di Rino Giacalone Valderice, provincia di Trapani, via Carollo, ore 7,15 del 25 gennaio 1983. La storia da raccontare comincia da questo luogo e da quell’ora. Poi come come usando le manopole di un «rvm» per un filmato da montare, c’è da far muovere delle immagini in indietro e avanti, per comporre quella che è una parte consistente della storia criminale della provincia di Trapani. Via Carollo è una stradina, appena fuoriValderice, dove la mattina di 28 anni addietro una pattuglia dei carabinieri trovò ferma all’altezza del civico 2 un’auto, obliqua rispetto alla sede stradale: era una Golf, col lunotto infranto, anche il vetro del lato guida è in frantumi, era evidente che il vetro era esploso a causa di colpi di arma da fuoco; steso tra i due sedili anteriori, con la testa reclinata sul bracciolo del lato passeggero, cera un corpo senza vita, un braccio disteso, a penzoloni, l’altro piegato sul torace. Un morto ammazzato, crivellato di colpi d’arma da fuoco sparati da diverse armi. Era’ un uomo. Aveva 41 anni l’ucciso ed era un magistrato, sostituto procuratore della Repubblica di Trapani, il suo nome Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Quando fu ammazzato era in procinto, pochi giorni ancora, di lasciare la Procura di Trapani per andare a quella di Firenze. Ecco la storia è questa. Gli anni, metà del 1980, erano quelli in cui in giro a Trapani si andava sostenendo che la mafia non esisteva, e invece Ciaccio Montalto era uno di quelli che ne aveva registrato la presenza in tanti faldoni d’indagine, a cominciare da quelli che riguardavano l’inquinamento del golfo di Monte Cofano, tra Erice e Custonaci, una conca tra terra e mare ricca di bellezze naturali, fili d’inchiesta che portavano al riciclaggio del denaro dentro le imprese, società, le banche. Lui da magistrato attento avvertì la «puzza» della mafia corleonese, colse la scalata a Trapani dei “viddani” di Riina, sentì il «tanfo» della morte lasciato per le strade e colse le infilitrazioni dentro gli uffici della giustizia, delle istituzioni, perché quella mafia era già riuscita a incunearsi dentro lo Stato per diventare poco tempo dopo ancora essa stessa Stato. Trapani è la provincia dove lo Stato che ha comandato è quello di Cosa Nostra, dove per costruire il nuovo Palazzo di Giustizia ci sono voluti decenni, dove anche i fidanzamenti e i matrimoni sono stati regolati dalle regole dell’onorata società, dove potrebbe anche non essere necessario leggere atti giudiziari, intercettazioni, relazioni della Commissione antimafia, saggi e articoli di stampa per farsi un’idea di cosa si intende per mafia: basterebbe vedere il numero delle estorsioni denunciate per capire quante non lo saranno mai; basterebbe sapere delle decine, centinaia di milioni di euro che ogni anno arrivano dalla Comunità europea e poi andare negli uffici di collocamento, nelle agenzie interinali, nei luoghi dove si affolla quel umanità dolente e rassegnata e capire che qui, nella «Gomorra» di Cosa Nostra, tutto parla di mafia. Tutto è povertà che produce ricchezza che riproduce altra povertà. Qui da sempre Cosa Nostra ha saputo sintetizzare passato e futuro, tradizione e modernità, violenza ancestrale e bestiale imprenditoria, a Trapani e nella sua provincia questo accade da decenni, praticamente da sempre. Perché qui è nata l’associazione Cosa Nostra, qui ha costruito le sue vocazioni, da qui è partita per «colonizzare» gli States, qui si è sempre sentita al riparo, protetta, qui ha messo a punto militarmente, nelle mani dei Messina Denaro di Castelvetrano, capaci anche di intessere rapporti politici, l’attacco stragista di Milano, Firenze e Roma. È qui dopo tanta violenza e morte, che è nata la nuova mafia: che contratta quando è ora di contrattare, che spara quando è ora di sparare, che vota bene quando è ora di votare bene, lo «zoccolo» duro di Cosa Nostra dove il controllo del territorio è totale, dove il rapporto con le istituzioni e con la massoneria è tradizionale. Cosa Nostra da queste parti ottiene quello che vuole oramai senza sparare, fa affari con gli appalti e si siede nei salotti che contano. L’obiettivo della nuova mafia, quella di Matteo Messina Denaro, è stato raggiunto, ammazzando però dapprima giudici come Gian Giacomo Ciaccio Montalto, la mafia si è istituzionalizzata, si è data una veste legale, oggi la mafia investe e controlla quasi l’intero tessuto produttivo della provincia e questo è riuscito a fare grazie ai rapporti con la politica e con il mondo delle professioni, che in questi anni hanno sempre negato l’esistenza della mafia ed oggi, sulla spinta della cattura dei latitanti, tanti ci dicono che la mafia è battuta. Il pensiero che attraversa gli ultimi 30 anni è sempre lo stesso, «la mafia non c’è, non esiste».
