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I segnali provengono da tre eventi che possono sembrare a tutta prima di modesta portata: un film, un romanzo, un saggio. Il film è appunto quello di Tornatore, il romanzo si intitola “Noi” e l’ha scritto Walter Veltroni, il saggio è un libro-intervista di Alberto Asor Rosa ed ha per titolo “Il grande silenzio degli intellettuali”. Sono stati recensiti dai giornali e circolano nelle librerie e nelle sale cinematografiche. “Baarìa” insieme ad altri quattro film è sotto esame per la candidatura alle “nomination” degli Oscar. Non ho quindi alcun bisogno di esaminare l’estetica di questi tre prodotti artistici e letterari e infatti non è questo che mi sono proposto di fare. Desidero invece capire il nesso che esiste tra di loro, l’impulso che ha mosso i loro autori, il significato della loro simultaneità. Sono stati prodotti tutti e tre nei mesi scorsi e sono stati messi in questi giorni a disposizione del pubblico. Coprono tutti e tre un arco di tempo che va dagli anni Trenta del Novecento ad oggi. Esaminano il percorso di tre generazioni da tre diverse angolazioni sociali. Tornatore rappresenta la saga d’una famiglia e di un ambiente di braccianti, piccoli artigiani, lavoratori senza prospettive di futuro. Veltroni un’altra saga familiare di piccolissima borghesia. Asor Rosa la società dei colti, degli intellettuali e del loro rapporto con la politica. Abbiamo dunque contemporaneamente sotto gli occhi una società sezionata su tre diversi livelli che nel loro insieme producono una sorta di risonanza magnetica e fanno emergere i vizi le virtù e la forza di quel corpo sociale nel suo insieme. Vedremo in che modo e con quali esiti.
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I pastori, i contadini e i poveri (sono tutti poveri e poverissimi) di Baarìa sono in stato di schiavitù, non solo degli agrari, dei fascisti e dei mafiosi, ma dei costumi del luogo e dell’epoca. Le donne in particolare. E i bambini. Così li racconta Tornatore e così erano nella realtà. Chi ha avuto dimestichezza con i contadini del Sud conosce quella realtà che non era soltanto siciliana, era la stessa nelle Calabrie, in Basilicata, nelle Puglie. Le malattie, la fame, la promiscuità, gli incesti, i tuguri, gli aborti delle mammane, i vermi nella pancia, il tracoma. I funerali con le nenie e i graffi sulle guance delle donne salmodianti, le processioni e l’attesa dei miracoli. I rapimenti delle ragazze e i matrimoni riparatori. Durò fino alla guerra e oltre. Poi cominciò la grande fiumana dell’emigrazione. I giovani del Sud emigrarono in massa, l’Italia contadina diventò industriale, 5 milioni di ventenni spezzarono le radici che li legavano al Sud e scoprirono di esser cittadini titolari di diritti. Ma molti l’avevano già scoperto nelle loro terre d’origine rispondendo al richiamo del sindacato e del Partito comunista. Tornatore racconta questa lotta di liberazione, nella quale caddero sotto i colpi della mafia decine e decine di sindacalisti e di dirigenti del partito. C’è una scena del film in cui il protagonista racconta ad un giornalista come e dove avvennero queste mattanze che hanno costellato la storia di quegli anni. Il film si chiude con la nuova Bagheria diventata una città “da bere” intasata di automobili e fitta di negozi firmati sull’esempio di Milano, di Roma e di tutto il mondo del consumismo. L’ultimo fotogramma è un poetico flash su un passato miserabile ma riscattato da una dignità che ormai, così racconta Tornatore, sembra un avanzo in disuso. Sono stato all’anteprima dedicata a Giorgio Napolitano. La sala era gremita e gli onori di casa li facevano i dirigenti di Medusa e di Mediaset com’era giusto che fosse perché il film l’hanno prodotto loro. E chi altri avrebbe potuto in Italia? Un film di sinistra senza ammiccamenti. Entrando ho visto al mio fianco Pippo Baudo. Mi ha detto: “C’è il regime al completo”. Era vero, ma quando il regime è costretto ad applaudire il talento culturale di chi gli si oppone, vuol dire che qualche cosa si sta muovendo.
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Il romanzo di Veltroni si muove sullo stesso piano del film di Tornatore, la trama copre lo stesso arco di tempo e scandisce l’evoluzione della società del bisogno e dei doveri a quella del benessere e dei diritti, fino all’ultima svolta e all’ultima metamorfosi in un consumismo stordito e schiacciato sull’attimo fuggente, senza più storia né progetto. Nel romanzo c’è un elemento in più rispetto al film: la persecuzione contro gli ebrei nell’epoca del nazifascimo e la sostanziale indifferenza degli italiani. Noi – questo è il titolo – non è un’operazione politica travestita da romanzo, ma un romanzo con un fondo morale, come sono tutti i romanzi veri. Un fondo morale non indicato in forma didascalica ma vissuto attraverso le avventure e i sentimenti dei personaggi, i loro conflitti, i loro affetti, la loro discendenza, i loro successi e le loro sconfitte. La voglia dell’autore è quella di raccontare una vicenda collettiva attraverso una saga familiare. Il finale registra una società appiattita e ipnotizzata dentro alla quale cominciano a serpeggiare brividi e bagliori di speranza.
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Asor Rosa, intervistato da Simonetta Fiori, racconta il grande silenzio dei colti e una politica diventata spettrale da quando non ha più vissuto nella luce della cultura. Il racconto ha la forma di una testimonianza in gran parte autobiografica e questo è il suo pregio perché Asor Rosa non ha la pretesa di mettersi fuori o addirittura al di sopra della mischia. Lui nella mischia c’è stato a partire da quando si iscrisse al Pci e ne condivise criticamente gli errori e le virtù. Storicizza la vicenda vissuta dal partito, che abbandonò nel 1956 per poi rientrarvi nella fase berlusconiana. Storicizza non per giustificare gli errori del partito e i suoi, ma per spiegare perché furono commessi. Per capire, arrivando alla conclusione d’una decadenza culturale che ha messo il nostro paese fuori dalla modernità.Vede lucidamente il fiume carsico che scorre limaccioso nelle vene della società italiana e gli esiti che comporta ogni volta che emerge dal sottosuolo e identifica la debolezza degli argini con la presenza di quei colti che Prezzolini chiamò “apoti”. Prezzolini fu la figura più rappresentativa degli “apoti”, quelli che si mettono appunto fuori e al di sopra della mischia in una posizione solo apparentemente neutrale che in realtà si risolve in un fiancheggiamento delle pulsioni disgreganti e anarchiche del carattere italiano. La diagnosi è simile a quelle di Tornatore e di Veltroni. Manca anche in lui, nella sua testimonianza, una terapia e la ragione di questa mancanza è chiara: la sola terapia possibile sta nella diagnosi. Di lì bisogna partire; un compito che non spetta ad una persona, ad un leader mandato da una improbabile Provvidenza, ma spetta ad un popolo che decida di riappropriarsi della sua sovranità come deve avvenire nei tempi di decadenza e di crisi. Un film, un romanzo, un saggio, animati tutti e tre dalla necessità di recuperare la memoria delle cadute e dei rinascimenti. Liberazione della memoria, questo è il loro pregio e per questo li ho qui segnalati.
repubblica.it
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