Cominciare da qui, da questa piazza, da questo borgo, con alle spalle questo magnifico panorama italiano, è un modo per dire a cosa pensiamo: non al destino di questo o quel leader, non a questo o quel partito, ma al destino dell’Italia, al nostro Paese, alla sua struggente e meravigliosa bellezza e alla sua storia grande e tormentata, alle gravi difficoltà del suo presente e alle straordinarie potenzialità del suo futuro.
E’ un modo per metterci in sintonia con quelle che sono state chiamate le correnti profonde della storia. Perché tutti noi viviamo, giorno per giorno, sulle increspature superficiali, quelle sulle quali si scatenano le tempeste e poi si distendono le bonacce. Ma è solo se scendiamo più in profondità, che possiamo provare a capire dove il mare della storia ci sta portando.
Le correnti profonde della storia non sono fenomeni fisici, anonimi, che ci sovrastano e ci schiacciano. Sono vite concrete di donne e uomini in carne e ossa, sono i nostri padri e i nostri nonni, che attraverso di noi congiungono i loro giorni a quelli dei nostri figli e dei nostri nipoti. Sono la memoria che si fa speranza, il passato che si apre al futuro e attraversando il presente lo riempie di senso.
Sembra di vederla, da quassù, la storia straordinaria e dura, aspra e sofferta, del nostro popolo, del nostro Paese. Un popolo che per secoli ha lavorato la terra, l’ha come addomesticata, addolcita, umanizzata. Ed ha impreziosito le straordinarie bellezze naturali d’Italia – dalle coste del Mediterraneo, attraverso le colline e la grande pianura, fino alle Alpi – con un immenso tesoro di borghi e castelli, di templi e cattedrali, di ville e palazzi.
Nessun popolo della terra ha ereditato tanto dai suoi progenitori. E nessun popolo, meglio del nostro, è messo nelle condizioni di capire come lo sviluppo economico non solo non sia in contrasto, ma possa e debba sposarsi con la qualità della vita.
Troppo a lungo crescita economica e salvaguardia dell’ambiente, espansione urbanistica e tutela del patrimonio artistico, perfino lavoro e cultura, occupazione e scolarizzazione, sono stati pensati come valori contrapposti, come se l’uno fosse una minaccia per l’altro.
E invece, oggi abbiamo compreso che quei valori sono tali solo se promossi insieme. Lo sviluppo contro l’ambiente non è sviluppo. Ma anche viceversa: una difesa dell’ambiente che si riduca alla moltiplicazione di vincoli e veti contro la crescita è sterile e perdente. E invece, un nuovo ambientalismo, un ambientalismo positivo, un “ambientalismo del fare”, come lo abbiamo chiamato, inserito in una nuova cultura della sostenibilità e della qualità della vita, può diventare un formidabile volano di sviluppo. Prendiamo il sole: non è solo un’alternativa al petrolio per la salute della Terra, ma uno dei principali traini della crescita di domani.
Questa è la modernità che ci piace. Quella che unisce l’incremento del Pil alla qualità della vita e alla tutela della natura.
In un mondo che si va facendo sempre più piccolo e nel quale miliardi di donne e uomini, pur tra mille contraddizioni e tra enormi disuguaglianze, si vanno finalmente affacciando da protagonisti del nuovo contesto globale, l’Italia potrà restare protagonista solo se saprà e vorrà nutrire l’ambizione di puntare al primato nello sviluppo di qualità. Anche per questa via, la nostra memoria può trasformarsi nella nostra speranza.
La qualità è la nostra unicità. E’ la sola cosa che nessuno può clonare o delocalizzare. La qualità è l’Italia. E l’Italia è la qualità.
Non bisogna aver paura del nuovo. Il futuro è l'unico tempo in cui possiamo andare. Ma il nostro paese, i suoi meccanismi politici ed istituzionali, sembrano temere le cose nuove. Sembrano paralizzati dal demone del conservatorismo. Sembrano pensare che il mestiere di chi può decidere sia solo quello di rinviare; il mestiere di chi ha il potere sia solo quello di usarlo per mettere veti, paletti, bloccare sul nascere quella meraviglia che è il nuovo. Il nuovo che sorge dal talento, dalla scienza, dall’energia delle donne e degli uomini.
