di Enrico Fierro
Erano i sindaci della ‘ndrangheta. Uomini di paglia, politici del disonore al servizio dei boss. Come il sindaco di Gioia Tauro, 18 mila abitanti, sede di uno dei più importanti porti del Mediterraneo. Si chiama Giorgio Dal Torrione, ha 62 anni e milita nell’Udc di Pierferdinando Casini. Per la procura di Reggio Calabria è il referente dei Piromalli, un uomo a disposizione. Per il gip Kate Tassone «uno dei più pericolosi tra quei tristi personaggi della politica che mettono il mandato del popolo a disposizione delle cosche mafiose».Le conseguenze di questo patto scellerato sono la morte della Calabria. La gip è impietosa nell’analisi: «Il loro atteggiamento perpetua quel perverso meccanismo che rende queste terre del meridione sempre schiave della criminalità mafiosa». Dal Torrione è finito in galera insieme al sindaco di Rosarno, Carlo Martelli di Forza Italia, in una inchiesta che è solo una parte dell’operazione che nel luglio scorso ha messo a nudo i rapporti tra le cosche della Piana, i loro referenti nel mondo affaristico e personaggi di primo livello della politica come Marcello Dell’Utri. Al centro di questa indagine un episodio già portato alla luce della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Francesco Forgione.Una storia emblematica dei nuovi atteggiamenti «culturali» della mafia calabrese. Dal Torrione è un personaggio insidioso «perché ha tentato di mascherarsi da campione dell’antimafia a parole, osando persino avvicinarsi e sedere accanto a magistrati di questo ufficio, mentre nei fatti operava per il crimine organizzato». È l’antimafia dei convegni e degli applausi, quella che non costa nulla anche nella terra dove i sindaci invisi alle cosche vengono uccisi o fatti decadere.Significativi sono i favori che il sindaco fa alle cosche. Il suo comune e quello di Rosarno, in altra epoca politica, si era costituito parte civile nei processi contro i Piromalli. «Uno smacco per le cosche, una sorta di sconfessione pubblica della loro capacità di piegare la pubblica amministrazione agli interessi mafiosi», scrive il gip. Il 4 luglio 2007, Gioacchino Piromalli, 38 anni, rampollo della «famiglia», viene condannato al risarcimento di 10 milioni di euro a favore dei comuni di Gioia Tauro, Rosarno e San Ferdinando. Ma il giovane nipote di uno dei «casati» storici della ‘ndrangheta, padrona degli appalti, ben presente nei cartelli del narcotraffico mondiale, si dichiara nullatenente, povero in canna. Vuole certamente risarcire il danno, ma prestando la sua opera di avvocato. Insomma, lavorerà per quegli stessi comuni che la sua famiglia mafiosa ha gravemente danneggiato. «Il Tribunale di sorveglianza - si legge negli atti della Commissione antimafia - come se nulla fosse e come se non conoscesse la reale identità del soggetto, gira la richiesta alle amministrazioni comunali interessate». Che accettano, non vedendo e truccando gli atti. È Dal Torrione che spinge perché si concretizzi la disponibilità dell’ «avvocato» Piromalli, facendo anche pressioni sul suo segretario comunale. Che firma tutto e ammette: «Mi rendo conto che sono stato utilizzato come una marionetta». Convincere Martelli, sindaco berlusconiano di Rosarno, non è difficile. Si tratta, scrivono i magistrati, «di un sindaco voluto dalla cosca mafiosa dei Pesce, notoriamente legata a quella di Gioia Tauro, anzi con essa federata, eletto grazie all’appoggio fornitogli dal gruppo mafioso che controlla quel territorio». Fortunatamente, però, non tutto lo Stato in Calabria è compromesso. Appena ricevono la richiesta dei comuni di utilizzare il giovane Piromalli, gli uffici dell’Avvocatura di Reggio Calabria informano tempestivamente la procura di Reggio.Sono potentissimi i Piromalli e i loro alleati Molé in tutta la Piana, al punto di poter decidere di deviare il corso dell’autostrada. E’ il vecchio boss Gioacchino Piromalli, lo zio dell’«avvocato» a raccogliere le proteste di un gruppo di proprietari che rischiavano l’esproprio e ad imporre «la modifica dello svincolo dell'autostrada Salerno-Reggio all’altezza di Gioia Tauro».Il sindaco Del Torrione sentiva il fiato sul collo della procura e temeva lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiosa. E così si incontra a Roma con l’onorevole Mario Tassone (Udc) membro della Commissione antimafia. Telefona anche all’onorevole Maria Grazia Laganà, la vedova di Francesco Fortugno, sua avversaria politica. Risponde un tale Fabio, l’accesso dei commissari prefettizi è stato rinviato. «Bisogna stare attenti - dice Fabio - e comunque si tratta di un dato positivo altrimenti avrebbero già chiuso il discorso». Commenta Dal Torrione: «Altrimenti ci avrebbero fatto un culo a cappello di prete».È un classico - scrive la gip Kate Tassone - «che risponde ad una logica che in Calabria non può non definirsi mafiosa, secondo la quale l’esponente politico che sia indagato per mafia, non può fare a meno di prendere contatti con i suoi referenti». «Ma fortunatamente - concludono i magistrati - la Storia non si scrive solo con le dichiarazioni di comodo di amministratori compiacenti, la Storia è fatta di episodi concreti: e quella giudiziaria, in particolare, di quei fatti concreti che prendono il nome di indagini, processi e sentenze».
L’Unità, 14.10.08
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