Corleone, la sede del Cidma |
“Falcone e Borsellino non li ho conosciuti. Quando sono morti avevo 15 anni. Avevo sentito parlare di loro, ma nella spensieratezza – o nella pigrizia – della mia gioventù non mi ero mai presa la briga di andare a vedere chi fossero. Oggi questo è uno dei miei rimpianti. E forse, tra le altre cose, una delle ragioni per cui lavoro qui”. Marilena è una guida molto generosa. Accompagnandoci a visitare il Centro Internazionale di Documentazione sulle Mafie e Movimento Antimafia di Corleone non si risparmia. ” A volte mi dicono che mi arrabbio, mentre spiego ai visitatori le foto e i documenti che sono presenti al centro. Ma in qualche modo io c’entro con questo mondo, perché il mio bisnonno è stato una vittima della mafia, anche se questo non viene riconosciuto. Era una guardia campestre ed è stato ucciso da Luciano Liggio, quando questi era solo un ladro di galline. Lo ha ucciso praticamente sulla porta di casa, sotto gli occhi di moglie e figlio, e la mia bisnonna – siamo negli anni ’50, ricordiamolo – si è costituita parte civile nel processo. E questo perché ci viene sempre rimproverato di essere omertosi! Insieme a mio nonno, ha fatto i nomi, ha raccontato tutto. Non ha avuto paura di nulla. I giornali dell’epoca hanno parlato di lei come della ‘Vedova coraggio’. Ma gli avvocati gliel’avevo detto: ‘signora, può anche ritirare la denuncia perché tanto usciranno.’ E così è stato, con la classica formula dell’insufficienza di prove”.
Come nel caso della “Vedova coraggio”, il lavoro di Marilena consiste soprattutto nel distruggere stereotipi: “Molte persone arrivano qui pensando di sapere tutto sulla mafia o cercando i luoghi che hanno fatto da scenario al “Il Padrino” – si lamenta – ma il film non è neanche stato girato qui”. Le tappe verso la conoscenza sono scandite dalle foto di Letizia Battaglia e della figlia Shobha. Come nella “stanza dei messaggi”, dove le foto di Letizia ritraggono il codice mafioso delle esecuzioni: un morto lasciato a faccia in giù e con le mani in tasca significa che la vittima era una persona qualunque, non affiliata, che si era trovata a passare per caso e aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto; mentre una cassa da morto, povera e priva di decorazioni, lasciata accanto al cadavere, diceva che l’uomo era un infame di nessuna importanza.
Il centro, che è ospitato nell’ex orfanotrofio di San Ludovico, è composto da sole quattro sale: quella “dei messaggi”, quella “del dolore” con foto di Letizia e Shobha, quella dedicata al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che ospita foto donate dal giornalista Gery Palazzotto, e infine, quella più importante di tutte, la stanza “dei faldoni”, dove fanno bella mostra di sé tutti gli atti del maxi-processo. “Fanno bella mostra di sé” perché non sono consultabili, dal momento che non sono catalogati e inventariati. Unica eccezione, il faldone contenente le dichiarazioni di Buscetta, il più noto di tutti. Così accade che studiosi provenienti da tutta Europa, attratti dalla possibilità di studiare gli atti donati dalla camera Penale del Tribunale di Palermo, se ne debbano tornare a casa con un nulla di fatto.
In un undici anni – tanti sono gli anni di vita del Cidma – non si è stati neanche capaci di aprire una collaborazione con l’Università, che permettesse di catalogare il materiale e magari, perché no, anche di incrementarlo.
I problemi che attanagliano il centro sono essenzialmente di due tipi: economici, ma soprattutto politici. Al primo si è cercato di porre rimedio, introducendo nel 2008 un biglietto d’ingresso che copre parte delle spese di gestione. Al secondo, la rivalità che ha opposto per anni l’ex sindaco di Corleone, Nicolò Nicolosi, all’attuale, Nino Iannazzo, che in contrapposizione al Cidma ha inaugurato un “suo” Laboratorio della Legalità, non si è ancora trovato un rimedio. Una faida, tutta interna al centro-destra locale, che ha fatto dell’antimafia un motivo di scontro fra potentati, paralizzando l’attività del centro e rischiando di portarlo alla chiusura.
Di tutto questo Massimiliana Fontana, unica referente per il centro, non vuole parlare. Dopo aver lanciato nel maggio scorso una denuncia pubblica, ora è convinta che ci si avvii verso una soluzione. Per questo non vuole turbare possibili equilibri.
Parla, invece e volentieri, del cambiamento culturale che si è avuto a Corleone dalla cattura di Provenzano in poi. Non tanto perché, catturato il boss, la gente poteva permettersi di non avere più paura – ci tiene a precisare – ma perché l’essere additati sempre come il paese della mafia ha suscitato, secondo lei, un moto di rigetto e uno scatto di ribellione.
C’è molto orgoglio ferito nelle sue parole: “Incontrare tutti i giorni persone che arrivano da ogni parte del mondo con una certa idea e, nel nostro piccolo, riuscire a smontargliela, è una grossa soddisfazione”, racconta. Ma un centro studi sulla mafia e il movimento antimafia non dovrebbe fare molto di più che spazzare via qualche luogo comune e restituire l’onore a un paese che si sente offeso?
Pubblicato da: Narcomafie, ottobre 2011
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