di Roberto Morrione
Ci siamo e ci saremo. Libera Informazione è in prima linea nella battaglia in corso per far ritirare il disegno di legge sulle intercettazioni. E’ chiaro fin d’ora che, se la norma verrà approvata al termine dei percorsi fra le due Camere, senza che ne sia annullato totalmente il contenuto anticostituzionale e liberticida, riterremo obbligata la scelta della disobbedienza civile. Con il nostro impegno quotidiano, con gli stessi valori che ci hanno fatto nascere, quelli di una “informazione che è libera o non è”, siamo infatti ogni giorno parte attiva dello schieramento che combatte l’illegalità e la disuguaglianza di fronte alla legge. Una battaglia che vede finalmente schierati, al fianco dell’opposizione in Parlamento e dei nuovi dissensi sollevati da Fini all’interno della maggioranza, i giornali di ogni tendenza, come dimostra l’assemblea unitaria dei direttori della stampa italiana, i magistrati, i sindacati, le rappresentanze delle forze di polizia, gli editori, gli scrittori e gli artisti già colpiti pesantemente dalla dissennata politica culturale del governo, le associazioni del volontariato, numerose amministrazioni pubbliche. Fino ad arrivare a quella ostilità espressa a livello europeo e clamorosamente dall’amministrazione degli Stati Uniti, memore degli insegnamenti di Giovanni Falcone e del peso che l’efficace uso giudiziario delle intercettazioni da parte dei magistrati italiani ha nella lotta internazionale al crimine organizzato e al terrorismo.
Una grande manifestazione nazionale che unisca in piazza tutte queste forze sociali, culturali e politiche, è a questo punto davvero urgente.
L’obiettivo di fondo resta quello di far comprendere a quella larga parte degli italiani che hanno nelle televisioni dominate dal premier l’unica fonte d’informazione, come insegnano i notiziari ammaestrati e subalterni al potere del TG 1 di Minzolini, che respingere il disegno governativo non è solo difendere il diritto-dovere dei giornalisti sancito dalla Costituzione, ma soprattutto tutelare il diritto dei cittadini a conoscere la realtà in cui vivono, le illegalità dei ceti dirigenti, la corruzione dilagante, l’estensione dei crimini organizzati e comuni che minano la sicurezza di tutti. Un silenzio tombale, al di là dei gravissimi danni giudiziari, minerebbe le fondamenta della democrazia, impedendo agli italiani di giudicare i propri rappresentanti sotto il profilo morale e civile ancor prima che direttamente politico. L’anticamera dunque di una dittatura, che peraltro proprio nella soppressione della libertà di stampa ha avuto la base essenziale nella tragica storia del fascismo, come l’ha ancora ad altre latitudini. Se questo vale a ogni livello, ancor più ne sentiamo il dovere morale e civile a partire dalla memoria di chi ha perso la vita per difendere lo Stato contro la violenza e la prevaricazione delle mafie e il sistema di corruzione e contiguità di cui si sono avvalse e si avvalgono.
Le centinaia di famiglie delle vittime che attendono ancora giustizia e verità per coloro, uomini e donne, caduti per mano mafiosa e interessi quasi sempre rimasti oscuri, come potrebbero avere ancora fiducia in uno Stato che, invece di onorare questo immenso debito morale, indebolisse per legge l’azione dei pubblici ministeri, le tante inchieste ancora aperte o possibili e insieme calasse per anni la scure del silenzio sulla stampa e i libri che attraverso le cronache e le analisi giudiziarie rappresentano l’unica possibilità di mantenere viva una memoria collettiva? Che speranze potrebbe avere per il futuro il padre dell’agente Agostino, massacrato con la moglie perché a Palermo dava la caccia ai latitanti di Cosa Nostra e, almeno secondo le recenti rivelazioni sul fallito attentato dell’Addaura, per avere salvato in quell’occasione la vita a Giovanni Falcone? Il padre attende da 21 anni la verità su chi gli uccise il figlio, a partire da quegli agenti segreti, traditori dello Stato, che ebbero un ruolo nella vicenda e la sua barba, che promise di non tagliare fino al raggiungimento della verità, è diventata lunga e bianca…Solo un esempio, ma che ci porta nel cuore del gravissimo intreccio di questa nuova legge con inchieste che cercano di fare luce, da Palermo a Caltanissetta, da Firenze a Milano, sulle stragi non solo mafiose, ma anche di “parti dello Stato” come è ormai certo, che insanguinarono la Sicilia e l’Italia fra il ’92 e il ’94, per poi cessare quando il panorama del Paese cambiò e un nuovo soggetto politico, Forza Italia (è ipocrita nascondersi dietro giri di parole) secondo le clamorose affermazioni di numerosi pentiti e testimoni di giustizia, trattò con la mafia per prendere il posto di antichi referenti. Uomini dei servizi, cioè dello Stato, avrebbero avuto ruoli centrali, anche se tuttora oscuri, in molti dei delitti “alti” compiuti da Cosa Nostra, passando per le stragi di Capaci e Via D’Amelio, proseguendo nelle trattative con i capi corleonesi, prima Riina, poi Provenzano, intersecando i sanguinosi attentati ai beni artistici a Firenze, Milano, Roma.
Le nuove testimonianze del pentito Spatuzza e di Massimo Ciancimino, ritenuti a diverso titolo attendibili dalle Procure coinvolte, vanno decisamente in questa direzione. Negli ultimi giorni si sono succedute allarmate dichiarazioni del procuratore nazionale antimafia Grasso, di Walter Veltroni, di Carlo Azeglio Ciampi, mentre il Copasir presieduto da Massimo D’Alema ha aperto indagini per individuare gli agenti segreti “felloni”, sentendo i vertici dei servizi e il procuratore di Caltanissetta Lari. Il PDL, ovviamente, ha parlato di dietrologia “ideologica” a scopo propagandistico e ci si è chiesto, anche in settori di sinistra molto aggressivi nei confronti di Berlusconi e della sua politica, come il quotidiano “Il Fatto”, che valore possano avere testimonianze dal significato incerto, dopo anni e anni di silenzio della politica e di mancata verifica di denunce di queste complicità inutilmente emerse da magistrati inquirenti e addirittura in sentenze, oltrechè da numerose testimonianze di pentiti. Una posizione che certo va rispettata, ma che non condividiamo, per i ruoli istituzionali e le personalità di coloro che si sono così esposti pubblicamente, perché queste dichiarazioni non indeboliscono, ma avallano sia pure a posteriori le inquietanti ipotesi di trame “di Stato” emerse appunto con una certa sistematicità in sede giudiziaria e anche in numerose ricostruzioni giornalistiche e di documentati libri d’inchiesta. Che Ciampi racconti dettagliatamente la sua paura di un tentativo di golpe nel ’92, quando in concomitanza con l’attentato al Velabro a Roma si interruppero senza spiegazioni di alcun tipo tutte le comunicazioni con Palazzo Chigi, è un fatto e non una illazione…”Senza verità non c’è democrazia”, ha concluso Ciampi chiedendo che il parlamento si faccia carico di questo compito. Operazione davvero difficile di questi tempi, con la durissima battaglia aperta sulla Giustizia e l’informazione, ma ci associamo con convinzione.
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