sabato 31 luglio 2010

Contessa e Palazzo in "guerra" con l'Eparchia di Piana per il trasferimento dei parroci

Papas Nicola Cuccia ed il diacono Luciano Aricò
di Cosmo Di Carlo
CONTESSA ENTELLINA - Come era prevedibile il trasferimento di sacerdoti tra le chiese di rito greco e latino da Contessa Entellina a Palazzo Adriano e viceversa sta suscitando un vespaio di polemiche che non accennano a placarsi. La decisione è stata adottata da monsignor Pio Tamburrino, che dal 28 giugno ha assunto la guida dell’Eparchia di Piana degli Albanesi. Monsignor Sotir Ferrara, dunque, dovrà concordare i suoi provvedimenti di governo con il Delegato Pontificio, al fine di consentire al Vaticano di riordinare la presenza in Sicilia della Chiesa cattolica di rito bizantino. Pare che lo spostamento dei parroci non sia che il primo di tutta una serie di provvedimenti che monsignor Pio Tamburrino ha in programma di attuare. La “delocalizzazione” dei sacerdoti viene vista come un’azione tardiva, che rischia di riaccendere ulteriori antiche quetioni sopite e mai risolte tra la comunità greca e quella latina di Contessa Entellina, paese arbereshe. Come si ricorderà, tutto ebbe inizio un anno fa, dal primo al quindici agosto, quando il tradizionale canto della Paraclisis (un canto di lode alla “Madre di Dio”) fu celebrato per tutta la quindicina davanti alla Chiesa della Madonna della Favara, perchè il parroco latino, don Mario Bellanca, chiuse il portone della chiesa ai fedeli di rito greco, che per decenni avevano cantato la lode alla Madonna dall’interno del luogo di culto. La blindatura durò per tutta la quindicina ed ebbe notevole risalto sui mezzi di comunicazione di massa. Per questo la decisione di Tamburrino di spostare i parroci appare ai fedeli di rito Graco di Contessa come una “punizione” alla pari che, non solo non rende giustizia, ma arriva alla vigilia del primo agosto, probabilmente per evitare che si ripeta l’”inconveniente” dello scorso anno. La comunità bizantina ha organizzato per domani, alle 21,30, una fiaccolata di solidarietà per papas Nicola Cuccia, che attraverserà le vie del paese, ed ha programmato formulando regolare richiesta alle questure di Palermo e Foggia una manifestazione di protesta nella città pugliese, davanti alla sede dell’arcivescovato retto da monsignor Pio Tamburrino. Alla volta di Foggia partiranno 4 autobus colmi di fedeli di rito greco. Intanto il consiglio pastorale della chiesa latina di Palazzo Adriano ha stilato un documento di solidarietà a papas Sepa Borzì, il parroco della chiesa di rito greco, che dovrebbe prendere il posto di papas Nicola Cuccia a Contessa Entellina, indirizzandolo al segretario di Stato Vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, a monsignor Tamburrino, a monsignor Sotir Ferrara ed a monsignor Maurizio Malvestiti, sotto-segretario della Congregazione delle Chiese Orientali in Vaticano. Nel documento viene espressa “amarezza e rabbia“ e si definisce il trasferimento di papas Sepa Borzì “una scelta ingiusta anche perché, secondo il dettato del Diritto Canonico, un Parroco può essere trasferito o rimosso per gravi motivi pastorali o per motivi scandalosi, cosa che non risulta nell’operato e nell’agire di Papàs Sepa, che ha operato sempre per il bene della comunità di cui è parroco“, cercando sempre la pace tra Greci e Latini. Papas Borzì, dal canto suo, ha parole di carità cristiana nei confronti di monsignor Pio Tamburrino . “Lo conosco da 17 anni – ci ha dichiarato – ed abbiamo condiviso le gioie del mio sacerdozio uxorato (padre Borzì è sposato ndr). Sono rispettoso della sua decisione anche con dolore, con spirito di obbedienza ed ossequio per la sua persona e per chi lo ha nominato a gestire questo difficile arbitraggio. Ritengo al contempo che tutta questa vicenda ha poco a che fare con la nostra fede e doveva a mio avviso passare attraverso un confronto fraterno con i nostri fedeli. Ho scritto a monsignor Ferrara e Tamburrino esprimendo il mio “si” con riserva, poiché, come prevede il diritto canonico, essendo un sacerdote sposato, devo condividere con la mia famiglia sacerdotale questa decisione così come ho condiviso con essa il mio presbiterato. In ogni caso mi trasferirei a Contessa solo a settembre ad inizio del nuovo anno pastorale e vorrei essere presentato dal delgato pontificio”. Alla data odierna, papas Borzì non ha ricevuto il decreto di trasferimento. I prossimi giorni ci diranno se prevarranno il buonsenso e la fede.
Cosmo Di Carlo
Nella foto: Papas Nicola Cuccia ed il diacono Luciano Aricò durante la celebrazione della 15 della Paraclisis elevata alla “Madre di Dio” davanti alla Chiesa della Madonna della Favara nell’agosto dell’anno scorso.

