di Roberto Tagliavia
Falcone parte dall’acquisto di questo esteso feudo per avviare il maxiprocesso contro Michele Greco (detto il Papa) e altri. Le indagini accertano che, con uno strano giro di assegni, Michele Greco acquista da Luigi Gioia (deputato e fratello del più noto Giovanni Gioia, a sua volta ministro ed esponente democristiano di spicco) il feudo di Verbumcaudio.
Luigi Gioia vende nella qualità di amministratore unico della Siciliana Alberghi e Turismo (SAT) spa il cui patrimonio, di cui Verbumcaudo è parte, è costituito al 100% dall’asse ereditario immobiliare del Conte Salvatore Tagliavia. Inquietante la modalità dell’acquisto, con alcuni assegni a firma di personaggi legati alla camorra del clan Nuvoletta. Inquietante lo stesso contratto, concordato con un personaggio del calibro di Greco, al punto da indurre Falcone a concludere nella sentenza di rinvio a giudizio che …così verosimilmente la mafia ha privato la famiglia Tagliavia di tutti i suoi beni (ndr - Ma se c’era questa ipotesi di reato perché non è stata perseguita?!). In realtà le cose non stavano così e, proprio a far data dalla scoperta di quella vicenda, inizia un contenzioso interno alla SAT nei confronti dell’amministratore sul modo di gestire i beni dei Tagliavia. Un capitolo triste di disattenzione collettiva e politica su una vicenda - per altro più volte riportata dalla stampa, che dimostrava come non fosse affatto vera la tesi di una assuefazione dell’intera borghesia imprenditoriale palermitana a quell’andazzo – che avrebbe potuto insegnare molto sui nodi del diritto societario (vedi per es. il falso in bilancio) che ostacolano una più efficace azione antimafia. Tuttavia, in quel confronto interno fu più volte posta la questione relativa a Verbumcaudo: come potesse essere valido un contratto concluso con un “mafioso”, visto che una delle due parti era in una posizione tale da condizionare la libera determinazione dell’altro contraente, e perché, essendo il contratto per tale ragione nullo, Verbumcaudo non fosse rientrato nel patrimonio SAT; oppure, se i due contraenti erano stati entrambi complici nel voler privare i soci dei loro beni, come mai non si era proceduto a rimuovere e sostituire, anche d’autorità, l’amministratore infedele? Invece non successe né l’una né l’altra cosa. Il bene venne requisito al mafioso Greco e affidato ai Carabinieri per destinarlo a poligono di tiro (ndr – Fu mai usato per tale scopo?). L’amministratore Gioia non venne rimosso e, forte di una maggioranza del 60% all’interno della SAT, continuò ad amministrare come meglio credeva gli altri beni dell’eredità Tagliavia, tra cui il fondo Costa ai Ciaculli e il fondo Favarella, sempre a Ciaculli, più noto come il feudo di Michele Greco (che in realtà era lì solo come affittuario), contro le proteste degli azionisti Tagliavia (40%) che non approveranno per anni e anni i bilanci della società, denunciandone le irregolarità.
Il sequestro è del 1985 e solo anni dopo i Carabinieri, secondo la relazione della commissione consiliare di Polizzi, si dichiarano non interessati a trattenere il bene che, di fatto, è comunque rimasto nelle disponibilità del sovrastante lasciato lì dai Greco. In questo arco di tempo solo il Banco di Sicilia rivendica il bene, in quanto posto a garanzia di un prestito richiesto dai Greco: il Banco vince la causa presso il tribunale di Termini ma la vicenda, per quanto mi risulta, resta quiescente per anni, riemergendo solo dopo il 2005 come ostacolo all’assegnazione del bene. E qui è il punto: tutto sembra fatto per garantire la disponibilità dei beni ai Greco o ai loro sodali. Il sequestro, così come la permanenza dell’amministratore Gioia nella SAT, si risolve, quindi, in un congelamento della situazione fino a quando il trascorrere del tempo ne avrà sterilizzato la memoria, grazie a termini di prescrizione, di usucapione o, più semplicemente, per perdita dell’attenzione e dell’interesse, consentendo di consolidare il passaggio dai legittimi proprietari al circuito della proprietà mafiosa. Quanto avvenuto è gravissimo! E’ una risposta al tentativo, con la legge La Torre, di sottrarre i beni alla mafia e che fa ulteriormente intravedere un patto sciagurato fra Stato e malavita. Come attivare allora un diverso controllo sociale? Sappiamo, per di più, che l’assegnazione di questi beni ad associazioni, cooperative e altro non esaurisce le difficoltà della loro gestione e produttività. La dimensione dell’impresa ha bisogno di risorse economiche e di filiere che possono essere sostenute da