di LIDIA RAVERA
La fotografia di Lorena Cultraro, sulle prime pagine dei giornali, è la stessa che sua madre ha mostrato in televisione, quando ancora sperava che sua figlia, quattordici anni, fosse scappata di casa, magari per amore. Si assomigliano, la madre e la figlia, stesso ovale allungato, stesso sguardo intenso e malinconico. La fotografia che riproduce la madre nell’atto di chiedere aiuto a «Chi l’ha visto?», lascia intravedere, sullo sfondo, i pensili in legno chiaro di una cucina come tante, ci sono fiori nei vasi, è un interno italiano, decoroso e comune.La fotografia che riproduce la figlia non può più essere guardata con il distacco dell’oggettività: è la fotografia di una ragazzina morta ammazzata, strangolata, bruciata e quindi gettata, con due pietre legate alla vita, in un pozzo, in mezzo ai rifiuti. Allora ecco che quel sorriso appena accennato, sulle sue labbra, appare più come il frutto di una decisione faticosa, quella di sembrare una ragazzina serena. Un’adolescente come tutte le altre, con i capelli neri e gli occhi grandi, con i genitori affettuosi e l’immancabile «fidanzatino». Non è così. Lorena non era un’adolescente spensierata. Era un’adolescente costretta (o cooptata) ad una promiscuità piuttosto squallida, e, forse, era incinta, senza averlo voluto. Era una quasi bambina minacciata dalla maternità come quella del film «Juno» che ha tanto commosso Giuliano Ferrara? Non esattamente. Nel film l’adorabile ragazzina Juno, messa incinta da un coetaneo dolcemente citrullo, decideva di tenersi il frutto del precoce e distratto rapporto sessuale ma, non avendo l’età per sentirsi madre, lo regalava ad una bella signora senza figli, così, per non eliminare il frutto dell’incontro felice fra un ovulo e uno spermatozoo. Nella realtà, l’adorabile ragazzina Lorena, invece, veniva, pare, costretta a fare sesso con gli amici del suo ragazzo, tre apprendisti criminali che, presumibilmente, se la passavano nel più assoluto disprezzo del suo corpo, della sua sensibilità, dei suoi sentimenti. Nel film tutto finisce bene: la madre adottiva è contenta, il bebè è tanto carino, la ragazzina è felice e suona una canzone d’amore , chitarra acustica e duetto di voci, con il padre del bambino partorito e regalato. Sulla nascita dell’amore adolescente scorrono i titoli di coda. Nella realtà i titoli di coda scorrono su un cadavere carbonizzato, su tre giovani disgraziati in una stanza della caserma di Niscemi, in provincia di Caltanissetta, che confessano: «ha detto: sono incinta di uno di voi... abbiamo perso la testa».Hanno perso la testa, loro. Lei, Lorena, ha perso la vita. Se era davvero incinta, o se lo temeva soltanto, lo stabilirà l’autopsia. Magari esagerava la portata di quei pochi giorni di ritardo in un flusso mensile a cui non aveva ancora avuto il tempo di abituarsi. Magari voleva soltanto chiedere di non essere trattata come un pezzo di carne in cui scaricare a turno le proprie tempeste ormonali, i propri «bisogni» sessuali. Voleva parlare e voleva essere ascoltata. Infatti ci è andata volontariamente, in motorino con quello dei tre che si faceva passare per il suo ragazzo, sul luogo delitto, gli altri due erano su un altro motorino. Come le altre volte? Avrebbe detto: oggi no, oggi non si fa, oggi vi devo dire una cosa importante. Si aspettava, magari, perfino, finalmente, un po’ di considerazione. In quella sub-cultura, fra i maschi siculi, si sa, le donne valgono come orifizi che forniscono piacere. Contano come madri. Rompono se restano gravide e nessuno le vuole. Se rischiano di produrre bambini non voluti, se svelano la tresca con una pancia che cresce, diventano un peso, vanno scaricate. Tali i padri tali i figli: vergini o mignotte, tutte puttane tranne mia madre. Tutte troie tranne mia sorella. È questo il brodo di coltura in cui nuotano i giovani maschi dell’entroterra siciliano. Certo, ci saranno delle eccezioni, ma la maggioranza si forma lì. Nel più perfetto e stagnante maschilismo troglodita.Ma, naturalmente, si tratta pur sempre di ragazzi italiani, ragazzi nati in Sicilia, la nostra bella isola, culla di civiltà e generosa riserva di voti per il centrodestra. Così nessuno arma battaglie, chiede la pena di morte, marcia armato sui luoghi dove vivono gli assassini, propone espulsioni. Così i titoli dei giornali non escono a caratteri di scatola, anzi, la notizia dell’orrendo crimine (una ragazzina violentata ripetutamente, strozzata, bruciata e buttata in un pozzo) incomincia in prima e finisce in cronaca (pagina 18), senza eccessivo clamore, un fatto di nera, come tanti. Così i colpevoli vengono chiamati «balordi», che è un modo minimalista di nominare i criminali. E c’è da aspettarsi tutta la clemenza che riserviamo ai nostri figli: che sono pur sempre dei minorenni... che sono esseri umani ancora in via di formazione... che vanno puniti, ma per educarli... che magari la ragazza era anche consenziente... E comunque sono nati in provincia di Caltanissetta. E le donne le violentano e le ammazzano a casa loro. Quindi fanno meno paura?www.lidiaravera.it
L'Unità, 15.05.08
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