Dovranno passare anni dalla morte di Gian Giacomo Ciaccio Montalto per scoprire che già da quel 1983 a Trapani c’era un tavolino dove sedevano politici, imprenditori e mafiosi, c’erano le stanze di un tempio massonico, quello della Iside 2, dove mafiosi, burocrati, politici e giudici si mettevano d’accordo, dove molti affari venivano e lo saranno ancora per molto tempo ancora, regolati dalla corruzione e dove l’acquisto di voti sfruttando il bisogno della gente era la regola, mentre i mafiosi diventavano imprenditori per gestire importanti business, come quello dei rifiuti, o si occupavano di sanità e poi di appalti pubblici. Come oggi si continua a fare e nei sporchi affari che ancora oggi vengono scoperti c’è un filo che ripercorso a ritroso finisce con il raggiungere quegli anni, e i faldoni sui quali Gian Giacomo Ciaccio Montalto aveva lavorato.
Valderice, 25 gennaio 1983. Via Carollo. L’auto venne trovata dai carabinieri ferma davanti all’ingresso dell’abitazione del magistrato. Quella sera era stato a cena con degli amici, a Buseto Palizzolo, paese poco distante. Con se aveva la borsa di lavoro e alcuni fascicoli. Non fece in tempo a scendere dalla vettura. Non lo fecero scendere e nemmeno riuscì a provare ad aprire lo sportello. I killer lo fulminarono. Lo trovarono, scriverà il medico legale, riverso sui sedili anteriori della sua automobile, l’orologio della plancia dell’auto era fermo all’1,12 l’ora in cui i killer lo hanno freddato. Fuori dall’auto per terra vennero raccolti 10 bossoli calibro 30/luger, dall’altra parte otto bossoli stesso calibro e cinque 7,65 parabellum. Una pistola che sparò risultò provenire dalla mafia catanese, a conferma dell’alleanza tra le cosche trapanesi e quelle di Catania, emersa anche nel delitto del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari (agosto 1980). I colpi mortali lo raggiunsero in rapidissima successione al torace e alla testa. Quella notte dovette esserci una incredibile tempesta di fuoco, quelle da far tremare mura e finestre, ma nessuno sentì nulla nonostante la via Carollo sia una strada stretta, è come è oggi. Niente è cambiato. La mafia fa chiasso ma nessuno la denuncia. E chi lo fa è indicato come un untore. Questo accade a Trapani 28 anni dopo l’assassinio del giudice Ciaccio Montalto. Deve esserci stato parecchio chiasso quella notte, ma non se ne accorse nessuno. Il cadavere fu scoperto sei ore dopo quando qualcuno si decise di avvertire i carabinieri. Chi era Ciaccio Montalto? Quarantenne sposato, lasciò la moglie e tre figlie di 12, 9 e 4 anni. Tre giorni prima del suo delitto a Palermo l’Anm si era riunita a congresso ed aveva chiesto al governo (ministro della Giustizia Clelio Darida) maggiore impegno nella lotta alla mafia. Erano stati uccisi Pio La Torre, Rosario Di Salvo, Lenin Mancuso, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Dalla Chiesa e sua moglie, Boris Giuliano. Come sostituto procuratore Ciaccio Montalto a Trapani aveva svolto le indagini sui clan dediti al traffico di eroina, al commercio di armi, alla sofisticazione di vini, alle frodi comunitarie e agli appalti per la ricostruzione del Belice dopo il terremoto del 1968. Per primo aveva intuito la centralità di Trapani nella mappa mafiosa. La sua inchiesta sul traffico delle armi verrà ripresa da Carlo Palermo, a sua volta vittima di un attentato (2 aprile 1985). Scampò al tritolo mafioso, che fece strazio invece di una donna, Barbara Rizzo, e dei suoi figlioletti di sei anni, i gemellini Giuseppe e Salvatore Asta. Ciaccio Montalto si ritrovò giovane ad essere la memoria storica della procura di Trapani dove lavorava dal 1971. Questa, più della vendetta per le indagini, è la ragione per cui la mafia ritenne necessario ucciderlo. Il magistrato aveva colpito gli interessi delle cosche applicando senza attendismi la legge sul sequestro dei beni "la Rognoni-La Torre" approvata nel settembre 1982 ed aveva individuato sin da allora il ruolo di Riina, Provenzano, Messina Denaro, Bagarella, e dei boss locali, dei Milazzo di Alcamo, del clan locale dei Minore, aveva portato davanti alla Corte di Assise alcuni esponenti di queste cosche. Poco prima di essere ucciso il magistrato aveva rivelato che durante il processo un imputato gli aveva fatto un segno che nel linguaggio mafioso significa condanna a morte. Aveva chiesto di essere trasferito, ma nel frattempo aveva proseguito senza sosta il suo impegno, sino alla sera che precedette la sua uccisione, trascorsa nei preparativi della requisitoria che avrebbe dovuto pronunciare l’indomani.