Il nostro Paese deve tornare ad avere voglia di futuro.
Una nuova generazione di italiani chiede una Italia più aperta e dinamica, più giovane e mobile.
L'Italia del nuovo millennio, non l'Italia della fine del secolo precedente.
L'Italia dell'ascolto e della ricerca, l'Italia del rigore e della responsabilità, l'Italia dei doveri e non solo dei diritti.
L'Italia della mobilità sociale e non dei corporativismi asfissianti.
L'Italia della ricerca, della scienza e della tecnologia e non degli steccati ideologici.
L’Italia della legalità e non della furbizia.
L'Italia che ritrova i valori, il senso della sua grandezza e l'orgoglio di sé.
Perché una comunità umana non vive senza i valori, senza le ragioni che illuminano il cammino collettivo e forniscono un senso alle cose.
Non possiamo essere una società che conosce “il prezzo, ma non il valore delle cose”. Una società arida, in cui rapporti umani sono puramente strumentali e si vive schiacciati dall’egoismo, dall’insicurezza e dalla solitudine.
Oggi il Paese, chi vive e parla con gli italiani lo sa, sembra cupo, impaurito. Sembra aver perso quella certezza che domani sarà meglio di oggi. Certezza che è l'energia vitale di una comunità. L’energia che si ritrova nei racconti di quella generazione che ha ricostruito l'Italia dopo la guerra.
I contadini speravano e sapevano che il loro figlio non aveva un destino obbligato, che un giorno volendo avrebbe potuto andare a cercar fortuna in città, e diventare un operaio, un impiegato, un insegnante.
Gli immigrati speravano e sapevano che loro o i loro figli un giorno sarebbero tornati nel loro paese sereni e rispettati per il lavoro svolto lontano da casa.
Operai ed artigiani di talento mettevano su laboratori e poi fabbriche, individuando originali tecniche e nuovi prodotti. E cambiavano così la loro condizione sociale.
Il Paese si rimboccava le maniche, faticava ma sorrideva al futuro che stava costruendo.
Il Paese correva, animato da fiducia e da uno spirito solidale, non bloccato dalle divisioni politiche e ideologiche, assai più drammatiche, allora, di quanto non siano oggi.
E' quello spirito che dobbiamo ritrovare.
L'orgoglio di essere italiani, la voglia di correre, di rischiare, di conquistare nuove frontiere e nuove possibilità.
Mai come oggi la scienza ci ha dato la possibilità di migliorare la nostra vita.
Ogni anno la sua durata media si allunga di qualche mese. Gli italiani che cercavano le foto della famiglia tra le macerie delle case bombardate vivevano in media poco più di sessant’anni. Oggi viviamo vent’anni di più, e i dati demografici dicono che nel 2017 gli ultraottantenni saranno quasi raddoppiati.
La nostra vita media è più lunga perché ci curiamo meglio, perché c'è meno povertà, perché nonostante ciò che si pensa l'acqua, l'aria e il cibo sono più controllati.
Viviamo più a lungo perché viviamo meglio.
So che dire questo contrasta un po’ col luogo comune per cui ieri è sempre meglio di oggi. Ma è proprio di questo che ci dobbiamo liberare.
Non restiamo con la testa rivolta all’indietro, ad un passato del quale dobbiamo riconoscere la grandezza e dal quale, come abbiamo detto, possiamo trovare stimoli. Ma invece viviamo pienamente il presente e volgiamo lo sguardo al futuro.
Oggi abbiamo immense possibilità: di sapere, di conoscere, di viaggiare e dialogare, di scoprire.
Eppure. Eppure sembriamo smarriti. Perché abbiamo perso il senso delle cose. Perché ci hanno detto per anni che gli altri sono solo concorrenti, persino nemici. Che il destino dell'altro non ci riguarda. E così abbiamo smarrito la voglia collettiva di cercare, di rischiare, di cambiare.
La società italiana nel tempo del suo possibile massimo dinamismo sembra ferma, inchiodata da spiriti di conservazione, da logiche di veto. Degli uni e delle altre una certa politica è la massima responsabile.
