di Francesco Palazzo
Nell´interessante, e per molti versi apprezzabilissimo, intervento sulla mafia del presidente della Camera, in visita l´altro giorno in Sicilia, c´è una doppia affermazione che può essere oggetto di approfondimenti. Da un lato, la terza carica dello Stato ha affermato che il potere mafioso è una dittatura alla quale ribellarsi con le leggi e la legalità, dall´altro ha detto che nel ramo del Parlamento che rappresenta non ci sono né mafiosi né chi li difende. Proviamo a ragionare. La dittatura è una forma autoritaria di governo, in cui il potere è concentrato in un solo organo o nelle mani del dittatore, senza limiti di leggi o altri poteri. In primo luogo, se la mafia fosse stata, dall´unità d´Italia a oggi, un sistema di questo tipo, sarebbe già stata spazzata via come accaduto con ben altre dittature del secolo breve, fascismi e comunismi in testa. Che hanno trovato, ma questo è un altro discorso, un´ampia e radicata approvazione nei popoli. Il richiamo alle dittature richiama, in secondo luogo, al versante militare che questi regimi hanno utilizzato, e ancora impiegano, per affermarsi. È pur vero che il potere mafioso ha una struttura militare capace di colpire in diverse fasi storiche e in modi differenti. Tuttavia tale forza non è stata mai utilizzata per edificare totalitarismi. Al contrario è stata amministrata nei momenti giusti, sia quando è stata richiesta dallo Stato per mantenere l´ordine, ad esempio contro il brigantaggio, sia nei momenti in cui Cosa nostra si è mossa in proprio, vedi le stragi del ´92 e del ´93. E anche in questi ultimi casi è possibile, e molti tra investigatori, studiosi e storici lo ritengono verosimile, che le cosche si siano mosse all´interno di cointeressenze con pezzi più o meno deviati delle istituzioni. Al momento ne sappiamo poco, ma non escludiamo che i nostri figli potranno farsi, su tale delicata questione, un´idea meno precaria e ipotetica della nostra. Ciò che però possiamo affermare con ragionevole certezza è che i poteri mafiosi, che sono sì militari ma soprattutto finanziari e politici, hanno giocato la loro partita per intero, almeno in Italia, prima durante lo Stato liberale, poi durante il fascismo, quindi nel periodo repubblicano e democratico che viviamo. Non è stata mai la dittatura il loro orizzonte operativo, non avrebbero potuto sostenere un simile impegno strategico. Che peraltro non era funzionale ai loro interessi. Invece, com´è avvenuto sotto gli occhi di tutti, gli interessi mafiosi hanno proliferato dentro i sistemi politici in cui si sono trovati a vivere. In ultimo, riferendoci al nostro Paese, in quello democratico e costituzionale. Al cui interno hanno messo insieme un potere finanziario immenso, ormai in larga parte legalizzato e perciò difficilmente colpibile. Chi li ha aiutati, nell´ultimo sessantennio, in tale percorso? Sicuramente c´è stato un consenso di base da parte della popolazione. Ma non si può negare, faremmo un torto alla nostra intelligenza, che un decisivo appoggio è venuto dalla classe dirigente italiana. Non saremo certo noi a dire che la mafia è a Roma. Tale affermazione, vecchia come il cucco e falsa, è servita a molti di coloro che hanno guidato la politica nelle regioni meridionali, e a gran parte del corpo elettorale che li ha espressi, per scaricarsi di responsabilità appartenenti in larga parte alle classi dirigenti locali. Ma, allo stesso modo, è un tantino esagerato sostenere che nelle aule parlamentari della capitale non ci sono coloro che appoggiano le mafie. Perché vorrebbe dire che non abbiamo capito niente della nostra storia, e della cronaca, recente. Invece qualcosa l´abbiamo capita. La potenza delle mafie sta proprio nell´essere riuscite, con le complicità che sappiamo, a inserirsi nel gioco democratico, senza avere come progetto di destabilizzarlo, perché è il sangue su cui viaggia il loro potere. Se ci fossimo trovati, in questo secolo e mezzo, da una parte una dittatura criminale e dall´altra un Parlamento tutto pulito, a quest´ora non parleremmo più di mafie. Se ancora esse vivono e lottano assieme a noi, è perché le cose sono andate, e vanno, in maniera profondamente diversa.
La Repubblica, 1 aprile 2009
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