di Antonio Ingroia
Il dibattito, che si è recentemente riacceso anche su queste pagine a margine della fiction “Il capo dei capi”, può essere forse l’occasione per avviare una seria riflessione sul tema della rappresentazione della mafia attraverso i mass media. Non si tratta, ovviamente, di accodarsi all’antica, stupida e non del tutto disinteressata, posizione polemica che vorrebbe censurare ogni forma di rappresentazione della mafia accusata di fare cattiva pubblicità della Sicilia. Ma altrettanto sbagliata mi pare ogni sottovalutazione che ne trascuri l’impatto sulle chance di successo dell’antimafia. In una società profondamente dominata dai media come la nostra, in un’opinione pubblica così decisivamente condizionata dai clichè veicolati da una cultura televisuale come la nostra, sarebbero fatali atteggiamenti autoreferenziali di sufficienza, dell’uomo delle istituzioni come dell’uomo di cultura. Anche perché il tema ha a che fare con complesse relazioni col pubblico che meriterebbero attenzione. E’ un paradosso solo apparente, ad esempio, quello apprezzato da alcuni studiosi che hanno evidenziato che le più rozze banalizzazioni, come certe storie truculente e le più inautentiche farse di costume, sono i film sulla mafia che in passato hanno ottenuto un maggiore successo popolare in Sicilia, ove maggiormente dovrebbe essere percepito il divario fra fiction e realtà. Paradosso in parte spiegabile col fatto che lo spettatore medio percepisce ed apprezza il cinema come finzione, una finzione che genera miti e vicende favolistiche che, seppure ispirate dalla realtà più cruda, emanano fascinazione. Sicché, è accaduto, accade ed accadrà che certe rappresentazioni finiscano per propagare, spesso al di là delle migliori intenzioni dei suoi autori, il fascino negativo dell’eroe del male. Personaggi di mafiosi apprezzati dagli spettatori, che riconoscono nello schermo uomini e situazioni da loro conosciuti nella realtà. E’ così che il siciliano vede i mafiosi “celebrati” sullo schermo. Ed è così che si arriva al paradosso di un sorta di senso di orgoglio regionalista rovesciato, che può indurre lo spettatore medio siciliano ad applaudire certe celebrazioni di violenze, ingiustizie e mali dominanti nella vita reale. Ancor più oggi non possiamo non porci una domanda, forse un po’ eccentrica ma cruciale: ai mafiosi piacciono le fiction sulla mafia? Le immagini filmate dell’arresto di Lo Piccolo, così diverse da quelle di Bernardo Provenzano (potenza della rappresentazione visuale…), ci rivelano una Cosa nostra in trasformazione. Cambia il modo di pensare e di essere dei mafiosi, sempre meno rozzi e analfabeti. Uno dei punti di forza di Cosa nostra è sempre stata la sua subcultura arcaica, tendenzialmente immutabile perché la sua segretezza e compattezza interna ne hanno fatto un mondo a parte, impermeabile alle culture ad essa estranee. Ma la società è cambiata e la mafia pure, e nel processo di alfabetizzazione diffusa un ruolo centrale è stato certamente svolto dal mezzo televisivo. La generazione dei capi mafia ottuagenari, immuni dal “contagio” della cultura televisiva, la generazione dei viddani corleonesi, simbolicamente rappresentata da Provenzano che scrive pizzini in un casolare di campagna, è al tramonto. Avanza invece la generazione televisiva. Quando Giovanni Brusca viene arrestato, si scopre che l’assassino di Capaci teneva sul comodino la videocassetta di un film-documentario sulla strage ed il suo italiano è abissalmente lontano dalla lingua contadina del vecchio padre Bernardo. Roberto Saviano in “Gomorra” racconta di camorristi che imitano personaggi di cinema e TV, così come i mafiosi americani fanatici telespettatori del serial “I Soprano”. Insomma, l’omogeneizzazione delle culture e delle lingue, agevolata dalla TV, coinvolge anche l’universo mafioso. Il che, lungi dal costituire sintomo dell’inarrestabile declino della mafia, è invece indice di un nuovo modo d’essere dei mafiosi, sempre meno diversi dagli altri, sempre più mimetizzati nella società. A maggior ragione allora, se la TV è penetrata anche nelle case dei mafiosi, che con i loro figli seguono le stesse fiction che vediamo noi, è doppiamente importante verificarne l’impatto. Francesco Rosi nell’indimenticabile “Salvatore Giuliano” riuscì a costruire una storia drammaturgicamente valida, ma con la secchezza del cronachismo documentaristico, senza indulgenze celebrative e riuscendo a raccontare l’oscuro potere della mafia senza rappresentare il personaggio di Giuliano, che infatti nel film è un corpo che si vede più da morto che da vivo. Una dimostrazione del fatto che è possibile “raccontare Cosa nostra” senza celebrarla. Le fiction televisive di oggi, tranne rarissime eccezioni, sono monodimensionali, senza spessore, ed i suoi protagonisti sono o santini dell’antimafia, perdenti destinati al martirio, e perciò sempre più distanti dal pubblico (con enfatizzazione retorica che arriva al punto di eliminare dalla storia i “sopravissuti dell’antimafia”), ovvero sono mafiosi rappresentati come eroi negativi, non privi di fascino, che perciò alimentano una certa mitologia della mafia. Le eccezioni? Poche, quasi tutte a cinema e non in TV.
E torniamo allora alla fiction di Canale 5 “Il capo dei capi”, emblematica perché alla sua realizzazione hanno contribuito anche attenti conoscitori del fenomeno mafioso: proprio certi che gli italiani avessero bisogno di una biografia del c.d. “genio del male”? Le video-biografie sono sempre pericolose come dimostra la gran parte di quelle finora dedicate ai martiri della mafia ove finisce per prevalere lo sguardo celebrativo, pieno di sentimenti retorici e clichè, e che veicolano una certa idea dell’immutabilità e dell’eternità della mafia, difficile da vincere in una terra incline al fatalismo come la Sicilia. Gli ultimi avvenimenti confermano invece che Cosa Nostra non né immutabile, né invincibile, come dimostra la parabola discendente dei corleonesi. È il caso allora di tenere ben presenti, senza demonizzazioni, i rischi insiti in certe fiction, come ha recentemente evidenziato un giornalista coraggioso come Dino Paternostro, che a Corleone vive ed opera, e che ha raccontato come il paese, anche raccogliendosi attorno alla TV per ogni puntata de “Il capo dei capi”, perpetua e diffonde i sinistri influssi della fascinazione del boss…
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