Una politica che nello stesso giorno in cui un uomo che fa onore all’Italia, Umberto Veronesi, indicava vie nuove per il futuro della lotta al cancro, dava un triste spettacolo di sé, con quegli schiamazzi e quegli sputi nell’Aula del Senato che hanno dato un’immagine dell’Italia che non meritiamo e non vogliamo più vedere. E state certi che quel senatore troverà ospitalità in qualche lista.
Quelle urla sono la più brutta espressione di una politica senza radici nella grande storia italiana, ripiegata su se stessa, priva della voglia di rischiare, di conoscere le sfide brucianti di un tempo nuovo. Dell’incapacità di fare ciò per cui il Presidente Napolitano non ha mai smesso di spendere energie e saggezza: mettere al primo posto il bene del Paese, al primo posto l’amore per le istituzioni. Quello che nelle ultime settimane avrebbe dovuto far scegliere non la propria presunta convenienza, ma la riscrittura delle nostre regole comuni: una legge elettorale per la stabilità e la riduzione della frammentazione del sistema politico, una sola Camera legislativa, la riduzione del numero dei Parlamentari e dei costi della politica.
Si è scelto altro. E noi siamo pronti.
E' all'Italia vera, che noi parliamo.
Verrà presto, tra solo sei giorni all’Assemblea Costituente del Partito democratico, il tempo di tornare a parlare il linguaggio asciutto e severo dei programmi. Il tempo di spiegare e chiarire le nostre proposte, e di ribadire ad esempio che oggi è possibile ridurre le tasse, perché la lotta all’evasione ha dato risultati. Io rimango della mia idea: pagare meno, pagare tutti. Oggi, grazie al lavoro del governo Prodi, possiamo fare quello che non è mai stato fatto. Quello, gli italiani lo sanno, che è stato ogni volta annunciato ai quattro venti, ma non realizzato.
Verrà il tempo per dire agli italiani ciò che è nostro dovere dire: questo è il nostro progetto per cambiare il Paese, queste sono le cose che faremo per fronteggiare i problemi e trovare soluzioni.
E lo potremo dire guardando negli occhi l’Italia, perché abbiamo deciso, unilateralmente, di correre liberi. Liberi, più che soli.
Liberi di poter finalmente non mediare parole, non attenuare cambiamenti possibili, non rinunciare a ciò che si crede giusto.
Guardiamo negli occhi l'Italia e le diciamo: comincia un tempo nuovo.
Il tempo del coraggio e del cambiamento. Il tempo della decisione e della responsabilità.
Gli occhi degli italiani hanno visto troppo odio e divisioni in questi anni.
Unire l'Italia, restituirle forza e orgoglio di sé.
Ritrovare quel desiderio del nuovo che è l'energia vitale di una comunità.
Chi, più di noi, più degli italiani, può unire passato e futuro?
L'Italia deve essere unita. L'odio e le divisioni di questi anni ci hanno fatto perdere occasioni importanti.
Non si è voluto capire ciò che è naturale ad esempio nelle grandi democrazie anglosassoni: che è necessario scrivere insieme le regole del gioco per poter poi competere per il governo nella distinzione di programmi e valori. Sempre nella consapevolezza che c’è una cosa più importante di ogni altra: l’interesse generale, il bene dell’Italia e degli italiani.
Ora bisogna rimettersi in cammino.
Perché non ci sono due Italie separate da muri invisibili. Né è giusto mettere sulle regioni, sulle città, sulle case e persino sulle teste degli italiani delle bandierine di colori diversi.
Gli italiani non “appartengono” a nessuno, se non a se stessi. Appartengono alla propria coscienza, alla propria mente, al proprio cuore. Ed è così che decideranno, il 13 aprile.
Di una cosa sono certo: gli italiani vogliono uscire dalla confusione, dall’instabilità e dall’immobilismo. Vogliono una stagione nuova.
L'Italia deve lasciare l'odio e scegliere la speranza.
L'Italia deve lasciare la paura e scegliere il nuovo.
La memoria impressa nel paesaggio italiano, lo splendido paesaggio che sta alle mie spalle, racconta la storia dell’Italia delle cento città: una storia di eroiche lotte per la libertà e, insieme, di crudeli guerre fratricide. Firenze contro Siena. E dentro Firenze, guelfi contro ghibellini. E guelfi neri contro guelfi bianchi, via via frazionando e frammentando.
