mercoledì 14 maggio 2008

STANCA DI GUERRA

di Anna Finocchiaro
Non sarei intervenuta se non avessi netta la percezione che in questo dopo elezioni il nostro partito sta vivendo dannose e scomposte inquietudini.
La sconfitta è stata molto seria, e non solo per la percentuale di consensi, quanto perché l’analisi del voto - per molti versi ancora, almeno per me, incompiuta - ci mostra una nuova geografia politica, in termini di aree, di soggetti, e di temi di riferimento che avremmo la necessità di indagare molto profondamente. È un lavoro che va cominciato subito. Non solo nelle assise di partito. E che richiederà tempo.Ma se certo scontiamo la «giovane età» del nostro partito, e di ciò che ne può essere derivato in termini di radicamento, se scontiamo errori circa la proposta organizzativa, c’è altro di sostanziale, di strutturale? Veniamo in prima approssimazione a due questioni. La prima: la natura politica del Partito Democratico. Ci siamo detti molte volte che è quella di una forza nazionale riformista.Una grande forza di cambiamento dell’Italia. Il risultato dell’incontro delle grandi culture riformiste della storia politica italiana. E qui c’è un primo nodo: pensiamo che in sei mesi si sia già conclusa l’opera di costruzione del Pd? Io credo ci sia molto ancora da fare. Non possiamo pensare che la ricerca di quella identità culturale e valoriale che abbiamo cominciato a delineare si esaurisca nell’aver scritto una carta dei valori, uno Statuto e un codice etico. Io credo ci sia da lavorare, ce lo dice anche il voto, su un doppio binario: quello dell’ascolto del Paese e quello del radicamento e della costruzione dell’identità del Pd. Insisto su questa parola. Io credo sia arrivato il momento di lavorare per una più compiuta identità, che sia nuova sintesi e non compromesso tra le nostre diverse anime, che riesca ad intercettare il respiro di quella parte dell’Italia che davvero vuole rimettere in moto il Paese. Per fare questo ci vuole tenacia, fatica, tempo e sedi proprie.Abbiamo cinque anni di tempo e sgombriamo il campo dall’illusione che questo governo nel giro di pochi mesi imploda. Lavoriamo con umiltà e senza pensare, come spesso purtroppo accade, che l’efficacia di una scelta politica si esaurisca nel giro di sei mesi o ad ogni tornata elettorale. Tutti poi abbiamo convenuto sulla necessità di un partito a vocazione maggioritaria. Ne abbiamo derivato - e continuo a ritenere corretta questa scelta per il contesto politico in cui è maturata, e per le ragioni che ci hanno mosso ad adottarla - che alle elezioni saremmo andati da soli.Nessuno di noi ha mai pensato che questo volesse dire splendido isolamento o autosufficienza. Ma tutti abbiamo convenuto sulla necessità di presentarci al Paese con una identità programmatica netta e definita. E se c’è un giudizio unanime e positivo che viene da tutti i commentatori e gli analisti è proprio quello sulla scelta del Pd di essersi presentato da solo alle elezioni con la propria proposta di governo. Qualcuno ha cambiato idea? Discutiamone con chiarezza. Peraltro dalla scelta che abbiamo compiuto in campagna elettorale è derivato un primo risultato, la semplificazione dello schema di gioco elettorale. A fronteggiarsi, sostanzialmente, solo due formazioni politiche il Pdl e il Pd. Ottimo risultato, certo, se guardiamo alla frammentazione del quadro politico di due anni fa. Viatico imprescindibile per l’avvio a soluzione del problema, drammatico per l’Italia, della stabilità dei governi e della qualità e rapidità della decisione politica. Ma abbiamo perso le elezioni. Quell’effetto sul sistema politico per noi così apprezzabile, e così specularmente apprezzato ed imitato anche dal centrodestra, non è stato determinante. Questa affermazione conduce con sé il vero quesito a cui dobbiamo rispondere: siamo certi che un partito riformista abbia, in questa Italia, quella del 2008, una Italia in cui dal 1994 il centrosinistra non è mai riuscito ad essere stabile maggioranza, una forza elettorale superiore al 33-34%? Dico “questa Italia” perché credo sia questo uno dei punti essenziali.Il nostro è un Paese legato dalla paura e da un diffuso senso di vera insicurezza. Non parlo solo dell’insicurezza di fronte a rischi di aggressione fisica o ai propri beni.