L'esperienza di volontaria di una ragazza nei campi confiscati alle mafie in Calabria

Campo di lavoro in un terreno confiscato in Calabria
Il racconto di Silvia, una ragazza dell'associazione Legal-Mente, di ritorno da un campo di volontariato nei terreni confiscati alle mafie a Polistena. "E’ una calda mattina di Luglio, intrisa di sole e di una densa aria di mare, quando atterro nel piccolo aeroporto sulla costa calabrese di Lamezia Terme.
Il gruppo con cui opererò mi aspetta a Polistena, cittadina nell’interno della piana di Gioia Tauro, per una settimana di volontariato agricolo e di studio sui terreni confiscati all’economia criminale. Pervenuta alla scuola che fungerà da campo base, dove il team al gran completo già aspetta l’inizio dei lavori, basta poco per fare sì che questa esperienza si presenti, ai miei occhi, come un’avvincente, triplice sfida. In primo luogo, il team è molto numeroso. Sono almeno una trentina i volti sorridenti che mi accologono, i nomi da imparare, le storie che si intrecceranno in questa settimana di cooperazione nello studio del fenomeno mafioso e nel lavoro agricolo. Questo è il mio quinto campo di lavoro, e l’abitudine a gruppi più ridotti – composti da 15, 20 persone al massimo – ed a progetti di durata più lunga mi rende curiosa su come sia possibile, in un tempo tanto breve, armonizzare un così cospicuo numero di persone. Mi affido perciò all’esperienza di Libera, e del team di volontari locali che ci coordinerà, nel gestire gruppi tanto vasti ed eterogenei: ripongo la mia fiducia nel team, ed i giorni a venire mi mostreranno come tale fiducia sia meritata sotto tutti gli aspetti.
In secondo luogo, la zona dove opereremo è, sotto il profilo della penetrazione dell’economia criminale, tutt’altro che semplice. La piana di Gioia Tauro ha visto nascere e crescere il fenomeno mafioso della ‘ndrangheta, riflesso nella politica – numerosi i comuni ripetutamente sciolti per mafia – così come in un’economia dalla fisionomia distorta. Certo una bella sfida lavorare qui, per un team prettamente composto da studenti provenienti dalle regioni del centro-nord, dove una silenziosa quanto capillare penetrazione mafiosa non si è accompagnata ad una presa di coscienza altrettanto ramificata e pervasiva.

La terza sfida, invece, riguarda la mia personale esperienza. Da quattro anni opero in più Paesi in via di sviluppo come volontaria internazionale; da un anno un Master of Science mi ha abilitata come economista dello sviluppo. Medio Oriente, India, Africa dell’Est: eppure del mio Paese, sessantatreesimo nella classifica mondiale della corruzione percepita (collocato esattamente tra la Turchia e la Tunisia), non mi sono mai occupata, né per volontariato né per ricerca. Ecco dunque la mia sfida, la domanda che mi pongo fin da subito: potranno le mie competenze, sviluppate in contesti tanto diversi da quello in cui mi trovo, avere qualche utilità in un Paese che, per quanto mi sia familiare per origine, non ho mai davvero fatto “mio” nella ricerca e nell’azione sociale? Come si confronterà la mia prospettiva internazionale di sviluppo basato sull’empowerment, con la realtà locale che mi vedrà studiare e lavorare in questi giorni?

E’ Antonio Napoli, professore di filosofia che per dedicarsi alla nostra cooperativa ha sacrificato cattedra e carriera, a contestualizzare la nostra attività fornendo una prima risposta a tali interrogativi. La cooperativa Valle Del Marro, che si pone come obiettivo l’inserimento di soggetti socialmente svantaggiati nel mondo del lavoro, nasce dal progetto LiberaTerra del 2004: un progetto che fluisce direttamente dalla legge 109/1996, che prevede la destinazione ad uso sociale dei beni confiscati alle organizzazioni mafiose. Avvalendosi dei vasti beni immobili precedentemente stretti tra le spire della ‘ndrangheta, LiberaTerra li rende atti ad una produzione agricola che sia, in primo luogo, strumento di valorizzazione del territorio, di sua restituzione ad un popolo che li aveva visti alienati da un potere autoimposto, con una sistematica azione violenta.