Come se la libertà non potesse affermarsi se non contro l’unità. E come se l’unità dovesse fatalmente comportare il sacrificio della libertà. Una frattura mai del tutto ricomposta e che troppe volte è costata all’Italia il prezzo della subalternità ad altre potenze, a umilianti domini stranieri.
E invece è proprio quando si sono mossi spinti dal desiderio di unità, che gli italiani hanno fatto le cose più grandi.
E’ così che una terra divisa in piccoli regni, granducati e domini stranieri è diventata una nazione: grazie a chi immaginò ciò che non esisteva, a chi lottò per realizzarlo.
E’ così che l’Italia è uscita dal buio della dittatura, dalla vergogna delle leggi razziali, dall’abisso della guerra : grazie a donne e uomini che ebbero il coraggio e la moralità di mettere la libertà del loro Paese davanti a tutto, davanti alle loro stesse vite.
Uniti sotto il tricolore, sotto la bandiera italiana. Uniti nella Resistenza: quella attiva dei partigiani, quella silenziosa dei deportati, quella operosa dei tanti giusti che seppero aprire la porta a chi cercava aiuto.
L’altro giorno, la sera stessa in cui abbiamo presentato il nuovo sito internet del Partito democratico, è arrivata una mail. Poche righe, a raccontare un pezzetto della nostra storia. “Ricordo con grande nostalgia – dice la lettera – quando mio nonno mi portava nella stalla a vedere i buoi, io avevo quattro cinque anni. Mi raccontava tante storie, ma una la ricordo molto bene. E' quella di quando lui aveva nascosto nella stalla un gruppo di partigiani che erano sfuggiti ad un rastrellamento fascista e aveva messo a repentaglio la sua vita e quella di tutta la sua famiglia. Però l'aveva fatto e ancora ricordo che me lo diceva come se fosse la cosa più ovvia. Di fronte alla difesa della libertà e della propria patria non c'è esitazione, si fa cosa si deve fare e basta. Non l'ho mai ringraziato abbastanza per queste storie, certo che ancora oggi che ho 51 anni le ricordo volentieri, sono parte di me stesso me le porto dentro di me. Vorrei che il Partito Democratico avesse questi sapori veri, autentici”.
L’Italia è questo. L’Italia è andata avanti così. Così è diventata una grande democrazia, uno dei pilastri della nuova Europa unita, dell’utopia di Altiero Spinelli divenuta realtà.
L’Italia ha costruito il meglio, ha dato le prove più belle di sé, quando ognuno, da chi aveva le più grandi responsabilità alla persona più semplice, ha saputo curare più di ogni altra cosa l’interesse nazionale, ha saputo fare nel modo più naturale, “come fosse la cosa più ovvia”, ciò che sentiva giusto, ciò che serviva davvero al Paese.
E’ così, unita, che l’Italia è uscita dagli anni di piombo. Avevano il tricolore in mano, quei lavoratori che la mattina del 16 marzo del ’78 riempirono le piazze d’Italia contro gli assassini che aveva lasciato a terra cinque ragazzi delle forze dell’ordine e avevano portato via un uomo di stato e di dialogo come Aldo Moro. Con il senso di quella unità il terrorismo è stato sconfitto.
E’ di uno spirito così che il Paese ha bisogno. La priorità sono gli interessi nazionali, non quelli di parte.
Oggi come ieri. Oggi che, come un albero sotto il peso della neve, l’Italia appare piegata, oppressa, legata da nodi strutturali che nessuno sembra in grado di sciogliere.
Sono trascorsi ormai quasi vent’anni dal crollo del Muro di Berlino e dalla crisi definitiva della politica ideologica. L’Italia ha conosciuto l’alternanza al governo e la competizione bipolare tra centrodestra e centrosinistra. Ma non è ancora riuscita a liberarsi dai fantasmi di quella stagione.
Da quasi quindici anni, questi due schieramenti si sono alternati alla guida del Paese. Hanno fatto cose buone e meno buone. Ma nessuno dei due è mai riuscito a vincere le elezioni per due volte di seguito. Ogni volta la delusione per chi stava al governo ha spinto gli elettori a premiare l’opposizione.
