giovedì 8 aprile 2010

I segreti di Stato di Ciancimino jr.

FRANCESCO LA LICATA
Così è nato il libro "Don Vito", che ripercorre i misteri d'Italia
ROMA - Quando Vito Ciancimino morì, ucciso non si sa da quale malessere, era il novembre del 2002 e stava dedicando gran parte del suo tempo alla ricostruzione della sua scandalosa vita. Daquando era uscito dal carcere, cioè da due anni, metteva ordine nella gran mole di carte, appunti, memoriali, vecchi documenti che avrebbero costituito le «pezze d’appoggio» per la realizzazione di un libro che aveva intenzione di scrivere con l’aiuto del figlio Massimo. Era un chiodo fisso, per don Vito, il ricorso alla scrittura. Già qualche anno prima aveva messo insieme un «malloppo » enorme che, nelle sue intenzioni, doveva costituire una meticolosa e pignola autodifesa rispetto alle accuse allora mosse dal giudice Giovanni Falcone.

Quel brogliaccio enorme lo aveva intitolato «Le mafie», per sottolineare - sarcasticamente com’era nel suo stile - che c’erano ben altre mafie (oltre a Cosa nostra) da perseguire. Era come se volesse aggirare l’isolamento in cui era caduto con il rifiuto a sentirlo oppostogli per anni dalla Commissione antimafia. Portava il marchio dell’infamia, don Vito. Anche quando fu interrogato nel 1993, dopo la cattura di Riina, rimase solo perché le cose che diceva ai giudici prendevano la forma di una sprezzante autodifesa basata sull’affermazione che «tanto siamo tutti uguali». Il libro che voleva scrivere con Massimo era altra cosa. Don Vito aveva abbandonato l’idea di negare anche l’evidenza e allora rivelava la propria amicizia, più che trentennale, con Bernardo Provenzano, svelava l’inquietante presenza dello «spione» sig. Franco, spiattellava la trattativa fra mafia e Stato, il famigerato papello, fino a ipotizzare il coinvolgimento della Seconda Repubblica con Marcello Dell’Utri.

Dopo la morte inattesa del padre, Massimo si è imposto di «continuare il lavoro» e così mi ha chiesto di aiutarlo. Ho ascoltato i suoi racconti incredibili, il suo coinvolgimento negli affari del padre fino a farsi privare del diritto a una giovinezza spensierata. Ma c’era un ostacolo da superare: la storia di Massimo non poteva divenire pubblica senza che prima fosse consegnata ai giudici. Pensavo che l’ostacolo fosse rimasto insormontabile e invece, due mesi dopo il nostro colloquio, Massimo Ciancimino stava seduto davanti ai magistrati.

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