È un Paese che non si fida - nella sua stragrande maggioranza - del futuro e non riesce a proiettare sul cambiamento uno stato di maggiore possibilità di rischio per il conseguimento di miglioramenti nella propria condizione di vita, di lavoro.Non è un’analisi di comodo. L’abbiamo fatta, e l’hanno fatta autorevoli studiosi e commentatori politici più volte in questi ultimi anni. L’abbiamo sperimentata di fronte alle iniziative liberalizzatrici di Pierluigi Bersani, orientate ad una maggiore democrazia economica. Il tentativo più squisitamente riformista di questi anni della storia italiana, oltre che il più intelligente antidoto al drammatico ritardo dell’Italia nell’offerta di opportunità a imprenditori professionisti, giovani generazioni.Allora il tema è capire se la nostra offerta politica, l’offerta riformista, sia riuscita ad entrare in relazione positiva con un paese spaventato. Pare di no. Non per ora almeno.Quanto più il Pd ha offerto il coraggio della sfida riformista, tanto più per una larga parte dell’opinione pubblica questo ha significato timore e spaesamento. Non per quel 33-34%, certo. Ma il resto non era pronto, non si sentiva solidamente assestato, certo di sé e delle proprie possibilità. Non sul piano della modernità, come noi lo intendiamo. La sfida sull’innovazione spaventa, se non hai sotto di te terreno solido. Se guadagni poco, troppo poco, se hai poco da investire e quel poco ti è carissimo, se tuo figlio sta peggio di come stavi tu alla sua età, se la competizione è un incubo, se il tuo territorio è popolato da presenze che avverti estranee, e per molte intime ragioni, ostili.Ma anche se godi di una rendita derivante da una posizione oligopolistica, se dipendi da un rapporto parassitario con la cosa pubblica, se alla fine “ti aggiusti” in un sistema che non funziona come dovrebbe, ma proprio per questo ti consente di usufruire del piccolo o grande privilegio di un rapporto clientelare con la politica, con i governi, locali o nazionali.In questo senso il messaggio del Pdl è apparso assai più rassicurante del nostro.Niente riformismo, di fatto, se non quello di aumentare i redditi diminuendo il carico fiscale (e chi se ne importa di ogni domanda sulla qualità ma anche sulla quantità della spesa pubblica destinata all’assicurazione dei diritti, dall’istruzione alla sanità), e maggiore sicurezza e scacciare i fantasmi dell’immigrazione e dell’illegalità, insieme ad un sottile messaggio antieuropeista che sia d’argine a quelle innovazioni che da lì possano essere imposte.Rassicurazione. A piene mani. Sanno perfettamente che non è così semplice. Cauti ballon d’essai in questi primi giorni, qualche preoccupazione del premier anche in campagna elettorale, ma giusto per spegnere l’eccesso. Anche la cifra, identica per tutti , con la quale i Presidenti delle Camere e, da ultimo, il Presidente del Consiglio si sono manifestati è quella della rassicurazione.Dialogo, riforme bipartisan, confronto, talvolta pieno elogio dei predecessori. Perfetto. Sembra vero. Ma sarà vero?Risponde di certo all’insicurezza dell’Italia. Ma non vedo né intenzione, né la forza di volerla cambiare davvero l’Italia. L’equità compare nelle indicazioni di politica economica, in rassicuranti propositi di colpire i veri “capitalisti”, ma non una parola sulla democrazia economica, sulla liberalizzazione dei mercati, sull’abbattimento degli oligopoli. Il Mezzogiorno è opere pubbliche, subito il Ponte sullo Stretto, alta velocità. E va bene.Ma il resto, cioè tutto il resto?Per il resto ci si offre, in sostanza, di associarci alla responsabilità.È nel crinale della definizione del rapporto tra noi e la maggioranza così come oggi la maggioranza ce lo offre che dobbiamo definire la cifra della nostra opposizione. È molto difficile, perché lavoriamo su un terreno reso abilmente molto scivoloso. Non discuto, com’è ovvio, della naturale attitudine, in un regime bipolare finalmente adulto, di una intesa tra maggioranza e opposizione sulle questioni istituzionali e sulle questioni strategiche per il futuro del Paese. L’ho predicato, peraltro inutilmente, per due anni da capogruppo di maggioranza. Parlo del compito, assai più difficile, dell’opposizione di tenere viva, e motivata, e ansiosa di provarci, quella parte dell’Italia che rischia di essere anestetizzata o neutralizzata da una politica rassicurante che lasci però tutto com’è.Il nostro lavoro è di lunga lena. Noi dobbiamo prima di tutto consolidare il bacino di consensi del Pd. E cercare di farlo diventare più grande a partire dal lavoro di opposizione che saremo capaci di svolgere. Certo preoccupandoci di dialogare con le altri parti di opposizione, in Parlamento e nel Paese, cercando alleanze anche strategiche. Ma il nostro primo compito è quello di stabilizzare e insieme di allargare l’area del Pd. Nell’inedita responsabilità, peraltro, alla quale siamo chiamati, di offrire il Pd anche come luogo della rappresentanza di valori e interessi e bisogni di riferimento di quell’area della sinistra che è rimasta esclusa dai luoghi della rappresentanza politica. Non parlo di annessioni. Parlo della possibilità di definire, anche in ragione di questo, profili politici e piattaforme di proposte che non guardino, e rispondano, a quei valori, a quegli interessi, a quei bisogni. Per fare tutto questo, per definire tutto questo abbiamo bisogno di tempo e di tutta la nostra forza. Tutta. E abbiamo perciò bisogno di solidarietà e sincerità tra i gruppi dirigenti. E di molta capacità di reciproco self-restrain.Questo mi piacerebbe fare, questo mi appassionerebbe.Io, come la Teresa Batista di Jorge Amado, sono stanca di guerra.
L'Unità, 14.05.08

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