di LUCA TESCAROLI
Aveva capito come cambiava Cosa nostra: fu assassinato sotto casa il 26 gennaio 1979. La sua morte aprì la serie dei delitti eccellenti. Fece per primo il nome del superboss Riina
In una serata di pieno inverno, quando l´Italia era percorsa dalla minaccia terroristica, alcuni sicari silenziosi e spietati rapirono alla vita un siciliano per bene, padre di quattro figli, mentre stava rientrando a casa dopo un´impegnativa giornata di lavoro. Aveva appena posteggiato l´auto e stava per raggiungere il portone dello stabile in cui abitava, quando l´imboscata scattò in viale Campania. Per sedici anni aveva scritto di cronaca giudiziaria, era divenuto una delle firme più apprezzate del Giornale di Sicilia e uno dei più esperti conoscitori delle vicende mafiose. Era Mario Francese e cessò di vivere il 26 gennaio 1979.Quel delitto rimase per un ventennio senza ragione e senza un colpevole (l´inchiesta venne riaperta su richiesta della famiglia e dopo le rivelazioni dei collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo e Angelo Siino) e diede avvio a una lunga catena di sangue e di omicidi eccellenti. Solo in quell´anno vennero uccisi il segretario provinciale della Dc Michele Reina, il capo della squadra mobile Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova. E molti ancora ne seguirono. Si dovette attendere l´aprile del 2001 perché la Corte d´assise riconoscesse la matrice mafiosa dell´uccisione di Francese e accertasse che quel giornalista era stato assassinato per il suo straordinario impegno professionale e perché la sua esecuzione servisse da monito. Venne così sgombrato il campo da quelle piste alternative, riconducibili a inverosimili regolamenti di conti che determinati ambienti contigui al crimine mafioso avevano contribuito ad accreditare. In una Palermo paludosa, ove brulicavano opache complicità tra alcuni mafiosi ed esponenti del mondo dell´informazione, percorso da mille prudenze, egli aveva saputo ricostruire le vicende più complesse e rilevanti degli anni Sessanta e Settanta.Dalla strage di Ciaculli all´omicidio del colonnello Giuseppe Russo, non c´era stata vicenda giudiziaria di cui non si fosse occupato. Fu l´unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella. Il primo a capire l´evoluzione strategica e i nuovi interessi della mafia di Corleone. Intuì la frattura venutasi a creare tra l´ala moderata e il gruppo capeggiato da Luciano Liggio. Con i suoi articoli aveva precorso le inchieste giudiziarie, svelando la sanguinosa ascesa dei "corleonesi" di Riina e Provenzano, in un´epoca in cui le informazioni sulla struttura e sull´attività dell´organizzazione mafiosa erano molto limitate. Fece rivelazioni su personaggi come don Agostino Coppola, il sacerdote di Partinico che aveva celebrato le nozze segrete del latitante Riina e aveva rapporti con l´anonima sequestri.Si occupò a lungo delle speculazioni per la costruzione della diga Garcia sul fiume Belice e dei delitti che vi ruotarono attorno, spiegando che dietro la sigla di una misteriosa società, la Risa, si nascondeva Riina, a quell´epoca una sorta di male invisibile, pienamente coinvolto nella gestione dei subappalti relativi alla costruzione della diga. Scoprì che gli 820 ettari di terreni sui quali venne innalzata la diga erano stati acquistati dai mafiosi per due miliardi di lire e rivenduti alla Regione per diciassette, evidenziando il connubio tra mafia e politica nella prospettiva di un´enorme accumulazione di ricchezza.Quando venne assassinato, Francese stava attendendo la pubblicazione di un suo dossier su mafia e appalti, pubblicato postumo come supplemento al Giornale di Sicilia. Un ritardo di cui il giornalista si lamentò con diversi colleghi, ritenendo che «fosse uscito dalla redazione». Il delitto Francese fu il momento più alto di una strategia iniziata con gli attentati ai danni del quotidiano palermitano L´Ora, del direttore e del capo cronista del Giornale di Sicilia, Lino Rizzi e Lucio Galluzzo, ai quali vennero rispettivamente bruciate l´auto e la villa al mare.Con la morte del coraggioso giornalista Cosa nostra eliminò un cronista scomodo, che per i suoi rapporti con le forze dell´ordine era in grado di nuocere sempre più se fosse rimasto in vita, riuscì a far ritardare la pubblicazione del dossier e provocò l´allontanamento volontario di Rizzi e Galluzzo. Come osservarono gli estensori della motivazione della sentenza del 13 dicembre 2002 della Corte d´assise d´appello, da quel momento la linea editoriale del Giornale di Sicilia mutò radicalmente «sino a divenire, negli anni dei pentimenti di Buscetta e Contorno e del primo maxiprocesso, uno dei più feroci e critici dell´attività dei giudici del pool antimafia, definiti "sceriffi" e "professionisti dell´antimafia", e attaccati quotidianamente con incisivi e dotti corsivi».Sono trascorsi trent´anni da quel delitto di alta mafia, e su tutti noi incombe il dovere di ricordare il suo impegno, il suo sacrificio, le sofferenze dei familiari e l´esempio di dirittura morale. Oggi più che mai va rievocata quella tragica fine per la fedeltà alla verità dimostrata dal cronista siracusano dalla schiena dritta, un valore che l´informazione obbediente sempre più diffusa non riesce a metabolizzare, soprattutto quando deve interagire con i potenti. A questa persona occorre essere grati perché, in virtù delle sue inchieste e delle sue denunce, si è iniziato a conoscere cos´è la mafia. Il suo impegno e la sua sorte sono lì a ricordarci quanto l´informazione basata sulla verità sia temuta da Cosa nostra, perché ostacola la sua azione, consente di tenere viva l´attenzione, di sensibilizzare l´opinione pubblica e la parte sana delle istituzioni sulla sua pericolosità, di sgretolare il consenso sociale sul quale ancora conta e che mira a rafforzare.Un lungo e faticoso percorso giudiziario, caratterizzato da lentezze investigative e depistaggi, si è concluso il 5 ottobre 2005 con la conferma da parte della Corte di Cassazione del carcere a vita a Bernardo Provenzano, quale mandante. In precedenza, il 2 dicembre 2003, la Cassazione aveva reso definitiva la condanna all´ergastolo di Salvatore Riina, riconosciuto mandante del crimine e principale interessato all´eliminazione, che rinviò dal 1977 al 1979 non disponendo della maggioranza in seno alla "Commissione". Al contempo, ha annullato senza rinvio quelle di Antonio Geraci, Giuseppe Farinella e Pippo Calò. Trent´anni sono stati inflitti a Francesco Madonia - posto da Riina a capo del mandamento di Resuttana, nel cui territorio fu eseguito il delitto - e Michele Greco, come pure a Leoluca Bagarella, uno degli esecutori materiali.Uno squarcio di verità, forse incompleta, che il figlio più piccolo del giornalista, Giuseppe, inseguì per tutta la sua breve vita, prima di dire addio, a 36 anni, a un´esistenza segnata da quel grave lutto. Come se Mario Francese fosse stato ucciso due volte, come se gli aguzzini di Corleone gli avessero sparato da morto.
La Repubblica, 25 gennaio 2009
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