Intervista a Riccardo Orioles di Giuseppe Scatà
Una volta gli chiesi di criticare il mio pezzo. Lui mi diceva che andava bene, ma questo non mi bastava. Sapevo che non funzionava del tutto, che c’erano delle falle, che si poteva fare di più: «Hai ancora almeno cinquant’anni per diventare un buon giornalista. Nessuno di noi lo è ancora», mi disse. Un bastone, la barba che si infila giusta nella V della camicia sbottonata, il passo misurato, le dita piccole sempre sporche di tabacco da pipa, e delle frasi giuste per accendere luci nel cervello: «Il terzino tira una bomba da 60 metri, e la palla, per un colpo di vento, si va a insaccare nel sette. Ma questa è una probabilità remota, né ci si può puntare per la vittoria della partita. E invece il terzino passa la palla al centrocampista, che dribbla, lancia all’ala, che crossa sulla testa dell’attaccante, che fa la torre alla seconda punta, che insacca. Questo è il gioco di squadra, ed è quello che deve fare la nostra redazione. Gli uomini soli non vanno da nessuna parte…».
Orioles, giornalista siciliano, direttore di Telejato di Pino Maniaci, e di vari giornali di quartiere catanesi («i Cordai», «la Periferica») e napoletani («Napoli Monitor»), ha dedicato tutta la sua vita alla lotta alla mafia, alla criminalità organizzata, al malaffare italiano. Appena divenuto professionista, fu redattore del mensile «I Siciliani», edito a Catania, e diretto e fondato da Pippo Fava nel 1982. Chiusa l’esperienza dei «Siciliani» – con l’assassinio di Fava per mano della mafia – Orioles fonda insieme ad altri il settimanale romano «Avvenimenti», poi nel 1993 insieme a Claudio Fava riprende il progetto «I Siciliani» con i «Siciliani giovani», chiuso dopo un paio d’anni. Dal 1999 scrive un e-zine giornalistico, “La Catena di San Libero”, e nel maggio 2006 crea, insieme a Graziella Proto, il mensile «Casablanca», che chiuderà un anno e mezzo dopo. Con la raccolta dei numeri in mano, e una valigetta col bastone infilato di traverso – come un giornalista vagabondo – mi disse: «È sempre brutto chiudere un giornale. Ma ci sono abituato ormai. Io resisto». Oggi c’è «’U cuntu». E insieme a lui parecchi ragazzi. Che, coraggiosi, ne aspettano altri da tutta Italia.
Che cosa vuol dire fare informazione antimafia oggi?
Non permettere alla gente di adagiarsi nella normalità della mafia. La mafia oggi è “normale”. Non che tutto sia mafia (neanche ai tempi del fascismo tutto era fascismo). Ma la mafia fa ormai parte a pieno titolo delle basi culturali ed economiche del Paese. E politiche, ovviamente.
Per esempio?
Per esempio, abbiamo al governo un partito che prima delle elezioni ha lanciato messaggi quantomeno ambigui: come giudicare il “Mangano eroe” di Dell’Utri? Si può far finta di non saperlo, certo, così si dorme meglio. Anche bravissima gente come Gronchi o Croce, all’inizio, non voleva capire che Mussolini non era la solita destra, ma un’altra cosa. E questo cambiava tutto. Cambia tutto.
Perché è così difficile avere un giornale o una rivista che racconti la verità in Sicilia?
Perché la verità non è solo che “ci sono dei delinquenti”, ma che questi delinquenti sono indispensabili al sistema. Perciò puoi denunciare il singolo episodio, ma non il contesto “normale” in cui si colloca. Puoi fare “fiction” (romantica, folkloristica, comunque “strana”), ma non cronaca e analisi della normalità.
Come si comporta la politica nei confronti dell’informazione-verità?
Come vuoi che si comporti. In certi casi ti sparano. In certi altri ti mettono il bavaglio (è di questi giorni la condanna di Carlo Ruta per il suo sito, vedi box p.55). Ti lasciano alla fame. Oppure ti comprano, se ce la fanno. Da un certo livello in poi, la “politica” – come la chiami tu – non è mai indifferente. O ti sostiene (ma è un caso rarissimo) o ti dà addosso.
Narcomafie, Luglio/Agosto 2008
(CONTINUA SULLA RIVISTA)
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