M. CIANCIMINO, F. LA LICATA
Le relazioni pericolose con boss e politici in Sicilia. Una vita da romanzo criminale
Eppure ci avevo fatto il callo. Perciò, come accade quando si aspetta il turno dal barbiere, ingannavo l’attesa sfogliando una rivista illustrata, forse un numero del settimanale “Epoca”. A un certo punto la mia attenzione si fermò su un servizio dedicato ai grandi latitanti della mafia siciliana, i luogotenenti di Luciano Liggio, allora ritenuto ancora il capo del clan dei corleonesi. C’erano foto vecchie di Totò Riina, ma in particolare ricordo che il giornale cercava di ricostruire al computer il volto di uno dei mafiosi più celebrati e nello stesso tempo sconosciuti. Partendo dall’unica foto esistente che ritraeva il boss.
Dall’immagine di Bernardo Provenzano giovanissimo - una faccia squadrata sotto un ciuffo di capelli biondi - si giungeva, grazie agli aggiornamenti del computer, al disegno virtuale di un uomo ormai avanti con l’età. Un ovale inconfondibile, la barba incolta, i capelli corti, insomma una sagoma che credetti di riconoscere. Già, io quel signore lo conoscevo, e lo conoscevo da tempo: per me era l’ingegnier Lo Verde, un uomo che mio padre frequentava da anni, che era stato più volte a casa mia, che era stato anche a pranzo con mio padre, che veniva a trovarlo pure a casa dei nonni, a Baida. Un amico, una persona di famiglia di cui mio padre, politico democristiano, assessore e sindaco, si fidava come un consigliere con cui scambiare impressioni e ragionamenti che coinvolgevano persino l’attività amministrativa della città.
Possibile che quel Lo Verde, quell’uomo mite che mi dava buffetti sulle guance e mi invitava a essere ubbidiente con papà, fosse il terribile, feroce assassino descritto dalle cronache? Rimuginai a lungo sulla mia “scoperta”: guardavo dallo specchio la faccia assorta di mio padre che inseguiva i suoi pensieri mentre il signor Lo Piccolo lo massaggiava e cercavo di immaginare quale sarebbe stata la sua reazione quando gli avrei chiesto se il mio sospetto fosse giustificato Cosa che accadde puntualmente sulla strada di ritorno, in macchina. Tenendo fede alla mia indole di provocatore, affrontai il discorso: “Hai visto le foto su ‘Epoca’? Dimmi la verità, papà, ma quello non è identico all’ingegner Lo Verde? Anzi, non è proprio lui?”».
I soprannomi
«Ma il gruppo proprio di famiglia era un altro, erano i “gemelli Bo.Bu”. Mio padre aveva il vezzo di appiccicare soprannomi a tutti. Pino Lipari – per esempio – era “il tenente” perché “si crede un generale ma più in là di tenente non arriverà mai”. “Iolanda”, invece, era il medico Nino Cinà, lo stesso che nella cosiddetta “Trattativa” fra Stato e mafia del ’92 e ’93 – di ciò avremo di che parlare – fu il portavoce ufficiale di Totò Riina; mio padre lo chiamava così perché abitava a Mondello, in via Principessa Iolanda. I “gemelli” erano Franco Bonura e Antonino Buscemi, due palazzinari molto addentro a Cosa nostra. (...) Indimenticabili i pranzi, la domenica, al ristorante La Scuderia, spesso con la partecipazione straordinaria del signor Lo Verde, prima e dopo la rivelazione della sua vera identità.
Tutto ciò mentre i bollettini delle ricerche lo ponevano al secondo posto nella lista dei latitanti più gettonati. Al primo ci stava Totò Riina, che si muoveva anche lui come un uomo libero. Ma a Palermo tutto era possibile a quei tempi. Buscemi era un uomo alto, corpulento, di un’eleganza ostentata e di poche parole. Mentre Bonura, biondo, più basso e perennemente occultato da occhiali da sole, era un tipo spiritosissimo, gioviale, e si intendeva con mio padre ancor meglio del suo socio. Si presentavano a casa nostra sempre insieme, da qui il nomignolo di “gemelli”. Chissà se avrà mai saputo, mio padre, che noi figli – a nostra volta – avevamo appioppato anche a lui un soprannome: “Baffo”».
Il terrore
«Ci penso spesso a mio padre. Con rabbia, è vero, ma anche con la compassione che un figlio non può negare a chi l’ha messo al mondo. Certo non gli perdono di avermi tarpato le ali, come quella volta che avevo aperto una discoteca a Monte Pellegrino, il Brasil, e lui fece di tutto per farmi chiudere. È incredibile: prima mi mandò i mafiosi a chiedere il pizzo e poi una squadra della guardia di finanza che fu implacabile e letale. Perché si comportò così? Semplicemente perché aveva intuito che quell’attività mi avrebbe procurato l’autonomia economica. E lui questo non lo voleva, preferiva prendermi per bisogno. Ma non scordo neppure la sua severità, l’eccessivo attaccamento ai “piccioli”.
E la catena con cui mi immobilizzava, lo sgabuzzino al buio dove scontavo le mie pene, l’ironia con cui liquidava ogni mia iniziativa personale e di lavoro, sminuendola con l’esaltazione dei successi di altri. Quanto mi piacerebbe, oggi, ripetergli la mia battuta più riuscita: “Quando accompagnavo mio padre capitava spesso di attenderlo in macchina insieme ad altri giovani aspiranti al successo. Io ero il suo autista, il presidente Schifani, oggi seconda carica dello Stato, guidava l’auto di Peppino La Loggia e il presidente Totò Cuffaro faceva l’autista di Calogero Mannino. Loro sì che hanno fatto carriera, vero papà?”.
E mi piacerebbe anche poter tornare indietro, a quella mattina nella sala da barba del signor Lo Piccolo. Cosa pagherei per potergli dire: “Fanculo papà. Fottiti tu e il signor Lo Verde. Sai che c’è? Che se lo vedo un’altra volta a casa nostra o se mi costringi a incontrarlo chiamo i carabinieri...”. No, forse loro non sarebbero indicati... La polizia? Il signor Franco? Ma che ne so, è tutto così ambiguo... E oggi ho paura».
La Stampa, 8 aprile 2010
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