di Agostino Spataro
Negli anni del fascismo, Natale era “lu friddu e la fame”. Così assicura mio nonno, Agostino Cultrera, bracciante proletario e improvvisatore sopraffino, in una sua poesia dell’epoca, nella quale rivela che per dare al Natale una parvenza di festa fu costretto a svendere la “jocca cu tutti i puddricini” ovvero la chioccia con tutti i pulcini. Si, perché allora il Natale più che un’attesa ricorrenza era una sorta di scadenza indesiderata che si stentava ad onorare. I bambini non s’aspettavano nulla, anche perché Babbo Natale sconosceva queste contrade. Era un po’ questo il Natale dei poveri ossia della stragrande maggioranza della popolazione. Ma anche i ricchi lo vivevano con un certo imbarazzo. Molti lo festeggiavano in sordina, taluni, addirittura, a porte chiuse per non far udire ai poveri, e agli agenti del dazio, i clamori del loro miserabile benessere.
Oggi, grazie alla democrazia e al progresso sociale conquistati col sacrificio d’intere generazioni di lavoratori e di emigrati, il Natale è la festa più attesa. Anche in questo tempo incerto, è tornato a ravvivare la tradizione che, con i regali, porta anche la ricreante sensazione d’intimo rasserenamento e di riconciliazione con il prossimo. Comportamenti normali, umani direi, che però possiamo permetterci solo in questo periodo e non per il resto dell’anno che viviamo egoisticamente, anche a danno di altri. La questione non è solo morale, ma è anche di natura sociale e politica. Voi direte: ma cosa c’entra la politica con le feste comandate? Penso che c’entri e tanto. Giacché i nostri comportamenti, anche in queste occasioni, sono influenzati da sofisticate strategie consumistiche, psicologiche perfino, che, fra affanni e disattenzioni, non ci fanno vedere l’espandersi, doloroso e tumultuoso, della geografia della miseria e delle malattie. Nel mondo e in casa nostra. Le cronache c’informano che ormai questi fenomeni hanno oltrepassato i confini delle più disperate regioni dell’Africa e dell’America Latina e cominciano a prendere piedi in Sicilia, in Italia e nella ricca Europa. Una realtà drammatica che non si può fermare con qualche sacco di farina o con la carità di chi prima provoca o favorisce il disastro e poi vorrebbe rimediarvi con un modesto atto liberatorio. Dopo un trentennio, bisogna prendere atto che la globalizzazione liberista, l’ideologia del mercato, che ha sostituito le altre preesistenti, non produce giustizia sociale, ma scandalosi profitti per pochi e una gran quantità di poveri, di emarginati. Gli effetti si sono propagati un po’ dovunque. Anche in Sicilia, dove il 30% delle famiglie vive sotto la soglia di povertà e molti cittadini non hanno più accesso a taluni servizi essenziali. Intorno a noi, soprattutto nelle grandi città dell’Isola, sta crescendo un mondo di esclusi. Giacché è cambiato il segno distintivo della società che invece d’includere tende ad escludere. La povertà non sembra guardare in faccia a nessuno, colpisce i pensionati, gli operai, ma anche il ceto medio e, soprattutto, i giovani disoccupati o arruolati nelle folte schiere del precariato. Viviamo il tempo dell’incertezza, della sospensione dei diritti fondamentali. La gente trema pensando al futuro. L’incertezza non è data solo dalla paura della crisi recente, che s’annuncia durissima, ma viene da lontano: da quando è in atto una regressione generale che, passo dopo passo, colpo su colpo, tende a riportare il mondo a l’ancien regime. Si, quello crollato nel 1789. Liquidata, in quattro e quattro otto, l’esperienza socialista, talvolta realizzata in contraddizione con se stessa, ora si punta a demolire l’ultimo baluardo del progresso sociale, culturale e giuridico moderno: la rivoluzione francese. Non è casuale che la globalizzazione sta liquidando la stessa piccola e media borghesia produttiva che, per molti versi, è stata uno degli assi portanti del progresso democratico delle nazioni. Non sarà facile, ma ci stanno provando. Anche in Italia dove, senza dichiararlo in pubblico, si sta attuando, talvolta in forma “bi-partizan”, la trasformazione materiale e no della Costituzione, trasformando in obolo i diritti fondamentali dei cittadini. Invece che salari, pensioni e servizi decenti, si concedono “buoni-spesa” e domani, forse, anche le tessere per il pane. Perché non si vogliono uomini e donne dotati di diritti e di doveri, ma questuanti con la mano tesa.
E, così, per alleviare i disagi e ricreare l’illusione di una vita degna si organizza una festa bella e benefica, il Natale, per l’appunto, quando tutto luccica e anche i grandi patrimoni sprizzano bontà e solidarietà. Per un paio di settimane, vediamo l’avido ghigno dei miliardari mutarsi in sorriso concedente e schiere d’ipocrite dame sculettare, fra tende oltraggiose e tristi ospedali, per portare agli esclusi (da chi?) la loro carità pelosa. Insomma, fra Natale e l’Epifania avviene il miracolo della bontà. Due settimane e mezzo. Per il resto dell’anno, ossia per altre 50 settimane, lacrime e sangue. Molti, anche dai pulpiti, per evitare la ricerca delle responsabilità s’appellano ad insondabili volontà superiori, taluni al destino cinico e baro che, stranamente, s’accaniscono sempre contro i più deboli. Meno male che c’è il destino che mette a posto le farisaiche, false coscienze. Comunque sia, auguri a tutti! Sperando che, fra un pranzo e l’altro, qualcuno rifletta e si volti a guardare coloro che stanno dietro.
Agostino Spataro
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