"La terza guerra mondiale è scoppiata" diceva il subcomandante Marcos nel '94 , dal Chiapas, in Messico, quando portava avanti la sua guerra di resistenza contro un capitalismo devastante che seminava vittime in ogni parte del mondo suscitando guerre in ampie regioni nei paesi del terzo mondo. Questa "guerra"non è finita altrove e in più ha raggiunto anche i paesi occidentali, i paesi ricchi che si credevano al riparo, e che si sono arricchiti sulle spalle di paesi non casualmente poveri ma impoveriti, invece, da ben precise politiche mondiali. Politiche che hanno causato più morti delle due guerre mondiali messe assieme, in questi decenni che noi occidentali riteniamo di cosiddetta pace. Oggi anche i nostri giovani (ma non solo loro) sempre più acquistano consapevolezza che la "guerra" si avvicina e che anche il loro futuro è reso incerto da una economia cinica e devastante che colpisce anche i paesi più sviluppati. Alla manifestazione del 15 ottobre, a cui ho partecipato assieme ad altri circa 150.000 mila "indignati," era proprio contro questa politica che si voleva sottolineare il più aperto dissenso. Ma si sono manifestati due modi completamente diversi di fronteggiare questa "guerra". Uno, quello della maggioranza dei manifestanti: non violento, variegato, ma non per questo meno incazzato e determinato a cambiare un assetto politico che uccide, alla lettera, in paesi lontani dai nostri occhi, e che da noi "uccide" il futuro di migliaia di purtroppo ex lavoratori e le prospettive di chi non è ancora entrato nel mondo del lavoro e non sa nemmeno se vi entrerà mai. L'altro modo, minoritario ma comunque molto corposo e organizzato, che ha esplicitamente manifestato il proprio no a questo stato di cose scegliendo la via della devastazione e del conflitto aperto.
Queste due rappresentazioni di una giusta reazione ad un liberismo esasperato e violento sono state evidenziate, in modo plastico e drammaticamente reale, nella maxi manifestazione del 15 ottobre, creando una profonda ma speriamo non incolmabile spaccatura tra due modalità, diversissime, di fronteggiare uno stesso problema. Nelle riunioni preparatorie antecedenti la partenza si era tutti d'accordo sulla gravità della crisi, sulla necessità di reagire, ma non si è saputa trovare una sintesi condivisa su quali dovessero essere le forme di questa reazione. Ci chiediamo per quale motivo non si è trovata una intesa prima che si verificasse questa spaccatura che, naturalmente, non giova affatto alla causa comune. Forse nessuno dei due gruppi contrapposti ha saputo rappresentare le aspettative di un popolo di "indignati" che cerca un modo per uscire dalla crisi e costruire un percorso "altro" nella politica e nell'economia. E' facile ora lanciare anatemi dall'una e dall'altra parte, ma le recriminazioni, le accuse reciproche, anche le delazioni, non fanno che indebolire un fronte che deve invece restare unito contro la crisi. Occorre allora riaprire il dialogo interrotto dopo la manifestazione, cercare di applicare il difficile metodo della democrazia partecipativa che tenga conto delle differenze senza penalizzare le minoranze, recuperare con determinazione un possibile consenso. Solo così sarà forse possibile costruire un blocco sociale forte, una massa critica consistente, pena il ridursi a una moltitudine di gruppi sempre più autoreferenzial, e incapaci di produrre un cambiamento invece così necessario. Con questa breve riflessione voglio lanciare un appello a tutti gli "indignati" appartenenti ai centri sociali o ad altri gruppi organizzati perché si riprenda il dialogo, ci si riappropri di una logica inclusiva, non esclusiva, si rafforzi la volontà di costruire un fronte unico, sia pure diversificato da mille espressioni. Per evitare sterili battibecchi su teoremi ideologici è necessario che partiamo dalle concrete lotte sociali di ogni giorno, la lotta per il diritto alla casa, allo studio, al lavoro, alla cittadinanza, alla diversità, alla libera circolazione delle genti e non solo delle merci. Solo sul terreno della pratica quotidiana potremo forse recuperare il dialogo interrotto. A questo tipo di politica vorrei si accostassero i giovani e anche i giovanissimi, come mio figlio. Che da una manifestazione che poteva essere grandiosa e che si è invece dispersa in mille rivoli scompaginati, potessero trarre l'energia, la "carica" necessaria a non sentirsi soli, a sentirsi invece tanti, compatti, per affrontare la vita, giorno dopo giorno, credendo che un mondo migliore di questo sia possibile.
Nino Rocca
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