Giovanni Impastato |
E’ vero, come da Voi scritto, che “anche in occasioni pubbliche, ho mostrato la mia vicinanza all’Autore” del libro in questione.
Voglio però precisare che l’amicizia per una persona non pregiudica la richiesta che venga ristabilita la verità dei fatti, richiesta che non mi risulta abbia avuto, come da Voi affermato, “intenti diffamatori”.
Non vedo come possano essere considerate “ingiustificate, gravi e diffamatorie” le affermazioni contenute nella lettera del 26 ottobre 2010, secondo cui due pagine di un libro a larghissima diffusione e destinato ad avere diverse ristampe cancellano di fatto 24 anni (tanti decorrono dalla morte di mio fratello alle condanne dei mandanti del suo assassinio) di impegno di mia madre, mio e di mia moglie, del Centro (di cui, tengo a dirlo, facciamo anche noi parte) e dei compagni rimasti, per avere giustizia per Peppino. A tali considerazioni, ampiamente motivate, non poteva non seguire la richiesta di una rettifica.
A tal proposito affermo che:
1. Non risponde a verità il fatto che “la memoria di Impastato” fosse “conservata solo da pochi amici, dal fratello e dalla mamma”.
Comincio con il sottolineare che il Centro siciliano di documentazione (che era stato fondato nel 1977) non era formato da amici di Impastato e non è stato, nell’80, a lui dedicato per amicizia ma perché mio fratello è stato riconosciuto come una figura unica nella lunga storia delle lotte alla mafia, avendo iniziato con la rottura con la nostra famiglia mafiosa.
Noi come famiglia, i compagni di Peppino rimasti e il Centro Impastato, non ci siamo limitati a conservarne la memoria, ma, come già scritto nella diffida, fin dal primo giorno dopo il funerale ci siamo attivati per denunciare il depistaggio e dare alla magistratura tutte le notizie sull’attività di Peppino che indicavano chiaramente la matrice mafiosa dell’assassinio. In particolare l’11 maggio 1978 il Centro siciliano di documentazione presentò un esposto alla Procura e il 16 maggio mia madre, Felicia Bartolotta Impastato, chiese la costituzione di parte civile, atto allora possibile già in fase di istruttoria. Una scelta che prima era stata fatta soltanto da Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale ucciso nel 1955.
In seguito noi familiari e il Centro abbiamo organizzato, assieme ad alcuni compagni di militanza, ogni anno numerose iniziative nel nome di Peppino (a cominciare dalla manifestazione nazionale contro la mafia del 9 maggio 1979 a Cinisi, la prima della storia d’Italia).
E ogni volta che è stata chiusa l’inchiesta abbiamo cercato di dare alla magistratura altri elementi per farla riaprire: nel 1984, in seguito all’ordinanza-sentenza del maggio dello stesso anno, predisposta dal consigliere Chinnici, assassinato il 29 luglio 1983, e completata dal suo successore Antonino Caponnetto, in cui si affermava la matrice mafiosa del delitto attribuendolo a ignoti, abbiamo presentato il dossier Notissimi Ignoti (redatto da mia moglie Felicia Vitale, che firma con me questa lettera, e da Salvo Vitale e pubblicato dal Centro) e il libro La mafia in casa mia, con la storia di vita di mia madre, che ha fatto riaprire ancora una volta le indagini. In seguito all’archiviazione disposta dal sostituto procuratore De Francisci (febbraio 1992) abbiamo ribadito la responsabilità di Badalamenti e nel 1994 abbiamo chiesto che venisse ascoltato il collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, della famiglia mafiosa di Badalamenti.