Il bipolarismo che abbiamo conosciuto in questi anni si è dimostrato incapace di uscire dallo schema dello scontro ideologico. L’ideologia non c’era più, ma è come se la politica non fosse capace di rinunciare ai suoi cascami: la cultura del nemico, il dualismo manicheo, la demonizzazione dell’avversario, a volte un vero e proprio sentimento di odio, almeno predicato e ostentato, nei confronti della parte avversa.
“Non faremo prigionieri”, è la frase celebre di un ministro della Difesa: anno del Signore 1996. L’Italia non era in guerra con nessuno, per fortuna, quindi non c’erano nemici alle porte da minacciare. L’Italia stava entrando nel bipolarismo politico, mimando i toni e i linguaggi di una guerra civile. Due alleanze sempre più sterminate, accomunate più dalla eccitata volontà di battere l’avversario, che da un chiaro programma di interventi incisivi e netti sui mali strutturali del Paese.
Non sorprende che in questi anni nessuno di questi mali sia stato affrontato in modo risolutivo: non il debito, non lo squilibrio Nord-Sud, non i ritardi delle infrastrutture, non l’inefficienza della pubblica amministrazione.
Le cose buone che pure sono state fatte sono state fatte quasi sempre sull’onda dell’emergenza, a cominciare dalla spettacolare rimonta che all’Italia governata da Romano Prodi, nel tempo del primo Ulivo, nella stagione più feconda della recente storia italiana, consentì di centrare l’obiettivo dell’ingresso da subito nell’Euro.
Ma la politica in questi anni non è riuscita a imprimere forza, a portare avanti quelle grandi riforme, quelle liberalizzazioni e modernizzazioni di cui l’Italia ha bisogno.
Non sorprende allora che i cittadini stiano scoprendo una crescente insofferenza nei confronti di un sistema politico roboante e inconcludente, invadente e impotente, costoso e inefficiente.
Una politica che divide il Paese, invece di unirlo per far fronte ai problemi di tutti. Una politica che divide non solo tra destra e sinistra, ma anche tra Nord e Sud, tra italiani e immigrati, tra dipendenti e autonomi, tra padri e figli, tra laici e cattolici.
La stragrande maggioranza degli italiani è stanca di una politica come questa, che crea una conflittualità esasperata e la usa come alibi per non affrontare i veri problemi del Paese: come far ripartire la crescita economica, come rimettere in moto l’ascensore della mobilità sociale, come valorizzare talenti e meriti, allargando gli spazi di libertà delle persone, come ridare potere di decisione alla democrazia.
Gli italiani non ne possono più di piccoli interessi e di vedute ristrette. Riconoscono le soluzioni semplicistiche offerte a problemi complicati. Capiscono quando poche minoranze cercano di imporre la propria visione come fosse una verità indiscutibile, senza curarsi del fatto che così si alimentano solo divisioni, contrapposizioni, conflitti che non portano a nulla.
Gli uni contro gli altri armati. Sempre e comunque. Costi quel che costi.
Gli italiani vogliono altro. Meritano altro. Perché sono altro.
L’Italia non si deve rialzare.
L’Italia è in piedi. Sono in piedi gli italiani.
E’ la politica che si deve rialzare.
Gli italiani sono i milioni di donne e di uomini che ogni giorno faticano e lavorano, e che a volte per quel lavoro, con indosso una divisa o addirittura una tuta da operaio, rischiano la vita.
Gli italiani sono gli imprenditori che hanno le idee, che hanno il coraggio di spendersi in prima persona per vederle realizzate, che scelgono la strada della qualità e dell’innovazione, che mettono tutta la tenacia e tutta la capacità di lavorare per ore e ore ogni giorno nel progetto in cui credono.
Gli italiani sono i ragazzi che studiano, che investono su stessi, che non si perdono d’animo anche quando si accorgono che per salire devono spendere energie cento volte di più di altri, perché conta ancora troppo dove si nasce e perché l’ascensore sociale che l’intelligenza e la preparazione consentirebbe loro di prendere non funziona.
Gli italiani sono gli insegnanti che, nonostante stipendi e condizioni inadeguate, non rinunciano a vedere il loro mestiere come una missione, perché sanno che sono loro a poter fare la differenza nella vita di un bambino, di un ragazzo, soprattutto lì dove le situazioni sono più difficili, dove la vita è più dura.
