La sequenza filmata dei funerali del bandito Giuliano. Il racconto dell'avvocato De Maria, ormai centenario, nel cui cortile fu esposto il corpo senza vita del bandito. Queste drammatiche fotografie sono state scattate da Salvatore Scaduto, di Salemi, arrivato tra i primi sul posto del delitto. Il cadavere del bandito è stato ritratto poche ore dopo la messa in scena dei carabinieri del colonnello Luca e del capitano Perenze nel cortile dell'avvocato di Castelvetrano. Il risentimento dei segugi della prima ora per essere stati esclusi dall´atto finale e i ricordi di coloro che furono i primi a vedere la salma.
di LINO BUSCEMI
A Castelvetrano, all'alba del 5 luglio 1950, il cadavere di Salvatore Giuliano, crivellato di colpi nella notte appena passata, dopo un'accurata preparazione, fu mostrato a giornalisti, fotografi e curiosi. La foto che lo ritrae bocconi, con la canottiera intrisa di sangue fra una pistola, un mitra, uno zaino, alcuni ufficiali dei carabinieri e il procuratore generale Emanuele Pili, nel cortile della casa dell'avvocato Gregorio Di Maria (e non De Maria, come erroneamente si legge nella maggior parte dei testi in circolazione sulla morte del bandito di Montelepre), ha fatto il giro del mondo e da sola suggella la fine di un importante pezzo di storia del dopoguerra siciliano e l'inizio di una intrigata vicenda dai contorni oscuri e mai del tutto chiariti. La prima versione ufficiale costruita a tamburo battente per i giornalisti fu che Giuliano cadde nel corso di un conflitto a fuoco con una squadriglia dei carabinieri diretti dal Capitano Antonio Perenze.Il colonnello Ugo Luca, numero uno del Comando Forze Repressione Banditismo in Sicilia (Cfrb), l'avallò senza tentennamenti. Alle 6 di quello stesso 5 luglio fece trasmettere un dispaccio al ministro dell'interno Mario Scelba e al comando generale dell'Arma a Roma: «Da Castelvetrano colonnello Luca segnala che ore 3,30 oggi dopo inseguimento centro abitato et conflitto a fuoco sostenuto da squadriglie del Cfrb rimaneva ucciso il bandito Giuliano. Nessuna perdita parte nostra. Cadavere piantonato disposizione autorità giudiziaria…». Naturalmente il governo, soddisfatto dall'eccellente risultato, diffuse l'informazione e la difese strenuamente, in Parlamento e fuori, considerandola l'unica verità. Nel corso del Consiglio dei ministri, riunitosi poche ore dopo l'arrivo della lieta notizia, i ministri si alzarono e battendo le mani scandirono: «Viva Luca, promuoviamolo generale subito».
Passata l'euforia, cominciarono a insinuarsi i dubbi. È un susseguirsi di voci che prendono corpo a Castelvetrano e arrivano ai piani alti dei palazzi. Diversi particolari non quadravano, soprattutto perché a primo acchito contraddicevano il racconto di chi quella notte, nella via Mannone a pochi passi da casa Di Maria, vide e udì una fragorosa sparatoria. A storcere per primi il naso, su quella che poi verrà definita una "sceneggiata" ben orchestrata, furono proprio due carabinieri "scontenti": il colonnello Giacinto Paolantonio e il maresciallo Giovanni Lo Bianco. I due dopo un anno di lavoro, gomito a gomito, proprio nella fase conclusiva della vicenda Giuliano, all'improvviso furono scaricati da Luca, che non li informò della cattura imminente. Anzi, alla chetichella, la sera del 4 luglio si fa accompagnare di corsa a Camporeale, a un tiro di schioppo del teatro delle "operazioni".Evidentemente nella testa di Luca covava da tempo l'idea — come sostiene Lo Bianco — «di attribuirsi in partenza tutto il merito dell'eliminazione di Giuliano per avere la certezza della sua promozione. Oppure, cosa forse più attendibile, per assecondare Gaspare Pisciotta che gli avrebbe imposto tale decisione intuendo che noi (io e Paolantonio) avremmo potuto ostacolare il suo piano che era quello di non consegnarci il suo capo bandito vivo». Quasi di malavoglia ma con rabbia, Paolantonio, di propria iniziativa, raggiunse la mattina del 5 luglio Castelvetrano e lì, vecchia volpe, intuì che le cose, probabilmente, andarono diversamente di come volevano far credere Perenze e Luca. Egli, che conosceva bene Giuliano e anche la sua vanità, non si capacitava, alla vista del cadavere, di alcune cose: come era vestito, l'assenza nel polso destro dell'inseparabile orologio d'oro, la strana canottiera insanguinata, ma soprattutto le ferite sotto l'ascella destra che apparivano non recenti. Paolantonio avrà anche raccolto qualche confidenza e si sarà fatta una precisa opinione che la sera stessa svelò al maresciallo Lo Bianco.L'inseparabile duo giunse a delle conclusioni che ritenne di portare subito a conoscenza di un eminente uomo politico siciliano, il quale, notoriamente, nutriva nei confronti del ministro Scelba la stessa simpatia che il limone ha per il bicarbonato. Scrive Lo Bianco nel suo resoconto inedito della fine di Giuliano ("Il carabiniere e il bandito", edizione Mursia): «Qualche giorno dopo il col. Paolantonio si recò dall'allora Presidente della Regione, Franco Restivo... al quale aveva esposto tutto dettagliatamente. Fu così che il parlamentare ritenne di informare della vicenda il suo amico dottor Renzo Trionfera, redattore romano del settimanale L'Europeo, che inviò subito a Castelvetrano il giornalista Tommaso Besozzi». Tale circostanza è confermata dal giornalista Aurelio Bruno e dall'avvocato Emanuele Limuti nel loro libro "Spie a Palermo" (edizione Lussografica), i quali parlano di uno scoop «pilotato dall'alto e che contribuì a fare esplodere lo scandalo, invece di soffocarlo». Besozzi raggiunse il luogo del delitto, incontrò diverse persone. Infine per il numero 29 del suo settimanale scrisse il memorabile pezzo dal significativo titolo "Di sicuro c'è solo che è morto. Un segreto nella fine di Giuliano".
