si sono aperte il 27 settembre e si chiuderanno il 22 ottobre – si dovrebbero aggiungere i locali Cutrera, vincitore nel 2009, Franco Vintaloro Junior, Renato Di Miceli, vincitore nella gara di casa nel 1993 e nel 2003, ed Antonio Di Lorenzo, il madonita Gabriele Mogavero e Matteo Di Sclafani (Subaru). “Radiorally” rilancia anche la notizia di una probabile presenza di Alfonso Di Benedetto e Totò Riolo con la Peugeot 207 con la quale si sono aggiudicati il Fabaria Rally.
Così come lo scorso anno il percorso di gara sarà imperniato su tre Prove Speciali diverse da ripetersi tre volte, la Pietralonga (8,4 km), la Rocche di Rao (9,1 km) e l’impegnativa “Lucia” di ben 16,00 chilometri, una prova bellissima tra le vallate ed i boschi del corleonese. Complessivamente il tracciato di gara, molto raccolto, misura 331 km, 100,5 dei quali costituiti dalle 9 Prove Speciali. Tre i Parchi Assistenza, che saranno ospitati nella Zona Artigianale di Corleone.
Il 31° Rally Conca d’Oro-Trofeo Franco Vintaloro scatterà venerdì 28 ottobre alle 20,00 da piazza Falcone e Borsellino a Corleone, mentre le 9 P.S. si svolgeranno tutte alla luce diurna sabato 29 ottobre. La conclusione è prevista per le ore 18 dinanzi la Villa Comunale di Corleone.
Le verifiche sportive avranno luogo giovedì 27 (18-19,30) e venerdì 28 (9-13), e subito dopo, alle 14,30, avrà inizio su tre km della P.S. Casale lo Shakedown, ovvero il test regolamentato con le vetture in assetto da gara.
La cartina del percorso, gli orari della gara e tutte le altre informazioni sono già in rete sul sito www.rallyconcadoro.com.
Le classifiche del TRT: Assoluta Conduttori: 1. Mikkelsen 87.5 2. Batistini 72; 3. Trentin 60; 4. Aghini 58; 5. Ricci 41. Costruttori: 1. Peugeot 107; 2. Skoda 87,5; Ford 66. CSAI Gruppo N 4 RM: 1. Ricci punti 88; 2. Arminen 66; Baldacci 58; 3. Cappella 47,5.
Sergio Mavaro
martedì 4 ottobre 2011
Nella zona del Corleonese stretta contro i furti. I carabinieri denunciano 8 persone durante il week-end
Stretta contro il fenomeno dei furti e di tutti gli altri reati contro il patrimonio da parte dei Carabinieri della Compagnia di Corleone che hanno intensificato negli ultimi giorni i servizi di controllo del territorio a fine di prevenire e reprimere questi reati.
A BISACQUINO i Carabinieri della locale Stazione venerdì hanno fermato e denunciato 7 minorenni per furto. I militari dell’Arma che erano impegnati in servizio di controllo del territorio sono stati avvisati da un venditore ambulante, vittima di un furto di diversi oggetti esposti in vendita in quanto titolare di una bancarella posizionata nel centro della cittadina in occasione della fiera di San Michele. I Carabinieri, avuta una sommaria descrizione degli autori del furto, hanno immediatamente avviato le ricerche riuscendo a fermare 4 giovani a Bisacquino e altri 3, che ne frattempo avevano cercato di scappare, sulla SP4 tra Corleone e Roccamena. Le perquisizioni effettuate permettevano inoltre di rinvenire l’intera refurtiva e in più due di loro venivano trovati in possesso di altrettanti coltelli di tipo vietato. I giovani, tutti incensurati, condotti presso la Stazione Carabinieri di Bisacquino sono stati tutti denunciati, alla Procura per i Minorenni per furto e per i due possessori di coltello è scattata anche la denuncia per porto abusivo di arma da taglio. La refurtiva, che comunque era di modestissimo valore, è stata restituita al venditore ambulante.
A CONTESSA ENTELLINA, domenica sera i Carabinieri della locale Stazione hanno invece deferito a piede libero per furto Z.A. 35enne di Poro Empedocle. L’uomo aveva rubato la stessa mattina un’autovettura Renault Clio a Porto Empedocle e si era dileguato. Arrivato all’altezza dello svincolo di Contessa Entellina dello scorrimento veloce Palermo Sciacca, forse per un guasto, aveva abbandonato l’auto e si era dato alla fuga attraverso le campagna. I Carabinieri di Contessa Entellina, notata l’autovettura parcheggiata in malo modo sul ciglio della strada hanno svolto i primi accertamenti e avendo verificato che l’auto era stata oggetto di furto, unitamente ai rinforzi giunti dalla Compagnia di Corleone, hanno immediatamente cominciato le ricerche dell’uomo. Z.A. veniva trovato e fermato all’altezza dello svincolo di Poggioreale e quindi denunciato alla Procura della Repubblica di Termini Imerese per furto di autovettura. La Renault Clio è stata invece restituita al legittimo proprietario.
Palermo, 04 ottobre 2011
A BISACQUINO i Carabinieri della locale Stazione venerdì hanno fermato e denunciato 7 minorenni per furto. I militari dell’Arma che erano impegnati in servizio di controllo del territorio sono stati avvisati da un venditore ambulante, vittima di un furto di diversi oggetti esposti in vendita in quanto titolare di una bancarella posizionata nel centro della cittadina in occasione della fiera di San Michele. I Carabinieri, avuta una sommaria descrizione degli autori del furto, hanno immediatamente avviato le ricerche riuscendo a fermare 4 giovani a Bisacquino e altri 3, che ne frattempo avevano cercato di scappare, sulla SP4 tra Corleone e Roccamena. Le perquisizioni effettuate permettevano inoltre di rinvenire l’intera refurtiva e in più due di loro venivano trovati in possesso di altrettanti coltelli di tipo vietato. I giovani, tutti incensurati, condotti presso la Stazione Carabinieri di Bisacquino sono stati tutti denunciati, alla Procura per i Minorenni per furto e per i due possessori di coltello è scattata anche la denuncia per porto abusivo di arma da taglio. La refurtiva, che comunque era di modestissimo valore, è stata restituita al venditore ambulante.
A CONTESSA ENTELLINA, domenica sera i Carabinieri della locale Stazione hanno invece deferito a piede libero per furto Z.A. 35enne di Poro Empedocle. L’uomo aveva rubato la stessa mattina un’autovettura Renault Clio a Porto Empedocle e si era dileguato. Arrivato all’altezza dello svincolo di Contessa Entellina dello scorrimento veloce Palermo Sciacca, forse per un guasto, aveva abbandonato l’auto e si era dato alla fuga attraverso le campagna. I Carabinieri di Contessa Entellina, notata l’autovettura parcheggiata in malo modo sul ciglio della strada hanno svolto i primi accertamenti e avendo verificato che l’auto era stata oggetto di furto, unitamente ai rinforzi giunti dalla Compagnia di Corleone, hanno immediatamente cominciato le ricerche dell’uomo. Z.A. veniva trovato e fermato all’altezza dello svincolo di Poggioreale e quindi denunciato alla Procura della Repubblica di Termini Imerese per furto di autovettura. La Renault Clio è stata invece restituita al legittimo proprietario.
Palermo, 04 ottobre 2011