di Mario Pintagro
Spira un vento gelido fra le colline e le valli del disastro. Ogni tanto, qualche macchina si avvicina al luogo delle rovine. C´è chi scende dall´auto, passeggia per quello che una volta era il corso e ora è solo un accenno di strada divorato da incuria ed erbe infestanti. C´è chi cammina fra alberi di ailanto e cespugli di artemisia e si ferma a guardare ciò che rimane della madrice, dei palazzi baronali, delle case.Quelle Case umili e fragili travolte dal terremoto del 1968. È un copione che si ripete identico in tutti i paesi del Belìce. A Santa Ninfa, in via Roma, ci sono due portali a tutto sesto di un palazzo padronale ancora in piedi. Tutto intorno i muri sono crollati. L´area è recintata da una lamiera ed è contigua alle nuove case. A Gibellina vecchia il nuovo paese non si vede nemmeno. Bisogna andare al di là di una cresta di colline, in pianura, per vedere l´utopia possibile immaginata e realizzata negli anni Settanta da urbanisti e architetti di vaglia con il mecenatismo di Ludovico Corrao. Ci sono ancora ruderi a Gibellina che non fanno parte del vasto sudario di cemento bianco che Alberto Burri realizzò negli Ottanta. Un esteso lenzuolo funebre, di un bianco abbagliante, che ora ha perso vigore e necessita di restauri. Si percorre il Cretto come un tempo gli anziani, i bambini, le mamme, percorrevano corso Umberto I, la strada principale, o arrancavano su per la muntata, nelle vie Cavour e Messina. Il Cretto ha lasciato intatta la vecchia trama viaria, basta prendere una mappa dell´antica Gibellina, per attraversarla. Dall´alto, si vede anche qualche rudere non inglobato nel cretto. Pochi resti e una costruzione in cemento armato. È la scuola realizzata negli anni Sessanta. Ma il sisma arrivò prima che gli operai alzassero i muri. L´hanno lasciata in piedi per far capire quanto sia stata distruttiva l´ondata sussultoria del 15 gennaio di 41 anni fa. C´è un pilastro portante piegato come se fosse burro, un solaio che ha ceduto di schianto. Poco prima c´è la chiesa il cui tetto crollò quando il sisma raggiunse il decimo grado della scala Mercalli. Oggi c´è una copertura metallica che la protegge da ulteriore rovina. Pietro Cucchiara, 65 anni, è di Camporeale. Ogni volta che attraversa la statale 119, rattoppata e malconcia, rallenta e si ferma a guardare il teatro delle rovine. «Quando arrivò la scossa devastante, in piena notte, ci mancava il terreno sotto i piedi, ballava tutto. Faceva freddo e c´era la neve, cosa piuttosto inusuale dalle nostre parti. Allora prendemmo delle traversine di legno e le bruciammo».Nel silenzio irreale della valle ogni tanto il vento trasporta un´eco stranissima. È il rumore di alcune pale eoliche che si muovono stancamente. Poi si sente la voce al megafono che invita i cittadini a partecipare alle celebrazioni del terremoto. Cortei, discorsi, deposizioni di corone d´alloro. Di solito ai cimiteri. A Salaparuta, nel nuovo centro, un anziano signore si propone di fare da guida e così si scopre che il Bèlice si chiama Belìce, come d´altronde è indicato anche nelle cartine geografiche. La vecchia Salaparuta sta su una collina di fronte il paese, in un paesaggio di argille fragili, punteggiata da qualche vigneto, a 2 chilometri. Rosario Drago, commerciante in pensione, ci va spesso. Lì ci sono i suoi ricordi, la sua vita: «Era una giornata fredda, ma c´era il sole, ero andato a consegnare una lavatrice. Alle 3,30 di notte si scatenò il finimondo. Avevo 37 anni, un negozio avviatissimo e tre macchine. Scappai e mi infilai nella 1100. Mi ricordo che ondeggiava e non avevo ancora acceso il motore».Ora lì c´è la cantina Giacco, con grandi serbatoi metallici, unico presidio di vitalità in un teatro di distruzione. Poco prima è la sede del Banco di Sicilia. A Poggioreale, nella zona della massima devastazione, i ruderi hanno un aspetto ancora più disarmante. Perché il paese c´è ancora, ma sembra che sia stato abbandonato di colpo. Il Comune ha demanializzato l´area e messo un bel cartello di off limits. Questo per scoraggiare i numerosi emigranti di ritorno dagli States. Giungono con i pullman d´estate, per vedere le rovine delle case degli avi. Ma non possono entrare. C´è il rischio di crolli. Un teatro di rovine simile non può che solleticare la fantasia degli artisti. E l´occasione non se l´è fatta sfuggire Peppuccio Tornatore, che qui ha girato alcune scene di "Malèna". E le rovine possono anche essere un´ottima palestra per i pompieri. Piuttosto che fare le solite esercitazioni su una finta parete in caserma, i vigili del fuoco del nucleo speleo alpino fluviale, guidati dall´architetto Francesco Sirchia, della direzione regionale, sono intervenuti per mettere in sicurezza la chiesa di Sant´Antonio, d´intesa con il Centro regionale del restauro. A Santa Margherita Belice, nell´agrigentino, le rovine sono a due passi dalla piazza dove è il palazzo del Gattopardo. «Lì c´era la mia casa - dice Gaetano La Marca, 55 anni, muratore - , indicando la zona di San Vito - Non è rimasto più niente». È un benvenuto che è memoria e dolore.
La Repubblica, 16 gennaio 2009
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