di Nino Cangemi
La dichiarazione di illegittimità del lodo Alfano ha provocato, in diversi esponenti della maggioranza, reazioni scomposte. Ciò che più colpisce e preoccupa è che costoro richiamino, con toni ossessivi, la volontà popolare, quale si è espressa nelle urne elettorali. In modo volutamente semplicistico affermano: il fatto che il Premier sia stato eletto da una maggioranza elettorale, peraltro ampia, gli conferisce una patente di piena legittimità. E, peggio, aggiungono: anche i sondaggi testimoniano il gradimento popolare del Cavaliere, e pertanto guai a chi gli pone ostacoli; siano essi anche dei giudici. Giudici -sottolineano- che non esprimono la volontà del popolo. Ma che, al contrario, la contraddicono. In altri termini, secondo questi ragionamenti, alla Consulta, bocciando il lodo Alfano, si sarebbe consumato un atto che viola il volere del popolo. Già il popolo…Questa massa indistinta di persone, buona per essere invocata in qualsiasi momento. Quante volte, nella Storia, il “popolo” è stato tirato in ballo impropriamente e arbitrariamente? E quante volte l’appello a esso ha sortito effetti rovinosi? Basta andare indietro con la memoria, e soffermarsi sulle vicende più devastanti. Quelle delle dittature naziste e comuniste. Il codice penale del regime nazionalsocialista considerava reato “ogni fatto contrario al sano sentimento del popolo” e sanzionava chi “merita punizione secondo il pensiero fondamentale di una legge penale e secondo il sano sentimento del popolo”. Un concetto simile era espresso dal codice penale russo del 1926, per il quale costituiva reato ciò che offendeva il “regime sovietico e l’ordine giuridico instaurato dal governo degli operai e contadini”. Espressioni vaghe che consentivano a quei regimi totalitari di punire, in nome del popolo, gli avversari politici. Il tutto nell’assenza di certezza giuridica e di leggi precostituite. Il contrario di quel che accade nelle democrazie liberali, dove vige il sacrosanto principio di legalità. Che la nostra Costituzione sancisce all’art.25, comma 2: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Quella legge che, secondo il vigente codice penale (art.1), deve espressamente prevedere il fatto come reato e stabilirne la relativa pena. Non sfugge a chi osserva i fatti in modo pacato e razionale che i giudici, in un ordinamento democratico, applicano la legge. Che, in quanto uomini, possono sbagliare, e talvolta lo fanno anche per quel protagonismo contro il quale si dovrebbero escogitare i necessari anticorpi. E questo vale anche per i giudici della corte Costituzionale, la cui designazione, troppo legata alla politica, andrebbe rivisitata. Ma in ogni caso le sentenze vanno rispettate, tenendo conto peraltro che il nostro sistema offre vari gradi di giudizio e diverse misure di garanzia. La piazza, “il popolo”, i talk show televisivi – specie in un sistema di comunicazione per lo meno “anomalo” (si consenta l’eufemismo) – possono diventare nemici di un dibattito democratico, che ha il suo luogo naturale nelle sedi istituzionali. Specie in un momento, come l’attuale, non sereno. I rischi di una deriva populista sono dietro l’angolo. Non vorremmo che il finale de “Il Caimano”, dove il presidente del Consiglio in manette rivendica la sua innocenza perché eletto dal popolo mentre la folla lo acclama e si scaglia contro i giudici, diventi un sinistro presagio. Per tante ragioni, speriamo resti finzione cinematografica.
SiciliaInformazioni, 08 ottobre 2009
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