di Matteo Cosenza
Il Quotidiano della Calabria
BASTEREBBERO l'incipit e il finale per capire il valore del libro di Roberta Mani e Roberto Rossi, due giornalisti accomunati da un impegno nel gruppo di lavoro“Ossigeno per l'informazione” della Fnsi, che sono venuti a raccontare quello che nel titolo chiamano “Avamposto” (editore Marsilio, da oggi in libreria). Sottotitolo: “Nella Calabria dei giornalisti infami”. E siamo all'incipit.
«Ciao papà, che significa 'mpamu?»
«E perché, chi te l'ha detto?»
«A scuola. Un mio compagno.»
«Ah. E che t'ha detto?»
«Statti muta tu, ca io non ci parlo con i figli i' mpamu!»
L'infame è un giornalista che sta dalla parte degli sbirri. E' peggio degli sbirri perché questi fanno il loro lavoro, il giornalista sceglie da che parte stare. Il dialogo effettivamente avvenuto a Cinquefrondi in una scuola elementare dice più di una biblioteca di studi sociologici. E’ evidente come si formi l'humus culturale, il brodo di cultura nel quale l'illegalità e la prepotenza prosperano. Il seme dell'illegalità si trasmette in famiglia - è il caso di dire - da padre in figlio, perché la bambina è convinta per davvero che il padre della sua compagna di banco sia un infame, un traditore della sua gente, uno che si è messo dalla parte dei nemici che per lei sono la legge e i suoi rappresentanti. E' evidente anche come sia difficile fare il giornalista in un contesto del genere. E naturalmente la cosa non riguarda solo i giornalisti ma quanti si ribellano alla logica dell'anti-stato semplicemente facendo il loro dovere.
Hanno fatto bene gli autori di questo viaggio che si legge come un romanzo, ma che è un'inchiesta ed anche un saggio e sicuramente costituisce un documento che fissa date, luoghi e persone, a partire da questo episodio raccontato da Michele Albanese, un giornalista del “Quotidiano”. E' lunga la serie di giornalisti intimiditi in Italia, ma – confessano Mani e Rossi - è in Calabria che si registra il primato negativo. Nel loro libro ripercorrono storie su storie di cui sono stati protagonisti e vittime giornalisti dei quotidiani calabresi (dal nostro alla “Gazzetta” a “Calabria ora”) o anche impavidi free lance, che non hanno piegato la schiena e hanno fatto con onore il loro mestiere. Le loro vicende si intrecciano con la storia della 'ndrangheta calabrese, con le gesta delle cosche più feroci, con le faide, gli omicidi, le sparizioni.
E' facile - racconta uno di loro - per l'inviato del quotidiano nazionale venire in Calabria, starci qualche giorno, farsi un'idea di un fatto o della situazione, tornarsene al suo giornale a Roma, Milano o Torino e scrivere. Altra cosa è stare qui, restare nel piccolo comune dal quale si fanno le corrispondenze e scrivere del boss che abita nel palazzo accanto, dei picciotti che ritrovi al bancone del bar, del padre o dello zio della bambina che va a scuola con tua figlia. E non è necessario neanche strafare per scrivere di più, basta che racconti solo quello che accade e puoi trovarti nei guai.
Succede anche che i giornalisti diventino i compagni di viaggio di quanti reclamano giustizia e verità. La mamma che cerca il figlio scomparso, Mario Congiusta che dedica la sua esistenza a onorare il nome del figlio Gianluca che si vuole uccidere due volte, Doris Lo Moro che a 29 anni, dopo l'omicidio del padre e del fratello, scopre che tutto è cambiato e cerca in quelli che saranno suoi colleghi una giustizia che non ci sarà, sono figure centrali del libro come lo sono gli uomini della “malapianta”, e per ognuno di loro c'è un testimone che racconta con il suo lavoro la disperazione e l'invocazione della giustizia delle vittime condannate alla solitudine quasi fossero carnefici.
Ci vuole coraggio ma a volte anche avendo paura - e chi non ne ha! - si può diventare eroi solo perché la propria dignità non consente altre scelte. Tra le storie ne ritagliamo una esemplare. Agostino D'Urso è il fotografo del “Quotidiano” a Crotone. Un giorno viene mandato a fotografare le scritte comparse nei pressi del cimitero inneggianti al boss Luca Megna di Papanice assassinato qualche giorno prima. Lo fa così come avrebbe fatto se avesse dovuto fotografare una conferenza stampa al Comune o una manifestazione in una scuola. Lo intercettano, vogliono che distrugga le foto, poi hanno qualche dubbio perché con queste macchine moderne non si sa mai cosa resta nella memoria. E allora lo costringono a salire sulla loro macchina, lo portano in giro fino a raggiungere lo studio di un fotografo per completare la distruzione. Poi lo rimettono in auto, gli fanno fare un giro lungo, per viottoli di campagna («Mi paralizzo dalla paura. Comincio a pensare. Dove mi portano questi?») fino a lasciarlo ad un certo punto da dove a piedi potrà raggiungere la sua auto. Il sequestro di persona è terminato. Ma che ti fa Agostino? Manco fosse a Stoccolma va in Questura e denuncia il sequestratore che riconosce tra le foto (è un boss), lo fa arrestare e condannare, con il consenso della moglie, anche se per notti e notti non hanno dormito angosciati dagli incubi. Un eroe? Voi che dite?
La chiusura del libro è affidata alle parole di un magistrato che doveva saltare con la dinamite, Pierpaolo Bruni, che non fiata sul contenuto delle sue inchieste né sulla sua vita blindata. Parla invece anche lui di compagni di viaggio scelti con certosina discrezione: «Le minacce ai giornalisti sono un fatto inquietante. In questi territori le principali libertà costituzionali sono condizionate: il voto, la libera impresa, il diritto di cronaca, la libertà di manifestazione del pensiero. La democrazia azzerata. Viviamo in un avamposto. Ai margini della vita civile. Poche torrette coi tricolori lisi, in difesa dei valori democratici. Accerchiati da un cultura ostile, dai soldati che hanno scelto di disertare, da cacciatori che puntano i fucili nella parte sbagliata, da lupi pronti al massacro».
Matteo Cosenza
direttore del "Quotidiano della Calabria"
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