Dalla tv, la polemica è rimbalzata sui giornali. L’attacco di Marco Travaglio al presidente del Senato Schifani, lanciato durante una puntata di Che tempo che fa, fa scattare la querelle tra il giornalista e un suo collega, Giuseppe D’Avanzo, vicedirettore de La Repubblica: per farla breve, martedì D’Avanzo accusa Travaglio di essere un’«agenzia del risentimento», di utilizzare «un metodo di lavoro che non informa il lettore, lo manipola, lo confonde» e, in ultima istanza, di «indebolire le istituzioni».In sostanza, secondo La Repubblica Travaglio non può accusare Schifani di frequentazioni mafiose non solo perché i rapporti tra Schifani e Nino Mandalà risalgono ai primi anni Ottanta, ma anche perché Mandalà viene accusato di mafia vent’anni dopo “l’amicizia” con Schifani. Poi è lo stesso D’Avanzo a ricordare tutti gli articoli in cui La Repubblica e non solo, dal 2002 in poi, hanno raccontato le «amicizie pericolose» di Schifani, ma, aggiunge, ha smesso di parlarne perché «un lavoro di ricerca indipendente non ha offerto alcun – ulteriore e decisivo – elemento di verità».Restano i fatti degli anni Ottanta, e la successiva condanna per mafia del socio di Schifani. Ma tutto questo è acqua passata, ora a dover pagare, a dover imparare «la lezione del caso Schifani», è Marco Travaglio. E per fargli capire la «lezione» D’Avanzo usa lo stesso metodo nei confronti del giornalista: tira fuori un’intercettazione telefonica del 2002 tra Travaglio e Pippo Ciuro, maresciallo della Dia poi condannato per favoreggiamento a Michele Aiello, condannato a 14 anni per mafia. Secondo D’Avanzo, Travaglio sarebbe stato ospite per le sue vacanze in Sicilia dello stesso Aiello, tramite la mediazione di Ciuro. Insomma, anche lui avrebbe «amicizie pericolose». Travaglio smentisce, conferma le estati siciliane in cui ha incontrato Ciuro, promette di ritrovare le ricevute di pagamento degli alberghi, giura di non aver mai conosciuto Aiello. E querela D’Avanzo. Ora se la vedranno in Tribunale.Nel frattempo il fuoco nemico contro Travaglio arriva anche da più fronti. Schifani l’ha querelato, l’Autorità garante per le Telecomunicazioni ha aperto un’istruttoria, il direttore generale della Rai Claudio Cappon gli manda a dire che «non può più sbagliare, altrimenti è fuori». Intanto, giusto per consolarsi, i giornalisti di Senza Bavaglio hanno avviato una raccolta firme in sostegno di Travaglio: «Nei paesi democratici – scrivono – il ruolo dei giornalisti è proprio quello di osservare, verificare e poi raccontare. Si chiama diritto di cronaca. Si racconta se il politico tradisce la moglie, se in gioventù si faceva qualche spinello, se è stato in un centro di riabilitazione per etilisti, se ha truccato le carte per non andare in guerra. Per alcuni elettori – proseguono – queste informazioni sono importanti. C'è chi non ama essere rappresentato da un donnaiolo, e chi non vuole essere rappresentato da un pavido». Figuriamoci da chi ha frequentato mafiosi. «Tocca al giudice – spiegano i promotori della raccolta firme – appurare se il giornalista dice il falso. Ora la domanda di attualità è: il giornalista Marco Travaglio ha raccontato un fatto vero che riguarda Renato Schifani o un fatto falso? Schifani, l'opposizione e anche gli organismi di controllo della Rai possono indignarsi quanto vogliono, ma l'unico strumento democratico che ha Schifani è ricorrere al giudice, incaricato in democrazia di valutare se Travaglio ha detto il vero o il falso. Tutte le altre prese di posizione – concludono – mirano solo a limitare la democrazia e la libertà di critica della stampa».
L’Unità, 15.05.08
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