Duplice è, nell’esaustivo quadro tracciato da Antonio, la caratterizzazione che distingue l’organizzazione mafiosa da quella solo genericamente criminale. Se il primo carattere, quello di un’azione improntata sull’intimidazione sistematica e sulla violenza, è quello più comunemente associato all’agire mafioso, più silenzioso e capillare è invece il secondo: quello della volontà di potere, di controllo totale e continuo su un territorio, perseguito tramite l’accumulazione patrimoniale ed il conseguimento della silente omertà dei cittadini. E’ proprio questo duplice carattere a generare il doppio binario su cui si articola la lotta al fenomeno mafioso: se da una parte è necessaria l’assicurazione dell’azione giudiziaria, facente in modo che i processi si risolvano in condanne esaustive per i reati commessi, dall’altra è necessaria l’azione sul patrimonio, che deve essere attaccato al fine di disgregare le cellule di quel controllo sulla quale la mafia s’impronta.

Antonio, attento lettore socio-economico dell’economia criminale e di chi la contrasta, è professore di filosofia, e la sua lettura etica del fenomeno mafioso lo rivela appieno. Conturbante il suo paragone della mafia alla ben nota lupa dantesca, la quale nella sua magrezza cela la cupidigia come “appetito disordinato” di ogni bene temporale: forte il suo uso, per illustrare il comportamento di chi rifiuta di schierarsi in modo chiaro, dell’immagine degli ignavi “sanza ‘nfamia e sanza lodo” ritratti dal poeta fiorentino. E se le lettere per un attimo stregano la nostra attenzione, il quadro economico di fronte a cui ci troviamo ci riconduce all’asperità della realtà di questa terra: la mafia, al di là di qualsivoglia visione etico-filosofica, costituisce un freno di prim’ordine allo sviluppo territoriale, creando monopoli indesiderati e scacciando dal mercato il contributo, fresco e creativo, degli investitori emergenti. Un’organizzazione metodica nel pensiero, ma rabbiosa e disordinata nell’azione, se si pensa alla violenza sterile dei raid distruttivi rivolti contro chi, superando la zona grigia dell’ignavia, si adopera per sfidare questo controllo ininterrotto. Tra questi, la nostra cooperativa, più volte vittima di raid, ogni volta ripartita senza cenno d’esitazione.

Il podere di Gioia Tauro nel quale lavoriamo, da solo, basta a spiegare il motivo per cui i lavori richiedono un gruppo di volontari tanto numeroso. Lunghi filari di melanzane e peperoncino debbono essere disinfestati a mano, ripuliti dalle erbacce, i prodotti della terra raccolti e lavorati: il tutto, per l’appunto, a mano, secondo i più stretti principi dell’agricoltura biologica. Il lavoro inizia presto la mattina, prima che il sole cocente aggiunga peso all’attività – nuova quasi per noi tutti – a contatto con la terra ed i suoi filari: questo lavoro, gestito di norma da sole quattro persone perpetuamente presenti, dipende dai gruppi di volontari in larghissima misura. Per quanto numerosi, e beneficiari di una sola settimana per cementare il nostro gruppo, il condividere obiettivi quali il riempimento di enormi bidoni di melanzane, lavate e sbucciate con ogni cura, è un collante di gruppo pressoché insostituibile!

I pomeriggi, che ci vedono reduci da tali mattinate lavorative, sono dedicati ad attività di legame con la comunità locale e di studio-analisi del fenomeno mafioso. Commovente l’incontro con Mommo Tripodi e Peppino Lavorato, esponenti di prima linea del PCI delle lotte contadine, ex sindaci di Polistena e di Rosarno rispettivamente. Toccanti ed esaustivi i loro racconti: la nascita del porto di Gioia Tauro, creato come polo trainante dello sviluppo calabrese e poi tratto nelle maglie della violenza economica mafiosa; la battaglia del 1994, la prima in cui dei comuni – i loro – si costituirono parte civile in un processo contro la ‘ndrangheta. Tanta passione, nessun eroismo forzato nel racconto in prima persona degli attentati subiti: solo un’esortazione, potente perché tanto piena di una consapevolezza nascente dalla vita vissuta, a disgregare il terrore vedendolo nella sua natura umanamente battibile, dal momento che – grida Mommo Tripodi alla platea – “il cappio ha una funzione solo se c’è il collo”.

