martedì 14 luglio 2009

Il metodo Nisticò...

di ROBERTO ROSSI
C’è una storia che spiega molto bene chi era il giornalista Vittorio Nisticò. È la storia semplice di un pomeriggio palermitano di cinquantacinque anni fa. Quella del suo approdo alla direzione de «L’Ora» di Palermo. Ne scrisse lui stesso in un libro (“Accadeva in Sicilia”, Sellerio) che raccoglie in due tomi gli editoriali pubblicati in vent’anni e una straordinaria raccolta di aneddoti e analisi: «Già all’indomani del mio arrivo più di un dirigente locale si presentava in redazione con l’aria del padroncino di casa. Poi un giorno vidi addirittura un gruppetto, segretario cittadino in testa, tranquillamente occupati in una tipica riunione di partito come in federazione o in una sezione. Non ebbi altra scelta che invitarli ad andarsene. Fu il primo paletto; l’altro fu di stabilire il divieto di cellule all’interno del giornale e, per i redattori, di assumere incarichi di pubblica militanza politica».
Sono le parole di un uomo libero, un uomo fiero della sua appartenenza culturale e politica e al contempo intransigente nel difendere strenuamente se stesso e il suo giornale da ogni ingerenza partitica. «L’Ora» apparteneva al PCI, ma non ne subiva la linea. Fu Nisticò, direttore dal ’54 al ’75, a garantirne l’indipendenza e ad essere, semmai, insieme agli intellettuali che orbitavano attorno alla testata, fucina di idee e programmi politici.
Era «L’Ora» un giornale dall’anima battagliera, coraggiosa, che da sempre in Sicilia era stata sinonimo di cambiamento. Figlio di un’antica idea di libertà alla base di un progetto politico progressista partorito dalla migliore imprenditoria siciliana che tanta ricchezza e prestigio aveva distribuito nell’isola. Allora, e stiamo parlando del 1900, come ora, il sogno di una società aperta, libera dalle ingerenze politico-imprenditoriali-mafiose, rimaneva un orizzonte al quale guardare con tenacia. Quella battaglia fu ingaggiata dai Florio e trovò fabbrica di consenso nelle pagine de «L’Ora». Passato di mano in mano fra il primo e il secondo dopoguerra, il quotidiano trovò nel 1954 nel PCI il nuovo padrone, nel popolo siciliano l’unico referente, e questo grazie a quei paletti piantati dal notista politico calabrese che a 35 anni ne agguantò il timone.
A lui, il compito di rileggere in chiave moderna quanto già espresso da quel progetto: opporre aspramente le istanze delle classi lavoratrici e medio-borghesi agli interessi del vecchio e chiuso sistema di potere siciliano nel quale la mafia giocava un ruolo sostanziale. Un riformismo sociale aperto alle forze produttive, e al contempo intransigente, a causa delle fragilissime dinamiche democratiche dell’isola.
Durante la sua direzione, «L’Ora» non fu solo un testimone dei fatti. Fu piuttosto dentro ai fatti, intervenendo sull’agenda politica, parteggiando, offrendo ai lettori un punto di vista netto. E questo non solo perché l’antica anima del giornale finiva per innestarsi sulla fortissima identità della sinistra antimafiosa siciliana forgiata col sangue versato dal movimento contadino. Ma soprattutto perché «L’Ora», con Nisticò, cominciò a fissare i suoi valori di notiziabilità sulla consuetudine di leggere gli avvenimenti dell’attualità come elementi di un processo storico più ampio, definendoli in virtù del loro peso sul mutamento sociale e politico, applicando all’attualità le categorie dell’interpretazione storica. Una scelta e un metodo che hanno avuto un robusto indirizzo politico e culturale, e un peso molto forte nella definizione dell’idea che i lettori avevano di sé, della loro terra e delle scelte politiche necessarie al cambiamento.
Fra queste scelte, la lotta senza quartiere alla mafia. Una intifada di carta e inchiostro e cervello e scarpe consumate, che nel giro di dodici anni ha inghiottito tre vite: Cosimo Cristina, ucciso nel 1960 a Termini Imerese, Mauro De Mauro, scomparso a Palermo nel ’70, Giovanni Spampinato finito con sei colpi di pistola a Ragusa solo due anni dopo.
Impressionante il lavoro di inchiesta che ha prodotto «L’Ora» in quegli anni. «Tutto sulla mafia», il ciclo di inchieste che debuttò il 15 ottobre del 1958 sulla scia di sangue della faida che segnò la scalata al potere mafioso del gruppo di Luciano Liggio, rimane un classico del giornalismo. Erano anni in cui persino l’esistenza stessa della mafia era negata, dalla gente comune come dall’establishment politico e culturale. Il cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, era solito parlarne come di un’invenzione dei comunisti per denigrare la DC. La magistratura aveva un ritardo enorme dovuto anche agli indugi della politica, le forze dell’ordine continuavano a interpretare le faide di mafia come gesti frutto di una natura retrograda e selvaggia: un problema di sottosviluppo culturale. In quel contesto, Vittorio Nisticò introdusse così quella serie di approfondimenti: «Occorre procedere a un esame organico dell’organizzazione della mafia, entrando nel labirinto dei suoi affari e dei suoi rapporti con la politica e le istituzioni».
Il giorno successivo, inserito in una cornice di piccole stelline nere, accanto allo schizzo della fondina di un’automatica, domina la pagina il titolo «Pericoloso!». Sotto, al centro della pagina, l’enorme foto stile wanted di un sardonico Luciano Liggio. Non passano tre giorni. La notte fra il 18 e il 19 ottobre, quattro chili di tritolo fanno saltare in aria la tipografia del giornale. «La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua» è l’apertura del 20 ottobre.
Quell’inchiesta, l’attentato che ne seguì, ebbero un effetto immediato sull’azione del governo regionale di Silvio Milazzo, che da lì a poco varò una riforma per il risanamento dei consorzi di bonifica, una miniera di denaro pubblico che finiva dritto in mano alla cosche. Ma ci sono almeno altri tre effetti provocati dal lavoro dei giornalisti de «L’Ora». Da una parte, dopo quell’attentato si cominciò a discutere in Assemblea regionale di un documento che proponeva al Parlamento l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso, istituita poi nel 1963. Dall’altra, la lettura della mafia come un sistema di potere nel quale confluiscono politica ed economia fu il primo passo per costruire, in anni più recenti, un’organica e più efficiente lotta contro la criminalità organizzata da parte della società civile e di alcuni servitori dello Stato. Quella definizione sistemica determinò, infine, la consapevolezza diffusa che la mafia non fosse solo un problema siciliano, ma che, proprio per la sua capacità di inquinamento della vita pubblica italiana, fosse piuttosto una questione nazionale. «Ci voleva l’attentato a L’Ora per capire che la mafia c’è», è l’apertura del 22 ottobre 1958 che riprende le parole del futuro Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Quello espresso da «L’Ora» fu un giornalismo antimafia politico. Il gruppo di intellettuali che lo realizzò capì che la lotta ai clan non poteva che essere agone politico. La costante attenzione al fenomeno, l’impostazione di indagine autonoma, le interpretazioni accordate alla mafia sulla base di una chiave di lettura che la vede come sistema, permisero a «L’Ora» di svelare che Cosa nostra non era (e non è) solo un organismo che collude con la politica, ma che è piuttosto un pezzo della politica. Così come tutta la storia del Novecento siciliano ha dimostrato, a partire dalla difesa degli interessi reazionari del blocco agrario di inizio secolo, passando da Portella della ginestra, fino alla speculazione edilizia di Lima e Ciancimino. Un’impostazione di questo tipo non poteva che venire da un giornale dal forte indirizzo politico e dalla capacità di lettura storica dell’attualità.
Quel giornalismo di inchiesta sulla mafia è la grande eredità che «L’Ora» ha lasciato a questo Paese. Vittorio Nisticò e la sua redazione, la squadra che giorno dopo giorno costruirono quest’eredità in anni che ci appaiono lontani e così diversi dai nostri ma che rimangono invece incredibilmente simili rispetto al rapporto di forza che la mafia continua ad avere nella società, nella politica e nell’imprenditoria italiana. Vittorio Nisticò è morto il 7 giugno a Roma a 89 anni. Ognuno di noi avrebbe voluto imparare da lui il mestiere di giornalista.
Roberto Rossi

