Il suo passaggio da un partito all'altro, da cui non ha mai tratto un vantaggio personale testimoniava per lo meno una singolare irrequietezza intellettuale
di MIRIAM MAFAI
Da qualche anno Vittorio Foa si era rifugiato, con Sesa, a Formia dove lo raggiungevano spesso i suoi amici. Ricordo, qualche anno fa, un suo compleanno celebrato insieme. Occasione anche per discutere dell'ultimo libro. "Il silenzio dei comunisti" che portava la sua firma, assieme a quella di Alfredo Reichlin e della sottoscritta. In quella occasione gli avevamo portato dei regali ed egli sembrò apprezzare in modo particolare la lunga sciarpa, di un rosso che volgeva all'albicocca, che gli aveva offerto Roberta. La serata era tiepida, ma Vittorio, prima di uscire se ne avvolse le spalle. Per discutere del suo libro, la sezione dei Ds di Formia aveva convocato un'assemblea. La sala, quando arrivammo, era già piena. E noi rimanemmo stupiti, felicemente stupiti, del fatto che la maggioranza del pubblico fosse composta da giovani, ansiosi di prendere la parola e discutere con quel vecchio dirigente che avrebbe potuto essere il loro nonno o bisnonno. "Ma succede dovunque così, quando c'è Foa" mi spiegarono altri amici. "Ci sono sempre molti giovani, si tratti di una sezione, di partito, o di un liceo". Me ne sono chiesta la ragione. E ho pensato che forse la simpatia che lo circonda (o, più correttamente lo circondava) nascesse dal fatto che l'uomo era difficilmente classificabile. Uomo di sinistra, senz'altro. Ma di quale sinistra? Nel secolo tormentato che ci sta alle spalle, egli ha appartenuto a tutti i partiti che alla sinistra si sono richiamati, dal Partito d'Azione, di cui è stato dirigente nella Resistenza e nei primi anni della Repubblica, al Psi che per tre legislature ha rappresentato in Parlamento, allo Psiup nato anche per sua volontà da una scissione dei socialisti, fino allo Pdup e ad altre formazioni della estrema sinistra nei tumultuosi anni 70. Questi partiti egli li ha amati, li ha criticati, li ha abbandonati. In tempi di disciplina e conformismo, il suo passaggio da un partito all'altro - un passaggio dal quale Foa non ha mai tratto un vantaggio personale - testimoniava per lo meno una singolare irrequietezza intellettuale. Una volta, in polemica con le critiche di alcuni dirigenti comunisti, mi spiegò cosa dovesse intendersi per coerenza. "Vedi" mi disse "la coerenza dei comunisti è in primo luogo la fedeltà a un'organizzazione, una sorta di feticismo di partito. Il mio tipo di coerenza, o se vogliamo di fedeltà è quello della ricerca di un obiettivo, sempre lo stesso ma attraverso diversi percorsi. Io ho sempre cercato la verità in modo trasversale, al di là degli steccati". Così all'amico Carlo Ginzburg che una volta gli faceva notare come avesse cambiato idee importanti nel corso di pochi anni, rispondeva: "Le mie non sono contraddizioni ma compresenze di posizioni diverse". Aveva ragione. In un'epoca nella quale la fedeltà a un partito poteva tradursi in autosufficienza e chiusura alle ragioni degli altri, in un'epoca nella quale la militanza politica poteva spegnere ogni spirito critico ed umiliare le coscienze dei singoli, Vittorio Foa ha sempre coltivato le proprie contraddizioni o "compresenze di posizioni" come un antidoto al settarismo, quasi un gusto e sapore di libertà. Fu certamente uno degli uomini più liberi che io abbia conosciuto, disinteressato nei comportamenti e sempre appassionato e curioso delle ragioni degli altri. Dentro di lui convivevano spinte diverse: la tensione etica tipica degli azionisti, la passione del sindacalista (per più di venti anni era stato un dirigente di primo piano della Cgil), la capacità dello studioso di indagare sulla storia e le trasformazioni della società, e, infine la fiducia nella possibilità degli uomini di battersi con successo contro l'ingiustizia, le disuguaglianze, l'esclusione. I vecchi, sia nella vita privata che nella vita politica, di solito si rivolgono al passato con nostalgia, sono scettici o pessimisti sul presente. Vittorio Foa faceva eccezione a questa regola. Era un ottimista. Una volta venne accusato, da sinistra, di guardare con troppa ingenuità e fiducia alla proclamata trasformazione di An. "Ma lei si fida delle parole di Fini?" gli venne chiesto. "L'appartenenza politica" rispose Foa "è un dato culturale non genetico. Se uno dichiara di volersi liberare dal mito fascista, io sono contento. Se mi fido? Nella storia della sinistra italiana l'espressione non mi fido è stata una delle regole più perverse". Pensava che la sinistra, liberatasi dagli ideologismi del passato, avesse non solo il diritto ma il dovere di governare il nostro paese. A condizione di superare i suoi tradizionali feticci, a condizione di far leva sui nuovi ceti sociali emersi dalle trasformazioni economiche, a condizione di darsi nuove strutture unitarie. L'Ulivo, secondo lui, avrebbe dovuto essere non solo una somma di partiti, ma una forza nuova che andasse oltre i singoli alleati. Lo ha sperato, anche di fronte a sconfitte e delusioni. E ha continuato fino alla fine, a invitare gli uomini e le donne di sinistra a non rinchiudersi in se stessi, a "parlare agli altri, a quelli che hanno sbagliato scegliendo la destra di Berlusconi... Ma aprire gli occhi agli altri" ci ripeteva "vuol dire anche in qualche modo rispettarli, avere con loro un rapporto umano, cercare di capirli". E a chi gli chiedeva cosa dovesse fare la sinistra, quale dovesse essere il suo programma, rispondeva "E' una perdita di tempo e di senso cercare di definire una identità della sinistra. Bisogna fare quello che è giusto e necessario per il Paese, i posteri diranno se era di destra o di sinistra".
(La Repubblica, 21 ottobre 2008)
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