di Salvo Palazzolo
I pentiti lo chiamano il “ministro degli esteri” di Cosa nostra. Salvatore Miceli era sempre in viaggio. E quando tornava in Sicilia i padrini più in vista se lo contendevano a cena. Qualcuno l’aveva soprannominato “la gallina dalle uova d’oro”, perché le sue relazioni con i trafficanti calabresi, e per il loro tramite, con i narcos sudamericani, erano fonte di sempre nuovi affari. Eppure, qualcuno in Cosa nostra cominciava a guardarlo con sospetto. All’i nizio degli anni Novanta, Giovanni Brusca, anche lui aspirante trafficante internazionale di droga, andava dicendo in giro che Miceli aveva fatto scomparire una grossa partita di droga, e chiedeva alla Cupola che fosse ucciso. Matteo Messina Denaro, il giovane capomafia della provincia di Trapani, si oppose con forza. E Brusca finì in minoranza. Salvatore Miceli continuava a viaggiare. Quando tornava, polizia e carabinieri riuscivano per qualche giorno a intercettarlo. Lui dispensava sempre buoni consigli: “Per sfuggire ai controlli bisogna inventarsi la qualsiasi”, raccomandava ai suoi picciotti. E quando parlava con i padrini di più alto rango diceva che la Sicilia “è terra che non ha pari al mondo”. Per una ragione, soprattutto: “In Sicilia puoi piazzare roba purissima, i clienti sono disposti a pagare una cifra. Neanche a Roma si fanno questi affari”. Poi, dopo qualche giorno, la gallina dalle uova d’oro spariva nuovamente. La cena più importante a cui Miceli fu invitato si tenne a casa di Pino Lipari, il consigliere più fidato del capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano. Anche quella volta, c’era una microspia che registrava ogni parola. Lipari svelò a Miceli quali erano le nuove strategie dopo le stragi Falcone e Borsellino. Gli spiegò che si era tenuta una riunione al massimo vertice: c’erano Bernardo Provenzano, Benedetto Spera, Salvatore Lo Piccolo e Nino Giuffrè. La nuova Cupola mafiosa. “Bisogna rimettere questo giocattolo in piedi… Gli dissi, “senti Bino, qua non è che abbiamo più due anni, non ti seccare, io me la prendo questa libertà perché ci conosciamo. Figlio mio, né tutto si può proteggere né tutto si può avallare né tutto si può condividere di quello che è stato fatto. Perché del passato ci sono cose giuste fatte e cose sbagliate, bisogna avere un po’ di pazienza”. Pronunciai questa parola – proseguiva Lipari - e Benedetto mi venne a baciare. Gli dissi: “Né tutto possiamo dire fu fatto giusto né tutto possiamo dire che è sbagliato”. Cose tinti assai se ne fecero”. Miceli condivideva le parole di Lipari. Erano arrivate anche a lui delle lamentele dal carcere, i corleonesi delle stragi chiedevano a Provenzano un aiuto più concreto. “C’è gente che si sente magari delusa, questo è il fatto”. Ma la stagione delle stragi era conclusa. Miceli sussurrò: “ Chiaramente, ci vuole il suo tempo, vossia me lo insegna, tempo ci vuole”. Lipari annuì. Era orami la stagione degli affari. Adesso, il sostituto procuratore di Palermo Pierangelo Padova e il procuratore aggiunto Teresa Principato avanzeranno richiesta di estradizione per Miceli. Sono tanti i segreti che il boss continua a conservare. Intanto, i carabinieri del Reparto Operativo di Trapani sono tornati ad esaminare le intercettazioni degli ultimi giorni a Caracas. Miceli stava organizzando un nuovo grande affare fra la Sicilia e il Sud America.
(La Repubblica, 21 giugno 2009)
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