giovedì 19 luglio 2007

QUEL GIORNO IN VIA D’AMELIO. Il ricordo di Rita Borsellino

di SAVERIO LODATO

Lasciamo che sia lei, Rita Borsellino, a raccontare quel giorno di lacrime e sangue di quindici anni fa. E le nostre domande, inevitabilmente, risulteranno inadeguate alla drammatica sequenza di quel ricordo. La cronista d’eccezione, anche se questa cronaca avrebbe preferito non raccontarla, è lei: Rita Borsellino.
Lo fa per la prima volta. Dopo quindici anni. Per un giornale - L’Unità- al quale Paolo, pur essendo di altre idee, era affezionato.
E il lettore ci perdoni se non ricorreremo alla finzione di darci del lei.

Rita, dov’eri il 19 luglio 1992?
«Non ero a Palermo, ero nella mia casa di Trabia, nonostante in quel periodo ogni allontanamento da Palermo mi risultasse difficile. A Trabia non avevo il telefono, e l’idea di non poter sentire Paolo mi faceva stare male, mi metteva in agitazione. Ma in famiglia vigeva quasi un patto: provare a vivere una vita normale in un periodo in cui la vita di normale aveva ben poco. Per noi andare di sabato a Trabia era una consuetudine che non volevamo cambiare. E io quella settimana avevo un problema in più: la sistemazione di mia madre che abitava con me e non volevo lasciare sola».
Perché tua madre non venne a Trabia?
«Perché l’indomani Paolo l’avrebbe portata dal cardiologo, un amico di famiglia, disposto a visitarla di domenica. Risolsi il problema grazie a mio figlio Claudio che si offrì di restare con lei in via D’Amelio».
Era tanto forte quel patto che vi imponeva di non cambiare abitudini?
«Sì. Ma per la prima volta partiì a malincuore. Mi dicevo è tutto normale, tutto a posto: domani mattina Claudio arriva con il treno, e alla cinque di pomeriggio Paolo va a prendere mia madre e la porta dal cardiologo. Normale. Che motivo c’è - mi ripetevo- di cambiare abitudini? E la domenica iniziò a scorrere secondo copione: colazione, un po’ di sole in giardino, pranzo, e di pomeriggio saremmo andati a messa prima di tornare a Palermo...».
Quasi un presentimento della tragedia?
«Non lo so. Me lo chiedo ancora oggi. Ricordo però che avevo voglia di stare un po’ sola e andai in terrazza. Fu da lì che vidi una scena che mi turbò: i vicini di casa si avvicinarono al cancello per parlare con mio marito attraverso le sbarre...un attimo dopo vidi Cecilia, mia figlia, che si avvicinò a loro...dalla sua espressione mi resi conto che era accaduto qualcosa. Corsi giù per le scale e chiesi cosa fosse successo. Mio marito non rispose. Cecilia mi abbracciò: “non lo sappiamo neanche noi, accendiamo la televisione”. E mentre un attimo prima avevo pensato a mia madre, ora capìì che si trattava di Paolo».
Vi metteste tutti davanti alla televisione?
«Sì, un piccolo televisore che funzionava male...Ma per quanto male potesse funzionare lessi la scritta in sovrimpressione che parlava della morte di Paolo...».
Erano le immagini di via D’Amelio appena dopo l’Apocalisse.
«Già. Ma non me ne resi conto. Fu Cecilia a dire: “ma quella è casa nostra...”. Da quel momento in poi ricordo i silenzi. Nessuno disse nulla, non una parola. Non venne versata una lacrima. E tutti, molto freddamente, chiudemmo le imposte, recuperammo il cane, ci mettemmo in macchina, rientrammo a Palermo».
Quale fu il primo impatto con il luogo della tragedia?