Una vera e propria inchiesta con la quale, punto per punto, Besozzi contestò la versione ufficiale dei carabinieri e dimostrando che nel cortile Di Maria fu organizzata una pacchiana messa in scena. C'erano molti particolari che alimentavano i dubbi: alcune ferite nel corpo di Giuliano, specie quella sotto l'ascella destra — sono parole di Besozzi — sembravano tumefatte come se risalissero a qualche tempo prima; altre erano a contorni nitidi e apparivano più fresche. Due o tre pallottole lo avevano raggiunto al fianco e avevano prodotto quei fori grandi a contorni irregolari tipici dei colpi sparati a bruciapelo; altre erano entrate nella carne lasciando un forellino minuscolo perfettamente rotondo. Il tessuto della canottiera appariva intriso di sangue dal fianco alla metà della schiena, e sotto quella grossa macchia (aveva oltre due palmi di diametro) non c'erano ferite. Concluse che era logico pensare che il corpo del bandito anziché bocconi fosse rimasto per qualche tempo in posizione supina, perché tutto quel sangue doveva essere sgorgato dalle ferite sotto l'ascella e certamente era sceso, non poteva essere andato in su. Insomma per Besozzi Giuliano è stato ucciso altrove (da chi?) e non dai carabinieri. Che il giornalista avesse colto nel segno lo testimonia l'"avvocaticchio" Di Maria (un arzillo quasi centenario residente ancora a Castelvetrano e che certamente si porterà nella tomba i tanti segreti sulla reale fine di Turiddu) il quale telefonò allarmato a Perenze dicendo: «Cosa posso fare? Sono rovinato! Avevate detto che tutto sarebbe filato liscio a casa mia. E invece…». Il Perenze lo convinse a sporgere querela contro "L'Europeo" invitandolo a non parlare con nessuno. Come finì la querela non si è mai saputo.Anche l'inviato de "L'Unità" Maurizio Ferrara (padre di Giuliano) quel 9 luglio 1950, scrisse un lungo articolo dal titolo "Come fu ucciso Giuliano? Il racconto del cap. Perenze smentito dai fatti". Una serie di riflessioni, interrogativi e tanti dubbi. È, tuttavia, un'altra penna de "L'Europeo", Nicola Adelfi, che completa "l'opera" di Besozzi Sul numero 30 del settimanale, Adelfi scrive un lungo articolo che non si presta ad equivoci già nel titolo: "La verità sulla morte di Salvatore Giuliano. Lo uccise nel sonno Pisciotta".Nell'estate 2007 chi scrive (insieme allo studioso Giuseppe Maniglia che filmò tutto), intervistò l'avvocato Di Maria su quel che accadde quella calda notte nella sua abitazione. «A mezzanotte e mezza del 5 luglio — affermò papale papale il Di Maria — arrivò Gaspare Pisciotta e alle tre e mezza o giù di lì uccise Giuliano. Dormivo nella stanza vicina a quella del mio ospite: ho visto i lampi e ho sentito due spari. Pisciotta scappò passandomi davanti al letto. Mi alzai e vidi Giuliano morto riverso sul letto. Mentre cercavo di pensare cosa fare, bussarono alla porta con insistenza. Era Perenze con due carabinieri. Presero il cadavere, lo vestirono alla meglio e lo portarono giù nel cortile. Poco prima mi intimarono di non muovermi. Dopo alcuni secondi di silenzio, sentii ripetuti colpi di mitra». Qualche anno fa, Franco Grasso rivelò (vedi il volume edito da Kalós "Le radici del presente" e alcune interviste rilasciate a Tano Gullo di "Repubblica") che anche lui avvertì, in quanto presente quel 5 luglio del 1950 a Castelvetrano, il giornalista Tommaso Besozzi dell'imbroglio di cortile Di Maria. Gli disse testualmente, dopo avere incontrato all'obitorio il medico legale Ideale Del Carpio: «Fai attenzione. Non credere una parola di quel che ti diranno Luca e Perenze. Giuliano è stato ucciso a tradimento nel sonno. Hai tutto il tempo per accertarlo, prima che esca il tuo settimanale ».Sappiamo come finì: non successe nulla. Il Potere si chiuse a riccio e nessuno pagò. Anzi furono tutti promossi: Luca divenne generale di brigata; Perenze maggiore e poi colonnello; Paolantonio fu nominato comandante dei vigili urbani di Palermo; per l'eccellenza Pili (al momento dei fatti il più alto magistrato del distretto che non disdegnò di incontrare, alcuni mesi prima, il latitante Giuliano), dopo la pensione, gli riservarono un posto di riguardo presso l'ufficio legale della Regione.
(La Repubblica/Palermo, 06 luglio 2008)
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