di Agostino Spataro
Dalla Sicilia è venuto un nuovo, allarmante segnale per il Pd e per quanto ancora resta della sinistra complessivamente intesa e in generale per la tenuta democratica del Paese. Certo, questo nuovo disastro elettorale riguarda, e richiama, in primo luogo, le responsabilità dei circoli dirigenti siciliani, ma non esime gli stati maggiori nazionali a guardare in faccia la realtà e a provvedere. Sarebbe, infatti, una magra consolazione pensare che sia una faccenda solo siciliana, una delle tante, giacché così non è. Senza dimenticare che - come spesso è accaduto- quel che succede nell’Isola prima o poi andrà a verificarsi nel resto dell’Italia. La situazione è dunque molto grave e i tempi molto stretti per correre ai ripari. Eppure, non pare che il segnale sia stato colto da chi di dovere e abbia innescato una reazione politica corrispondente alla drammaticità della situazione. Della sinistra non si hanno notizie, mentre nel Pd alcuni cominciano a parlare, non per svolgere un’analisi seria, impietosa dei risultati e dello stato del partito, quanto per allontanare da loro ogni responsabilità e scaricarla su qualcun altro che trama nell’ombra o comunque lontano dall’Isola. La gran parte degli esponenti, anche di primissimo piano, tacciono. Muti e sbadati, guardano altrove. Com’ è costume di chi sembra aver scelto il silenzio come arma più efficace per continuare a galleggiare sopra un mare di relitti che fluttuano alla deriva. A nessuno di questi dirigenti e deputati viene in mente che, innanzitutto, il problema sono loro medesimi in quanto responsabili di scelte spartitorie ed auto-referenziali, di strategie e comportamenti politici incomprensibili, contraddittori che hanno incrinato il rapporto di fiducia con iscritti ed elettori e portato al disastro il Pd siciliano.
Oggi si pagano le conseguenze di una concezione retrodatata della politica- affermatasi negli ultimi lustri soprattutto all’Ars e in tanti enti locali- scaduta in una sequela di comportamenti rinunciatari, pavidi, accomodanti quando non apertamente in combutta col potente avversario che s’avrebbe il dovere di combattere. Un tempo lungo, opaco nel quale gli esponenti delle diverse sigle post-comuniste hanno vissuto alla giornata, dilapidando la rendita residua ereditata da un passato certo glorioso ma forse irripetibile. L’entità dello scacco subito è tale da richiamare un vasto arco di responsabilità avvicendatesi lungo un percorso temporale che va ben oltre il tortuoso (e incompleto) processo di costituzione del Pd. Perciò, non basta la richiesta di dimissioni del segretario e del vicesegretario regionali. Sarebbe la solita operazione illusionistica, trasformistica che si limiterebbe a tagliare le cime appassite di un albero ormai infiacchito il cui male s’annida alle radici.
on tutto il rispetto per i due titolati esponenti non credo che, da soli e in così poco tempo,
abbiano potuto determinare un danno così grande. Il risultato siciliano, deludente quanto uniforme, è davvero allarmante, inquietante direi, per il ruolo attuale e per le sorti future delle forze progressiste isolane e non solo. Spero di sbagliarmi, ma ho l’impressione che tutto un patrimonio d’idee e di forze, anche nuove, stia rotolando verso l’abisso della dissoluzione. Il problema, dunque, non è l’ambizione frustrata di questo o di quello, ma la sopravvivenza e il rilancio di una prospettiva politica ispirata al progressismo democratico, solidaristico e pacifista. Insomma, qui sono in ballo valori e questioni portanti: il futuro della Sicilia e dell’Italia nei loro rapporti con l’Europa e il Mediterraneo. Perciò non si può pensare di affrontare una sfida così ardua con qualche manovra diversiva, furbesca e nemmeno invocare la rifondazione di un partito che è stato appena fondato, anche se malamente. D’altra parte, questa sconfitta è l’ultima di una lunga successione che conferma una pericolosa tendenza al declino elettorale e politico. Perciò, ritengo che in Sicilia il Pd e quanto resta della sinistra siano andati oltre la sconfitta, verso la disfatta, precipitando in un vuoto tenebroso che prelude alla fine. Una sconfitta può capitare a tutti, in politica come nell’arte militare. Purché non segua la rotta delle schiere vinte, per poterle riannodare e preparare la rivincita. Insomma, dopo una sconfitta si può sempre sperare in una reazione, in uno scatto d’orgoglio che riaprano i giochi e quindi l’esito finale dello scontro.
Nel nostro caso la sensazione è quella dello scoramento, dello sbandamento, della disillusione confermata dall’alto indice di astensioni attribuite agli elettori del centro-sinistra.
Che fare? A fronte di un interrogativo così altamente drammatico non è facile, per nessuno, offrire risposte rassicuranti. Tuttavia, qualcosa bisognerà pur fare per bloccare la tendenza in atto. In primo luogo, occorrerà obbligare un po’ tutti a pensare, a reinventare la democrazia e le forme della partecipazione popolare, a progettare il futuro guardando in avanti, oltre l’inizio cupo di questo XXI secolo. A tale sforzo colossale, innovativo, propositivo si dovrà rapportare la capacità dei nuovi gruppi dirigenti che non dovranno più essere cooptati e/o lottizzati, ma eletti democraticamente come migliore espressione, culturale e politica, di un processo reale. I risultati ci dicono che, complessivamente, gli attuali gruppi dirigenti dei partiti del centro-sinistra non sono all’altezza di tali compiti e sfide. Alcuni vi hanno deliberatamente rinunciato. Perciò, persistendo nella metafora militaresca, forse è il caso d’andare a vedere cosa, e chi, non sta funzionando all’interno della catena di comando. Senza girarci intorno, per favore, con girotondi e cose del genere o illudendosi che qualcuno lasci spontaneamente la postazione. Anche in politica vi possono essere passaggi difficili, cruciali nei quali si rende necessario espugnare il fortino dello stato maggiore per mettere fino allo sbandamento. Oggi più che mai, appare necessario ed urgente costruire, in Sicilia e altrove, una linea di resistenza estrema che raccolga gli sbandati, i delusi, i volenterosi in buona fede, ecc. E da qui ripartire.
Agostino Spataro
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