competenze e collegamenti per evitare il rischio, alla fine, di un riassorbimento del bene nel circuito della mala economia. Questa vicenda apre, dunque, una necessaria riflessione su un aspetto che fin qui non è stato parte di una adeguata e moderna politica antimafia ma che è ormai ineludibile: la responsabilità sociale dell’impresa e della proprietà. Partiamo dai fondamentali: se ti rubano il portafoglio e la forza pubblica individua e arresta il ladro, cosa pensereste voi se il portafoglio non vi fosse restituito? Se vi dicessero che non siete stati bravi a guardarvi e quindi, per evitare il rischio di ulteriori furti, il bene vi venisse tolto per sempre? Restereste alquanto frastornati e, verosimilmente, maturereste la scelta di non denunciare e di non collaborare e, semmai, di giungere a un accordo con il ladro per un recupero parziale. Bene, cosa immaginate che abbia provato quando, defraudato di un bene, quell’atto è stato riconosciuto valido, ancorché illegittimo, e il bene sottratto a ogni diritto ereditario o di azionista? Cosa pensate che abbia provato quando, finalmente mutati gli equilibri nella SAT (per diverse vicende interne) ed entrato nel collegio dei liquidatori, ho cercato di attivare quell’azione di recupero per vie legali - non eseguita da Gioia né dagli amministratori succedutigli negli anni - per sentirmi rispondere che erano scaduti i termini e ogni diritto era prescritto? E cosa pensare oggi, dopo la scoperta che quel bene non è affatto rientrato nel circuito dell’economia sana, impedendoci un uso produttivo, con le opportune sinergie, nel quadro delle attività imprenditoriali degli eredi Tagliavia? Cosa dovrei dire nel vedere un bene sottratto per oltre 25 anni, sia dalla mafia che dallo Stato, senza alcuna utilità sociale e col risultato di un impoverimento generale e, magari, con la beffa finale, nei tempi lunghi, della vittoria dei malversatori? Un conto è, infatti, che si equestrino beni acquisiti sul mercato con risorse finanziarie illegali (frutto di rapine, truffe, sfruttamento, traffici illeciti ecc.) così riciclate, perché così si colpisce l’esito della scelta malavitosa del mafioso. Altro è il caso in cui un bene viene sottratto con la prepotenza mafiosa, con l’inganno e con la complicità di chi avrebbe dovuto tutelare quel bene. Se non introduciamo questa distinzione temo che nel tempo si formerà una cintura di vittime della malversazione che anziché reagire si piegheranno in silenzio (ndr – nel nichilismo di chi non è né con la Mafia né con lo Stato), che non collaboreranno al recupero a un uso economicamente corretto e socialmente responsabile dei beni, ma che potrebbero essere indotti a convenire con i mafiosi piuttosto che combatterli. La valorizzazione economica sana della proprietà può costituire, invece, una difesa e una opportuna barriera nel corpo sociale all’espandersi della criminalità mafiosa. In questo senso il compito dello Stato non è quello di considerare le vittime delle malversazioni come minori incapaci di intendere e di volere ma, proprio per la violenza subita, tra i più consapevoli e vigili sostenitori del rispetto delle regole. Uno Stato che responsabilizzi la proprietà e la sostenga, vigilando sul rispetto delle regole nell’uso della proprietà stessa diventa davvero uno Stato di diritto. E’ questa la logica di una lotta alla mafia non delegata alle sole forze dell’ordine o alla magistratura, ma alimentata dalla democrazia, dal controllo sociale, dalla partecipazione, dall’interesse e dalla responsabilità dei singoli, dell’impresa e, soprattutto, dalla sua capacità di fare buona economia. Di fronte, invece, alla sterilizzazione dei beni sequestrati e, in particolare, alla vicenda di Verbumcaudo c’è da domandarsi quanta buona economia e quanto lavoro sarebbe stato possibile derivare, nel frattempo in questi lunghi 25 anni, da una tradizione imprenditoriale che, invece, è stata piegata dalla pesante presenza di uomini come Michele Greco, dalla gestione poco trasparente della SAT (come accertato da una ispezione giudiziale), e da uno Stato ambiguo e irresoluto. Oggi il risveglio dell’interesse dell’antimafia deve saper produrre un passo avanti più serio, che guardi alla restituzione dei beni a una economia sana, efficace, socialmente utile, senza scorciatoie o fughe propagandistiche, senza lungaggini burocratiche. Lo dico perché in questa storia altri capitoli sono tuttora aperti: sarebbe bene non risvegliarsi fra venticinque anni.
(Pubblicato su asud’europa 17 maggio 2010)
Nessun commento:
Posta un commento