Il processo a Caltanissetta sulla sua morte, molti anni dopo, registrò alla perfezione la realtà trapanese. La società di benpensanti, le collusioni con Cosa Nostra. Negli anni ’80 la provincia di Trapani era divenuta terreno per la scalata al potere dei corleonesi. L’apice nel novembre del 1982 quando venne fatto sparire durante una cena di boss nel palermitano, a Partanna Mondello, a casa di don Saro Riccobono, il capo dei capi della mafia latifondista trapanese, Totò Minore. Pochi giorni dopo quella cena di morte la pax voluta da Minore cominciò a frantumarsi. Cominciarono a morire gli avversari interni ed esterni delle cosche, coloro i quali per i corleonesi di Totò Riina erano dei nemici. E il giudice Ciaccio Montalto fu tra i primi a finire nel mirino, perché Cosa Nostra aveva più di una ragione per avere paura per quel magistrato. «Ciaccinu arrivau a stazione» disse un giorno in carcere il capo mafia di Mazara Mariano Agate, «era arrivato alla stazione, al capolinea»: Agate aveva capito che Ciaccio Montalto aveva individuato una serie di canali dove dentro scorreva denaro, per questo fu ucciso. Aveva individuato una cosca di siciliani in Toscana, alcamesi, palermitani e massoni. Era a Firenze, nella città dove nel frattempo gli esattori Salvo di Salemi avevano trasferito le sedi delle loro società di riscossione, che stava andando a lavorare, per questo fu ucciso. All’ergastolo perché mandanti dell’omicidio del sostituto procuratore Gian Giacomo Ciaccio Montalto sono stati condannati gli alleati di sempre di Cosa Nostra siciliana, Totò Riina e Mariano Agate.
Ciaccio Montalto fu un «uomo dal candido coraggio», si imbattè nella mafia che cominciava a cambiare pelle, quella che oggi chiamiamo «sommersa» e allora si cominciava ad interessare di appalti (1550 banditi e assegnati nel solo biennio 83/85 a Trapani, quasi tutti finiti intercettati da Cosa Nostra). Era la mafia che cercava di arrivare dentro il Palazzo di Giustizia, oggi è la stessa mafia che influenzando la società ha messo la sordina ad una serie di pronunce di colpevolezza, processi e condanne hanno incrinato le commistioni, ma non le hanno del tutto indebolite per colpa di una società silente e disponibile dove settori della politica continuano a frequentare i mafiosi.
Chi più di tutti rimpiange di non avere fatto il suo dovere, di giornalista, è lo scrittore Vincenzo Consolo. Da giornalista, raccolse una sera lo sfogo di Ciaccio Montalto che si sentiva isolato: «Rimpiango di non avere disubbidito al suo volere e di non avere scritto subito quella intervista». Lo scrittore aveva vissuto Trapani per due mesi, nell’estate del 1975, quando seguiva per il giornale "L’Ora " il processo al mostro di Marsala, Michele Vinci. Pubblica accusa di quel processo era il giudice Ciaccio Montalto. Consolo ricorda: «Un giorno Ciaccio mi chiamò e mi disse che mi voleva incontrare a Valderice, nella sua casa, da solo. Una sera andai e mi accolse con la moglie, una donna che negli occhi aveva tutte le preoccupazioni per il marito. Mi rivelò che aveva ricevuto delle minacce. Non scriva nulla, lo faccia solo se dovesse succedermi qualcosa, disse". Otto anni dopo, quella confessione divenne profezia. Allora scrisse sulla Stampa e sul Messaggero (a cui seguì una interrogazione alla Camera dei Deputati di Leonardo Sciascia) e rivelò ciò che Ciaccio Montalto gli aveva detto quella sera. Di quelle minacce condite con l’oblio che continua ad essere caratteristica di questa città che in tutti i modi cerca di far dimenticare il suo passato, cancellandolo con la negazione dei fatti, dove «normalizzare» resta la parola d’ordine. I magistrati di oggi rispondono che qui non sarà tutto mafia quando corrisponderanno le azioni concrete, gli atti trasparenti, quando si cancellerà l’area grigia, quando la si smetterà di confinare la legalità nel lavoro di magistrati, giudici, investigatori.
Parlare di Ciaccio Montalto oggi. Usando le parole dell’ex procuratore di Bologna, Enrico De Nicola, «il ricordo è la traccia da seguire per il futuro». E poi ce lo ha detto il presidente Sandro Pertini proprio ai funerali di Ciaccio Montalto, «per combattere la mafia c’è solo da rispettare fino in fondo la Costituzione». Ciaccio Montalto non ha potuto concludere il suo lavoro, con quel perfezionismo che lo distingueva: non è riuscito a sconfiggere la mafia, perchè la mafia glielo ha impedito. «Ulisse era il mito di Ciaccio Montalto» ha svelato un suo amico, il pediatra Benedetto Mirto, ma a lui non è riuscito ciò che riuscì a Ulisse, battere i proci e riconquistare la sua Itaca. Il compito oggi è di altri dentro e fuori i Palazzi di Giustizia. Governo e parlamento permettendo, riconoscendo come eroe davvero chi lo merita e chi lo fu e non mafiosi e corrotti.
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