di Alberto Dentice
Un cantautore che non raccontava sogni ma la realtà. Che amava gli emarginati. E non sopportava il conformismo. Da riscoprire con 'L'espresso'
Non sono 'un cantante bene', non sono 'un intellettuale'. Sono solo uno che scrive canzoni guardandosi intorno. Questa breve dichiarazione del 1967, l'anno in cui uscì il suo primo Lp, 'Volume 1', illumina meglio di tanti discorsi celebrativi la poetica di Fabrizio De André. E dopo molti anni chiarisce anche a noi, adolescenti di allora, le ragioni di una fascinazione che non è mai finita. De André non era un fabbricante di sogni e diversamente da tanti altri cantautori, non lo sarebbe mai stato. Questa differenza è stata chiara fin da subito. Faber, come lo chiamavano gli amici, aveva il virus della realtà. "C'è chi dice che questo di far sognare sia il compito di noi artisti: ma allora chi resta a raccontarci la realtà? I giornali?", chiedeva: "Io non vendo sogni: i sogni si sognano, la realtà si racconta". Questione di sguardo, appunto. Quello di Fabrizio De André è lo sguardo di un vero poeta. Uno sguardo che non giudica. Ma capace piuttosto di immergersi nei mari dell'esistenza per osservarla dal profondo. Uno sguardo colmo di pietas nella sua sincera essenza anti-borghese e anarchica. L'odio per l'ipocrisia, l'esaltazione dei diseredati, la ribellione alle ingiustizie, il gusto profondo della libertà. Di questo parlano le sue canzoni e lo fanno con un linguaggio colto e al tempo stesso diretto e comprensibile a tutti. Il fatto che non finisce di sorprendere è che anche nelle sue invettive più violente contro il potere o l'assurdità della guerra - pensiamo solo a 'La guerra di Piero' - non andasse mai perduta la dolcezza dello sguardo e della voce. Come se la consapevolezza del dolore, della condizione umana, avesse fatto maturare in lui non tanto un senso religioso della vita, quanto una profonda spiritualità laica in grado di accogliere sotto il segno della poesia amore sacro e amore profano, l'uomo giusto e il delinquente, in un unico umanissimo abbraccio. E che questo non fosse un vezzo poetico, una posa romantica, abbiamo avuto modo di constatarlo direttamente l'unica volta che abbiamo incontrato De André, nel 1981, in occasione dell'uscita dell''Indiano', primo album realizzato dopo il sequestro subìto da lui e Dori Ghezzi da parte dell'Anonima sarda. Un'esperienza che lo aveva profondamente segnato. Eppure, nel raccontare di quel suo soggiorno forzato all''Hotel Supramonte', come lo chiamava, non uscì mai una parola se non di solidarietà e comprensione nei confronti dei sequestratori. Anche per questo, a dieci anni dalla scomparsa, De André ci manca da morire. Ma al di là delle tante celebrazioni in suo onore, la spettacolare mostra di Genova, le maratone televisive, il modo più giusto per ricordare un artista come lui che ha sempre viaggiato "in direzione ostinata e contraria" è quello di riproporre l'ascolto del suo meraviglioso canzoniere. Questo è lo scopo di 'Fabrizio De André - L'opera completa', la collezione dei 14 cd originali da studio che, a partire dalla prossima settimana, accompagneranno in edicola 'L'espresso' e 'la Repubblica'. "La maggior parte delle mie canzoni nasce come brevi racconti", diceva De André: "È la materia stessa del narrare a suggerirmi la musica". Il metodo che avrebbe poi seguito durante tutta la carriera si dimostra validissimo fin dal primo lp, 'Volume 1', nel quale confluiranno anche canzoni scritte diversi anni prima. Mentre una pietra miliare come 'La guerra di Piero' all'inizio passò quasi inosservata "per poi essere riscoperta qualche anno dopo, quando anche il verbo 'pacifista' e politico inizia a circolare nelle canzoni", come ricordano opportunamente Gino Castaldo ed Ernesto Assante nel libretto che accompagna questa prima uscita. O, caso ancora più clamoroso, 'La canzone di Marinella' curata da Giampiero Reverberi, che invece uscì come lato B di 'Valzer per un amore' e dovette attendere la versione di Mina per diventare uno dei brani più popolari del canzoniere italiano del Novecento. La prima canzone dell'album 'Preghiera in gennaio' prende spunto da un tragico riferimento, il gennaio del 1967, quello in cui morì Luigi Tenco. A quel cantautore suicida non volevano fare il funerale, ci volle la dispensa del vescovo. E così De André compose per l'amico versi che ancora oggi suonano come un potente 'j'accuse' verso i difensori di un cattolicesimo bigotto: "Quando attraverserà l'ultimo vecchio ponte ai suicidi dirà, baciandoli alla fronte, venite in Paradiso, là dove vado anch'io, perché non c'è l'inferno nel mondo del buon Dio". Questo spirito anarchico e ribelle Fabrizio lo aveva attinto dalla canzone francese. Ma era soprattutto Georges Brassens l'ispiratore delle sua irriverente poetica anti-borghese. La traduzione di una canzone come 'Marcia nuziale', ad esempio, sta lì a testimoniare l'incondizionata ammirazione del discepolo verso il maestro. Ma per De André il motore dell'ispirazione è prima di tutto la realtà. "Una canzone come 'La guerra di Piero'", ricordava in una intervista nel 1979, tratta dall'autobiografia 'Una goccia di splendore' a cura di Guido Harari, "è nata dai racconti di uno zio che si era fatto la Seconda guerra mondiale in Albania". Anche 'La canzone di Marinella' è ispirata alla cronaca di una prostituta uccisa e gettata nel fiume. E così altri personaggi entrati nel nostro patrimonio genetico attraverso le canzoni di Faber. La ragazza che ispirò 'Bocca di Rosa' entrò a casa sua un pomeriggio in cui i genitori erano fuori: "Non è una puttana, è una che ama e si fa amare. E sa che l'amore migliore è quello che non ha futuro". 'Via del Campo', invece, nacque da una boccaccesca disavventura nelle vie malfamate di Genova: "Quando la bella ragazza tirò fuori la carta d'identità scoprii che si chiamava Giuseppe. Fu uno choc. Oggi non se ne stupirebbe nessuno".A raccontare la genesi di 'Carlo Martello' (1962 ) ci pensa invece il coautore, Paolo Villaggio, nell'affettuoso ricordo dedicato all'inseparabile compagno di bohème che compare nel libretto allegato a 'Volume 1'. Villaggio accenna a una notte buia e tempestosa, a un branco di giovani 'fannulloni' affamati e senza una lira. E a un topo morto che l'amico Faber avrebbe inghiottito per vincere una scommessa. Poi prese la chitarra. "'Suono un po' così mi passa'... 'Che bello questo motivo, dico, sembra musica trovadorica'. 'Tu che sei un maniaco di storia medievale', mi dice, 'scrivimi le parole...'" E cominciamo: 'Re Carlo tornava dalla guerra l'accoglie la sua terra cingendolo d'allor...'".
(L’Espresso, 30 gennaio 2009)
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