Gli italiani sono le persone che si spendono volontariamente per chi è più debole e ha bisogno, che si prendono cura degli altri, che sanno che questo riempie la vita molto più che avere in tasca l’ultimo modello di telefonino o apparire per pochi minuti in qualche programma televisivo.
Gli italiani sono le persone che tengono duro in silenzio e con dignità, che magari fanno mille sacrifici per mantenere la loro famiglia, ma non rinunciano all’onestà, al rispetto delle leggi, all’accoglienza, alla solidarietà verso il proprio vicino così come verso chi arriva da un paese lontano.
Questa fatica, queste speranze, questa generosità non meritano di scomparire sotto la nuvola di parole e il rumore dello scontro politico.
Luoghi meravigliosi come questo, le nostre città, ogni nostra comunità, non meritano di essere divisi da steccati politici e poi definiti da etichette o bandierine colorate.
Per questo è nato il Partito Democratico. Per unire l’Italia.
Per provare a superare una volta per sempre la politica faziosa e settaria.
Per raccogliere le energie migliori del Paese attorno ad un programma di riforme che affrontino i mali strutturali che lo affliggono da troppo tempo.
Per dare alla politica un respiro nuovo.
La politica è impastata di tre ingredienti. C’è la lotta per il potere, per l’affermazione di sé o della propria parte contro le altre. Una lotta che usa la forza come l’astuzia, lo scontro in campo aperto come l’intrigo.
Forse è impossibile che la politica si liberi del tutto di questa dimensione. Ma guai se la politica si riduce solo a lotta per la conquista e la conservazione del potere. Guai se dimentica che il potere è un mezzo e non un fine. Così la politica finisce per perdere il suo senso, il suo scopo. Per diventare, talvolta, prepotente e corrotta. E finisce per annullare le due altre dimensioni, che sono invece la parte bella della politica, quella che può far innamorare, che può riempire di senso una vita intera.
E’ la politica intesa come lotta per grandi principi e grandi valori: la libertà, la giustizia, la pace. Ideali grandi, per i quali si può dare la propria vita, donandola ogni giorno nella fatica dell’impegno quotidiano, o addirittura accettando di perderla, pur di non tradire in nome della vita ciò che alla vita dà significato.
Ed è la politica come impegno concreto per risolvere i problemi quotidiani delle persone, per rendere più lieve la vecchiaia, la malattia, la solitudine, per incoraggiare la speranza di una giovane coppia che pensa di mettere al mondo un figlio ma prima deve risolvere la sua prima preoccupazione, quella della casa; per aumentare le opportunità per chi vuole mettere alla prova i propri talenti.
La politica è rapporto con la vita reale dei cittadini.
La politica è ben poco, se non capisce la preoccupazione di una madre e di un padre che si domandano che tipo di educazione e di ambiente civile riusciranno a garantire al proprio bambino.
Se non sente sua l’ansia di un anziano pensionato costretto a fare i salti mortali quando a fine a mese arriva la bolletta del riscaldamento.
Se non dà risposta alla domanda angosciata di un operaio che vuol sapere se sono vere le voci che annunciano la chiusura della sua fabbrica perché la produzione si trasferisce altrove, in un paese dove si possono pagare salari ancora più bassi e preoccuparsi ancora di meno delle condizioni di sicurezza.
Se non vede l’inquietudine di un imprenditore che per fare il proprio lavoro si trova a dover lottare contro mille difficoltà: le complessità burocratiche, il peso fiscale, l’assenza delle infrastrutture, con uno Stato che spesso sembra essergli nemico.
La politica è miope, non riesce a guardare lontano, se si preoccupa solo di chi ha già garanzie e trascura gli interrogativi e la vita di un giovane laureato che non sa che fare, se provare a vincere un dottorato di ricerca e continuare a studiare, a fare quel che gli piace e per cui si sente portato, oppure essere realista e cercarsi subito una qualsiasi occupazione, anche precaria, anche sottopagata. Costretto a scegliere una vita, quella della precarietà, che è un furto di futuro. Per un’intera generazione.
La politica è miope se non capisce che un bambino disabile, autistico o down, è la creatura al mondo che ha più bisogno di avere la società vicina, di sentire la comunità solidale. Se non capisce che c’è una spesa pubblica che non può mai essere tagliata: quella per loro.