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SCHEDE

«Dà pane e morte»
di Felice Chilanti, «L’Ora», 15 ottobre 1958

«Qualche settimana fa, mentre l’Assemblea regionale discuteva il Bilancio della Regione e già si dava per certa la caduta del governo La Loggia, sono stati notati alcuni strani personaggi lungo i corridoi del Palazzo dei Normanni. Erano i capimafia venuti a Palermo da Caltanissetta ed Agrigento per far sentire le loro ragioni. Genco Russo, l’uomo che viene indicato come il successore del defunto commendator Calogero Vizzini, capo e primo consigliere di tutte le mafie isolane, entrava ed usciva da tutti gli uffici, si intratteneva con deputati e assessori, insomma si faceva intendere. E la sua presenza veniva osservata e commentata a bassa voce e nelle cronache della “crisi governativa” si è fatto il suon nome. Questo Genco Russo è un “agricoltore” di Mussomeli, un privato cittadino. E tuttavia la sua presenza alla sede dell’Assemblea regionale in un momento decisivo di una crisi governativa assumeva significati oscuri, tenebrosi, in un certo senso suggestivi».

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Dall’introduzione di «Rapporto sulla mafia» di Felice Chilanti e Mario Farinella, Palermo, 1964. Il libro raccoglie in modo sistematico le inchieste de «L’Ora» a partire dal 1958.

«A questo punto era chiaro che certi schemi tradizionali della pubblicistica sulla mafia non resistevano più. Cercavamo una risposta adeguata al “perché?” di quelle esplosioni di violenza. Le versioni ufficiali basate sui temi della vendetta familiare o del semplice contrasto di prestigio erano travolte a tal punto dalla crudele drammaticità dei fatti stessi da insospettire: sembravano mascherare deliberatamente realtà molto più complesse e sgradevoli. E una risposta effettiva, convincente non poteva venire ormai neppure dai discorsi della Sinistra che, piuttosto stancamente, continuavano a insistere sull’esclusiva identificazione fra potere mafioso e superstiti strutture feudali. D’altro canto in nessun’altra parte, come in Sicilia, il delitto è una manifestazione rigorosamente dialettica, nel senso che quasi sempre (comunque, sempre quando viene dalla mafia) è dettato da una logica serrata, implacabile».
Vittorio Nisticò

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