«In via D’Amelio ci fermarono. Scendemmo dalla macchina. Suoni, rumori, odori, fumo, lamiere arroventate e accartocciate... Le riprese televisive avrebbero reso solo in minima parte quello che stavo provando dal vivo. Improvvisamente mi ritrovai sola... Il capo dei vigili urbani mi abbracciò e scoppiò a piangere. Solo allora mi resi conto che la scritta sul televisore di Trabia diceva la verità... Paolo non c’era più. Ricordo i vicini, che pur avendo ormai le case sventrate e avendo perduto un pezzo della loro vita, mi abbracciavano, cercavano di consolarmi. Fu quello il primo segnale di una Palermo che fino a quel momento non avevo conosciuto».
Cosa ricordi ancora in via D’Amelio?
«Una figura vestita di bianco che mi colpì come fosse una macchia di colore improvvisa: era Salvatore Pappalardo, il cardinale di Palermo, che era voluto venire a toccare con mano la tragedia. Poi si avvicinò il procuratore Pietro Giammanco. Per chiedermi se volevo vedere mio fratello. Risposi di no. Volevo conservare la vivacità del suo essere, non un immagine di morte e violenza. Ma risposi quasi con disagio perché capivo che forse avrei dovuto dire di sì. Marta invece, la più piccola delle mie figlie, che mi era accanto, si rivolse e a Giammanco e gli disse con determinazione: “io voglio vederlo”. Non dimenticherò mai l’espressione di Giammanco che la guardò con sufficienza più che compassione...».
Reagisti?
«Mi arrabbiai. Ho sempre riconosciuto ai miei figli capacità e diritto di scegliere. Dissi quasi con stizza: “se vuole, deve vederlo”. E fu così che Marta, accompagnata da un vigile, sparì in mezzo al fumo...un attimo dopo mi sentì in colpa, pensando che avrei dovuto accompagnarla...e pensavo a quanto avrei dovuto consolarla dopo. Invece accadde un fatto stupefacente...».
Stupefacente?
«È la parola esatta. Al suo ritorno Marta non piangeva, sorrideva. Mi mostrò le mani sporche di fumo, me le mise sul viso dicendomi: “mamma ho accarezzato lo zio Paolo”, ma aggiunse anche un’altra frase: “Lo zio Paolo sorride”. Pensai che Marta, nella sua infinita tenerezza, volesse consegnarmi un ricordo inesistente. Invece di quel sorriso avrei sentito parlare da altre persone, da Lucia, la figlia di Paolo, da Antonino Caponnetto, ma non solo. Chissà come, chissà perché era rimasta viva la caratteristica più bella di Paolo: sorridere anche nei momenti più difficili».
Tua madre, intanto?
«Non sapevo cosa le fosse successo. Vidi i buchi neri della mia casa e non sapevo cosa ne era stato di lei. Pian piano, attraverso le parole dei vicini, mi resi conto che era salva. Che qualcuno l’aveva portata via dall’inferno. Seppi che la bomba era scoppiata quando Paolo aveva suonato il campanello e ne dedussi che non si erano visti. Ero ansiosa di trovarla».
Come la trovasti?
«Con mio marito, i figli, il cane, iniziammo a girare per gli ospedali di Palermo. A “Villa Sofia” mi dissero che era passata di lì. All’”Ingrassia” seppi che il cardiologo, l'amico di Paolo, l’aveva portata a casa sua. Ma io non sapevo dove abitava il cardiologo. Ci volle qualche ora per scoprirlo. Mi chiesi cosa avrei dovuto dirle appena l’avessi incontrata. Il rapporto fra lei e Paolo era fortissimo».
Che ricordi di quell'incontro, in una giornata di per sé straziante?
«La vidi piccola, indifesa. Vestita a metà: una sottoveste e sopra una camicia. Strane ciabatte ai piedi. Le scarpe le aveva perse quando un vigile urbano l’aveva presa in braccio per portarla via. Con lei c’era mia sorella che quel giorno festeggiava il suo compleanno...».
Che vi diceste con tua madre?
«Fu lei a parlare. E mi sconvolse. Mi disse: “sai cosa è successo? Sai che con Paolo sono morti i suoi ragazzi della scorta? Vai a cercare le madri e ringraziale per il sacrificio dei loro figli”. Furono queste le sue parole. Dopo lo scoppio. Dopo l’incendio. Dopo essere stata portata via di casa. Quella frase avrebbe condizionato le mie scelte, la mia vita successiva. Mia madre aveva trovato il modo giusto: non pensare solo a se stessa, ma anche agli altri.
