di Lirio Abbate
Un uomo dei servizi assieme ai mafiosi nel garage dove veniva preparata la bomba contro Borsellino. Ecco la svolta nelle indagini sui massacri del '92
Uomini che avrebbero fatto parte degli apparati di sicurezza hanno avuto un ruolo nel 1992, accanto ai mafiosi, negli attentati in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e con loro i poliziotti delle scorte. Agenti 007 infedeli avrebbero preso parte alle fasi preparatorie dei progetti di morte con i quali i corleonesi di Totò Riina dichiaravano guerra allo Stato. È l'ultimo scenario inquietante che emerge dalle inchieste avviate dalla Procura di Caltanissetta sul ruolo di "soggetti" esterni a Cosa nostra nelle stragi che hanno cambiato la storia d'Italia. I pm hanno individuato e identificato gli uomini dell'intelligence che avrebbero affiancato i killer mafiosi. Fino a pochi anni fa la presenza di funzionari dei servizi dietro agli attentati di Capaci e via d'Amelio appariva come un'ipotesi investigativa tutta da provare mentre oggi questa incredibile connection potrebbe trasformarsi in realtà processuale. Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, ricostruendo le fasi dell'attentato a Paolo Borsellino, svela ai pm di aver visto nel garage in cui venne sistemata la Fiat 126 da trasformare in autobomba, "un soggetto dell'età di circa 50 anni": un uomo che non conosceva, ma che era insieme ai mafiosi con i quali mostrava anche confidenza. Lo vide il giorno prima della strage, quando stavano riempiendo l'utilitaria di esplosivo. Adesso Spatuzza ha riconosciuto quell'uomo in un album di foto che i magistrati gli hanno mostrato. Il pentito lo ha indicato subito, senza alcuna esitazione. Un colpo di scena, perché si tratterebbe proprio di un agente dei servizi segreti che all'epoca svolgeva compiti operativi in Sicilia. L'immagine è stata riconosciuta da Massimo Ciancimino, che lo ha indicato come uno dei personaggi in contatto con don Vito Ciancimino. Lo stesso uomo dell'intelligence che frequentava l'ex sindaco mafioso di Palermo avrebbe dunque partecipato alla preparazione dell'autobomba di Borsellino.
Spatuzza ha descritto ai magistrati il gruppo di mafiosi che alla vigilia della strage di via d'Amelio si riunì assieme al misterioso cinquantenne mai visto prima: c'erano i boss Fifetto Cannella, Nino Mangano e poi Renzino Tinnirello e persino Ciccio Tagliavia che all'epoca era latitante. Tutti affiliati che facevano riferimento al capomafia di Brancaccio: Giuseppe Graviano, lo stesso che disse a Spatuzza "ci siamo messi il Paese nelle mani" grazie a Berlusconi e Dell'Utri che stavano per entrare in politica.
L'opera di qualche 007 deviato sbuca fuori anche nelle indagini per la strage di Capaci. Lo svela il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera, il mafioso che venne incaricato dai corleonesi di compiere sopralluoghi per l'attentato lungo l'autostrada in modo da individuare il luogo più adatto per colpire il giudice Falcone. Il pentito ha riferito agli inquirenti che in quella attività preparatoria avrebbero partecipato soggetti "non presentati ritualmente" e pertanto, secondo gli inquirenti, "verosilmilmente estranei a Cosa nostra". L'ipotesi di una entità esterna che avrebbe affiancato le cosche nell'attentato di Capaci era stata sollevata nei mesi scorsi dal procuratore nazionale, Piero Grasso, davanti ai parlamentari della Commissione Antimafia presieduta da Giuseppe Pisanu. "Non c'è dubbio che la strage di Falcone e della sua scorta sia stata commessa da Cosa nostra. Rimane però l'intuizione, il sospetto, chiamiamolo come vogliamo, che ci sia qualche entità esterna che abbia potuto agevolare o nell'ideazione, nell'istigazione, o comunque possa aver dato un appoggio all'attività della mafia". Grasso lo scorso ottobre in Commissione antimafia aveva posto un quesito: perché si passò dall'ipotesi di colpire Falcone sparandogli mentre passeggiava per le vie di Roma a quella dell'attentato con 500 chili di esplosivo sull'autostrada a Capaci? Una scelta, quella dell'attentato devastante, che ha una modalità "chiaramente stragista ed eversiva". Il capo della procura nazionale ha chiesto di approfondire "chi ha indicato a Riina questa modalità con cui si uccise Falcone", perché "finché non si risponderà a questa domanda sarà difficile cominciare ad entrare nell'effettivo accertamento della verità che è dietro a questi fatti".
L'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, condotta dal procuratore Sergio Lari, dagli aggiunti Gozzo e Bertone e dai pm Marino e Luciani, vuole dare una risposta al quesito di Grasso, andando anche oltre. I pm nisseni - fra mille difficoltà che vanno dalla mancanza di magistrati a quella del personale giudiziario - puntano con grandi sacrifici anche ad un altro lato oscuro delle trame palermitane che affonda nel periodo della guerra di mafia degli anni Ottanta. Fino al fallito attentato a Giovanni Falcone nella villa sul mare dell'Addaura. Anche in questo contesto emerge il ruolo di apparati deviati dello Stato. E sbuca nelle indagini un ex poliziotto, riconosciuto per il volto coperto di bruciature: alcuni pentiti lo chiamano "il mostro". L'agente era in contatto con funzionari dell'Alto Commissariato antimafia dagli anni Ottanta fino al luglio 1992. Un poliziotto dalla faccia deturpata che avrebbe avuto un ruolo in alcuni omicidi e agguati. Si tratta di un uomo che fino alla fine degli anni Settanta è stato in servizio alla Squadra mobile di Palermo. Dopo essere stato identificato, su di lui sono in corso indagini per ricostruire quello che ha fatto nel periodo della mattanza, quando nel capoluogo siciliano venivano uccise centinaia di persone l'anno, compresi poliziotti e carabinieri. Secondo i collaboratori, il "mostro era un duro" con il vizio della cocaina e abitava a Palermo in una strada che si affaccia sul mare, nei pressi del Foro Italico. L'ex mafioso Vito Lo Forte lo chiamava il "bruciato", perché aveva il volto ustionato, ed ha spiegato che si muoveva con una moto Suzuki e un fuoristrada Range Rover. Ed aveva rapporti con Gaetano e Pietro Scotto, entrambi coinvolti nell'attentato a Borsellino. Per molte di queste indagini i magistrati hanno ottenuto la collaborazione degli attuali vertici dei servizi segreti civili e militari che hanno aperto gli archivi mettendo a disposizione i materiali decisivi per la svolta. Comprese le foto degli agenti - coperte da segreto di Stato - che per decenni hanno lavorato in Sicilia sotto copertura e che adesso sono state inoltrate ai pm nisseni: saranno mostrate a collaboratori e testimoni. E anche il Comitato parlamentare di controllo sull'intelligence (Copasir) vuole far chiarezza sul ruolo degli agenti deviati nella stagione di fuoco che ha segnato la fine della Repubblica. Per questo Gianni De Gennaro, direttore del Dis e responsabile dei nostri apparati di informazione, ha chiesto alla Procura di Caltanissetta di ricevere notizie sugli sviluppi dell'istruttoria, in modo da intervenire sugli agenti coinvolti che fossero ancora impegnati in compiti operativi.
(L’Espresso, 20 maggio 2010)
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