La richiesta è stata accolta e nel febbraio del 1996 le indagini sono state riaperte. Si arriva così alla richiesta di rinvio a giudizio di Badalamenti e del suo vice Vito Palazzolo e ai processi con le condanne di entrambi come mandanti dell’omicidio. Torno a sottolineare le date: quello con rito abbreviato contro Vito Palazzolo, è cominciato nel marzo del 1999 e si è concluso nel marzo del 2001 con la condanna a trent’anni di reclusione; l’altro, quello contro Gaetano Badalamenti, in rito ordinario e in videoconferenza si è aperto nel gennaio del 2000 e si è concluso nell’aprile del 2002 con la condanna all’ergastolo. Il film è stato presentato a Venezia nel settembre del 2000 e nelle sale è uscito qualche mese dopo.
2. Pertanto non risponde a verità l’affermazione contenuta a pagina 7 del libro La parola contro la camorra, secondo cui “dopo più di venti anni, nasce un film, che non solo recupera la memoria di Giuseppe Impastato […] ma arriva a far riaprire un processo […] Un film riapre un processo”, perché, come già ampiamente dimostrato, date alla mano, i processi (due, non uno) contro i responsabili dell’omicidio erano aperti già da tempo e la Commissione parlamentare antimafia aveva costituito il Comitato Impastato, per indagare sul depistaggio delle indagini, già nel 1998. Le affermazioni del libro non sono veritiere e oscurano il nostro impegno, in primo luogo quello di mia madre, e poi il mio, di mia moglie e del Centro (in particolare nelle persone del suo presidente Umberto Santino e di Anna Puglisi).
3. Mi è chiaro che l’obbiettivo del testo fosse (come da Voi scritto nella lettera del 4 ottobre 2010) quello di “sottolineare il ruolo rilevante che può avere un film e, in generale ogni forma di media, rispetto al compito di riportare alla memoria dell’opinione pubblica episodi di cronaca di primo piano”.
Voglio, però, in primo luogo farVi presente, che la vicenda di mio fratello non è un episodio di cronaca, ma un fatto gravissimo che colpisce una delle figure più significative della lotta alla mafia negli ultimi decenni.
Non posso che ribadirlo ancora una volta, l’affermazione “un film arriva a far riaprire un processo”, non risponde a verità. In ogni caso si tratta di un esempio sbagliato.
Quindi, al contrario di quanto si legge nella Vostra lettera, le affermazioni di Saviano sono in contrasto con la verità storica.
Il film ha avuto certamente un ruolo importante nel fare conoscere la figura di mio fratello, più di quanto abbiamo potuto fare noi e il Centro Impastato, per la limitatezza delle nostre risorse, ma non ha avuto nessuna influenza dal punto di vista giudiziario.
E voglio sottolineare che il film non è nato per caso e non ci sarebbe stato senza il nostro impegno incessante.
4. Voglio infine far presente che, durante un dibattito, con la partecipazione di Roberto Saviano, tenutosi nell’agosto 2009, a Villagrazia di Carini presso la mia pizzeria, in occasione della presentazione del mio libro, con Franco Vassia, Resistere a Mafiopoli. La storia di mio fratello Peppino Impastato, con la prefazione di Umberto Santino, in cui vengono ricostruite tutte le vicende riguardanti mio fratello, comprese quelle giudiziarie, il giornalista Francesco La Licata aveva sottolineato il ruolo dei familiari e del Centro Impastato per l’accertamento della verità. Purtroppo non abbiamo potuto registrare tale iniziativa (come invece è sempre successo qualunque siano stati i relatori) perché c’è stato detto che c’era l’esclusiva di una rete televisiva.
Malgrado sia stato informato, Saviano ha ritenuto di pubblicare il libro ancora con quelle affermazioni. Dopo il lancio su Repubblica il 25 marzo 2010, è stata inviata al giornale dal presidente del Centro, e firmata anche da me, una lettera di precisazioni, pubblicata soltanto dopo nostra insistenza e malamente tagliata, il 3 aprile.
Faccio mia, pertanto, la richiesta di rettifica di quanto riportato nel libro in questione.
Distinti saluti
Giovanni Impastato
Firma con me la richiesta mia moglie Felicia Vitale.
Giovanni Impastato, corso Umberto 220, 90045 Cinisi (Palermo)
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