Ma la giornata non era ancora finita.
«Infatti. Andai a casa dei miei nipoti. La casa dove Paolo aveva abitato sino a quella mattina. Era aperta, piena di gente. Chi andava, chi veniva, chi piangeva. Incontrai Agnese, mia cognata, circondata da tantissime persone che le si stringevano attorno. Cercai i miei nipoti. Trovai Manfredi che parlava in maniera seria, matura, come se all'improvviso fosse diventato adulto. Ora si trattava di prendere decisioni. E mi sembrò all’altezza del compito. Trovai Lucia che ai miei occhi era sempre apparsa la più fragile. La vidi impassibile, calma, serena. Si occupava delle persone presenti, rispondeva al telefono».
Fiammetta invece era all’estero...
«Era in Thailandia. Raggiungerla non era facile. Con Lucia ci capimmo al volo: facevamo la guardia al telefono di casa aspettando che chiamasse, perché volevamo essere noi a comunicarle quello che era accaduto».
Ormai era davvero impossibile rispettare quel patto familiare che vi imponeva di fingere che tutto fosse sempre normale.
«È vero. Ma ne scattò subito un altro: nessuno di noi, in quella casa, avrebbe pianto. E nessuno pianse. E ci dicevamo: “non è il momento delle lacrime. È il momento di riflettere e capire come andare avanti”. Di quelle ore in casa di Paolo ricordo ancora la confusione, l’amara sensazione che fosse diventato importante passare da quel salotto... E per tanti, sedere sul divano, consolare Agnese, fu quasi un passaggio obbligatorio. Quasi un riconoscimento. Questo ci diede fastidio. Ricordo anche che arrivavano notizie del presidio a Piazza Politeama, di cortei...».
Dove trascorresti la prima notte dopo la tragedia?
«In casa di Paolo. Non riuscivo a staccarmi da quel luogo anche se ormai era diventata un’altra cosa. Manfredi chiuse a chiave lo studio di Paolo perché nessuno entrasse: era fastidioso sentire quella casa espropriata, quasi fosse diventata un luogo pubblico. L'aria era diventata irrespirabile. E con Manfredi, a un certo punto, decidemmo di fare una selezione su chi doveva salire. Poi, forse alle prime luci dell' alba, ma non so dire esattamente che ora fosse, decisi di fuggire. Trovai ospitalità a casa dei miei suoceri».
Ormai era il 20 luglio 1992...
«E fu quello il momento più difficile. Quello in cui mi resi conto di ciò che significava davvero il fatto che Paolo non c’era più. Con Paolo ero la sorellina da proteggere. Senza Paolo ero un’altra cosa. Un’altra persona. Me ne sarei accorta nei giorni a seguire quando per me iniziò un' altra vita. Senza Paolo. Ancora di più accanto a lui».
Vivi ancora in via D’Amelio.
«I miei figli mi diedero lezioni di coraggio e di coerenza. Ricordo ancora le parole di Claudio quando appena giunta in via D’Amelio mi lasciai scappare che non avrei più voluto vivere lì: “Ma sei pazza? Non possiamo andare via. Abbiamo il dovere di custodire questo luogo che adesso è diventato sacro”. Ecco perché abito ancora in via D’Amelio.
Proprio in questi giorni, Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha scritto una dura lettera aperta per denunciare insabbiamenti e depistaggi nelle indagini. E anche qualche strana amnesia. Che ne pensi?
«Condivido in gran parte quanto ha scritto Salvatore. Quelle stesse cose le denuncio anche io da anni. Sono convinta che bisogna pretendere la verità e non accontentarsi solo di alcune verità».

Crediamo non ci sia nulla da aggiungere.

L'Unità, 19 luglio 2007

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