Nessuna di queste persone si aspetta che un governo possa risolvere tutti i loro problemi. Ma ognuno di loro, giustamente, chiede ascolto, chiede attenzione, rispetto, e vuole avere la percezione concreta che qualcuno i suoi problemi li sta affrontando davvero.
Il Partito Democratico nasce per questo. Per far riamare la buona politica, quella che in uno straordinario giorno di ottobre tre milioni e mezzo di persone hanno animato con al loro passione, con al loro partecipazione.
Il Partito democratico nasce per dare alle donne e agli uomini e ancor più alle ragazze e ai ragazzi del nostro Paese la certezza che se vogliamo, insieme, noi possiamo cambiare la politica e cambiare l’Italia.
La scelta è tra passato e futuro.
Dobbiamo credere in ciò che l’Italia può essere.
Conosciamo le sfide che abbiamo di fronte. Ciò che ci ha impedito di vincerle, nella legislatura che si è appena traumaticamente conclusa, non è stata la mancanza di politiche valide, e nemmeno di donne e uomini capaci. E’ stata la divisione. Una politica divisa si è dimostrata troppo piccola di fronte alla grandezza delle sfide.
Per questo il Partito Democratico ha deciso di rompere il vecchio schema politico, quello delle grandi alleanze pensate solo per battere l’avversario, e di aprire la strada ad un bipolarismo nuovo, fondato sul primato dei programmi e sulla garanzia della loro attuazione.
Noi ci presentiamo agli italiani con una chiara proposta di governo: un programma, una leadership, una squadra coesa e affiatata.
Lo state vedendo. Dopo la nostra scelta tutto si è messo in movimento. Anche nell’altro campo. Ma guardate bene quel che succede nelle loro file: sono preoccupati di “come” vincere, non del “perché” vincere. Di come organizzarsi meglio, non di cosa offrire di nuovo all’Italia, di cosa fare di nuovo per gli italiani.
D’altra parte hanno già governato l’Italia per sette anni, e propongono solo di tornare a farlo, esattamente come prima.
Noi vogliamo voltare pagina.
Noi diciamo: non cambiate un governo, cambiate l’Italia.
Cominciamo. Cominciamo a farlo insieme. Trasformiamo l’Italia.
Possiamo essere la generazione di italiani alla quale domani i nostri figli e i nostri nipoti guarderanno con orgoglio dicendo: “hanno fatto ciò che dovevano, l’hanno fatto pensando a noi”.
Non toccherà certo solo a me. Non sarò, non sono solo io, a credere nel cambiamento, a lottare per realizzarlo, a voler fare le cose necessarie.
Tocca a noi. Tocca a milioni di italiani.
Dipende da noi, quello che possiamo fare insieme. Quello che insieme faremo.
Una Italia moderna, serena, veloce, giusta.
Si può fare.
Questi due mesi ci metteremo in viaggio, toccheremo tutte le 110 province italiane, tutta la bellezza e la meravigliosa diversità del Paese.
Questi due mesi saranno il modo più appassionante che abbiamo per far vivere le nostre speranze e dare corpo ai nostri sogni.
Non sono le speranze e i sogni di pochi.
Sono le speranze e i sogni di milioni di persone, che insieme cambieranno l’Italia.
La speranza, il sogno: parole che alcuni giudicano ingenue, astratte, poco adatte alla politica e alle sue esigenze di realismo.
Ma “speranza” vuol dire immaginare qualcosa che non c’è e impegnarsi per renderla possibile. Cosa di più bello nella vita?
La speranza, la fiducia nel futuro, è il motore del cambiamento che serve all’Italia.
E’ per questo che io mi candido. Non per ricoprire una carica.
E vi chiedo, nei prossimi mesi, di pensare non a quale partito, ma a quale Paese.
Facciamo un Paese grande e lieve.
Una Italia in cui non si muoia per lavorare. In cui studiare e intraprendere sia facile. In cui le donne e gli uomini ritrovino la voglia di viaggiare, insieme e sicuri, verso il futuro. In cui la politica riscopra il coraggio di rischiare il nuovo.
E forse, un giorno, ricorderemo che qui, oggi, in una bellissima domenica italiana, tutto è cominciato.
domenica 10 febbraio 2008
L'intervento integrale di Walter Veltroni a Spello
"Un discorso per l'Italia"
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