Una sola musica, quella del traffico. Oltre l’angolo, nel grigio di viale Lunigiana, sobbalzano monotone centinaia di automobili. Qualcuna riposa in doppia fila, altre si agitano, e vanno su e giù, secondo il ritmo dei semafori. La via è una semplice traversa laterale: primo incrocio a destra, dopo il tunnel della stazione. Qui, un tempo, c’era il «Polverone», la vecchia balera dei ferrovieri. E poi, il bar Trabacchi, con i suoi tavolini verdi, e le stecche da biliardo: dove chiunque, per poche lire, poteva improvvisarsi campione. Un po’ più in su, l’antico Dazio, ed è lì che iniziavano i prati. Milano, via Cristoforo Gluck. La strada, un tempo, assomigliava ad un piccolo paese: col suo vinaio, il suo panettiere, e il suo lattaio. La vetraia era una signora grande, grossa, e dai modi spicci, una vera «milanesona». Al suo posto, oggi, c’è un Internet point, gestito da egiziani. E’ qui, seduto sul bordo dei marciapiedi, che Adriano Celentano strimpellò le sue prime canzoni. «Da allora, purtroppo, sono cambiate moltissime cose», sorride Franco Catalano, il barbiere. «Quasi tutti se ne sono andati. Al loro posto, hanno fatto comparsa gli extracomunitari: cinesi, arabi, sudamericani. E anche loro restano per poco, poi traslocano di nuovo. Ormai, è così: non ci si conosce più». Eppure capita, a volte, che gli ultimi superstiti decidano di darsi appuntamento. Lo fanno nella sua bottega, oppure alla gelateria, che esisteva già ai tempi, ma poi ha cambiato gestione. Hanno 70 anni, i vecchi gluckiani, ed è così che si sono ribattezzati: capelli bianchi, schiena curva, passo lento. Sono quelli che hanno deciso di rimanere «a piedi nudi, a giocare nei prati», godendosi gli ultimi anni spensierati, prima dell’avanzata fatale della metropoli. Solitaria, appesa sul muro, sopravvive qualche sbiadita fotografia in bianco e nero: gruppi di amici in canottiera, sorrisi ingenui. E, in mezzo, sempre lui, il più assente tra gli assenti: un Celentano ventenne, che da questa via spiccò il volo, giovanissimo, verso i più alti lidi dello star system canoro. «E’ tanto, che non torna – sospira Franco, mentre, ramazza in pungo, sgombera le piastrelle dalle chiome levantine dell’ultimo cliente -. Da quando è morta la sorella, credo, molti anni fa: Rosa, si chiamava. Era la sua seconda mamma». Ma c’è chi ancora non si è dato per vinto. Come Pierluigi Chiaregato, «Gigetto», classe 1938, che ogni tanto, testardamente, riprova a contattare il suo vecchio amico. «Per adesso, non ci sono riuscito», racconta. «E’ un peccato, però, perché mi farebbe piacere incontrarlo». Era lui, ai tempi delle scuole, il vero capobanda: «Praticamente, siamo cresciuti assieme, e assieme facevamo un sacco di stupidate. Io gridavo: "Voglio un gruppo di fegatosi, bisogna provocare il nemico". Il nemico erano i ragazzi di via Ponteseveso: Adriano si offriva volontario, e poi si partiva. Ci picchiavamo tutti i giorni, come ossessi». Tempi lontani: quando l’asfalto appariva un miraggio, e la città qualcosa di lontano e indefinito, quasi un altro mondo. «Mio padre, per passatempo, faceva il musicista. Aveva un sacco di dischi, e noialtri trascorrevamo le ore attaccati al suo grammofono. C’erano i Platters, le prime cose di Elvis, e poi, il nostro preferito, Louis Amstrong. Lo chiamavamo "il Luigino": ne andavamo pazzi». Adriano Celentano nacque al piano terra del civico 14, in una fatiscente casa di ringhiera: l’unica, fino ad ora, a non aver conosciuto ristrutturazioni. Ci visse fino ai 13 anni. Poi, nel 1951, si trasferì altrove, a «respirare il cemento». Il padre si chiamava Leontino, e di lavoro faceva il sarto. Del suo laboratorio, oggi, non resta che una saracinesca grigia, colma di ruggine, e apparentemente sigillata. «Abitavano qui», sorride Gigetto. «E io, nel palazzo di fronte. Tra me e Adriano, c’erano solo quattro mesi di differenza. Io sono nato a maggio, lui il 6 gennaio. Dicevano: "Sembra un regalo della Befana". E forse avevano ragione. Ma il vero dono, alla fine, ce lo ha fatto lui. Erano gli anni Sessanta, già cantava, e già riscuoteva i primi successi. Un giorno passò a trovarci, e gli dicemmo: "Fai tante canzoni, ma già ti sei dimenticato della tua strada?" Così nacque "Il ragazzo della via Gluck". Trascorse qualche mese, poi Adriano tornò, e ce la suonò in anteprima. Lui, con la chitarra in braccio, ritto sul tavolaccio dell’osteria, e noi amici, tutti attorno, come tanti bimbi estasiati». Sono passati più di quattro decenni. Il portone, al 14 di via Gluck, è sempre di legno, come si usava una volta. Pochi metri di androne, e poi il cortile, coi panni sventolanti, e le antenne paraboliche, in bilico, all’ombra delle tegole. I nomi, sulla cassetta della posta, sono quasi tutti stranieri: arabi, perlopiù, e indiani. A terra, qualche vetro rotto, ruote di biciclette, e vecchi calcinacci. Avverte un cartello: «E’ vietato posteggiare le moto». In pochi, però, sembrano farci caso. In fondo, sulla sinistra, c’è persino il vecchio gabinetto: quello «giù nel cortile». Un lavabo, e i resti di una turca: il tutto, seppellito sotto una colorata montagna di rifiuti. «Celentano? Certo che so chi è», gesticola Anwar, 25 anni, egiziano, uno dei tanti nuovi inquilini del celebre palazzo. «In tanti vengono a chiedere di lui. E’ bello, mi piace vivere qui. Un giorno, gli amici mi hanno detto: "Lo sai, Anwar? Nella via Gluck c’è una casa libera". E io subito ho pensato: "Caspita, proprio nella strada di Adriano"». Meno entusiasti, sono i superstiti di nazionalità italiana. Rari, rarissimi: una signora, al secondo piano, la vecchia portinaia, e qualche giovane coppia coi figli. Molti, addirittura, preferiscono non parlare. «Colpa» del Molleggiato, della sua fama, e di ciò che con gli anni ha trascinato con sé: interminabili orde di fotografi, cameraman, e cronisti d’assalto. Tutti ugualmente affamati di curiosità, e senza alcuno scrupolo verso la privacy altrui. Un vero e proprio caso di sovraesposizione mediatica, che ben pochi altri luoghi, in Italia, sono riusciti ad eguagliare. «La cosa più triste – spiega Marco, ex studente e gluckiano d’importazione dal 2002 - è che l’edificio, nonostante tutto, continua ad andare a rotoli. La fama resiste, ma non porta nulla: né soldi, né vantaggi, né migliorie. Per questo, vorrei rivolgermi direttamente a Celentano: Adriano, so che non lo fai da tempo, ma credo sia giunta l’ora di tornare nel luogo dove sei nato. Troppe cose non vanno bene. Ti chiediamo solo d’aiutarci: con una Fondazione, una Onlus, come vuoi tu. Perché questa casa, in fondo si merita di meglio: forse, qualcosa in più che una semplice canzone». Maria Elena Scandaliato e Andrea Sceresini 11 giugno 2008 |
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