Gli esponenti dell’associazione antiracket di Polistena, così come del vicino paese di Cittanova, presentano anch’essi la propria esperienza al nostro team. La loro è un’esperienza evolutasi nel tempo, nel contrastare un fenomeno estorsivo prima incentrato sulla massimizzazione del guadagno – perseguita carpendo ingenti somme a soggetti selezionati – e poi spostatosi sul potenziamento del controllo territoriale, ottenuto estorcendo, per converso, somme minori ad un gran numero di soggetti. Partite dall’idea pionieristica di Tano Grasso nella Sicilia delle cosche, le associazioni antiracket calabresi si articolano sul principio di un’unione diversa dalla comune intimidazione: un’unione capace di conferire, come valida alternativa all’estorsione criminalmente imposta, una forza data dalla collettività, dalla coralità del rifiuto all’adesione estorsiva. Si chiude, con questo contributo, il cerchio aperto da Antonio Napoli sul tema del colpire i patrimoni: l’antiracket è, in effetti, mezzo primario volto ad incrinare la continuità patrimoniale mafiosa; così facendo, si pone come ulteriore meccanismo generativo della rabbia impotente di chi, auto-ponendosi come leader territoriale, vede il proprio dominio incrinato dai nervi economici e sociali di quel territorio sul quale il controllo è tanto ambito.

Sullo sfondo, e nel contempo parte integrante della nostra esperienza operativa, le comunità locali, di Polistena così come dei comuni limitrofi. Se il campo è iniziato il 19 Luglio, anniversario della strage di via D’Amelio che ci ha visti sfilare in corteo come primo atto tra le viuzze polistenesi, il 23 partecipiamo alla commemorazione della strage di Razzà, barbaro atto ‘ndranghetista verificatosi nel comune di Taurianova. Se un’accoglienza densa di abbracci, pietanze, canti gioiosi ci aveva salutati a Polistena il primo giorno, l’arrivo in Taurianova non è da meno: alla commemorazione segue un grande ricevimento, dove i balli ed il buon cibo s’accompagnano a ringraziamenti ed abbracci che toccano il cuore. Gli anziani ci interrogano curiosi sulla nostra provenienza, c’è chi, per le strade, ci abbraccia o manifesta gioiosamente il suo benvenuto: ugualmente, c’è chi guarda il corteo passare, restando fermo sulla soglia senza muoversi per unirsi ad esso. E’ una realtà dove il benvenuto è gridato ai quattro venti, forte tanto quanto la percezione della maglia invisibile in cui il territorio è stretto: un vociante applauso di approvazione risuona, nelle mie orecchie ora, tanto alto quanto il silenzio di un’occhiata d’indifferenza, del passaggio davanti a un esercizio colluso.

Mi resterà tutto, tutto questo, negli appunti presi fitti fitti, nella mente e nel cuore. Il confronto diretto della mia esperienza economica con una terra di mafia, dove le distorsioni studiate ai tempi della laurea triennale si concretizzano in realtà tangibili, mi porta a rivedere l’indiscussa visione dell’Italia come “paese sviluppato” immune dai problemi di development; mi porta a guardare al nord osannato e trainante sotto la luce di una contaminazione che, seguendo le stesse dinamiche qui osservate della silente penetrazione criminale, si conforma passo dopo passo al suo specchio antico nel mezzogiorno.

Il cuore, sballottato tra gli iniziali colpi di spaesamento, la novità del lavoro nei campi, l’accoglienza di una terra gonfia di speranza e di coscienza, il cuore è quello che oggi mi porta a scrivere queste righe, a vedere questa settimana di studio-lavoro come un punto di partenza di difficile sostituibilità. Una partenza verso una consapevolezza che la passione determinata e travolgente, trasmessa dai contadini nel podere di Gioia Tauro, dall’ironia disincantata dei giovani di Polistena, dalle lacrime agli occhi di Mommo Tripodi di fronte a me, traduce in una scelta d’azione ben precisa: una scelta di schieramento, di non-ignavia, che con esperienze come questa diventa parte integrante della vita umana e civica, dovunque essa s’inscriva."
29.07.2010

Il "pentito" Gaspare Spatuzza: "Ecco la mia verità!"

Gaspare Spatuzza
a cura di Lirio Abbate
Un memoriale dal carcere scritto dal pentito di mafia e inviato a 'L'espresso'. Per raccontare cos'è Cosa nostra, come ci è entrato e perché ha deciso di uscirne
L'ex boss palermitano Gaspare Spatuzza torna a parlare e lo fa questa volta in esclusiva con "L'espresso" seguendo una traccia indicata di argomenti. È un documento unico pieno di riferimenti alla società civile, ai giovani e alla religione. Un duro attacco ai boss e a chi fa affari con loro. Dalla cella in cui è detenuto scrive della voglia di ricerca della verità. Lo ha fatto per far comprendere come gli anni di carcere lo hanno cambiato, ma anche per manifestare solidarietà a chi è minacciato dalla mafia. Spatuzza dal 26 giugno 2008 collabora con la giustizia, accusandosi di oltre 40 omicidi e in particolare della strage di via D'Amelio e di aver partecipato alla stagione stragista del '93. I pm di Caltanissetta e Firenze con le sue dichiarazioni hanno aperto nuovi scenari investigativi sugli attentati a Falcone e Borsellino e per le bombe del '93. L'ex sicario racconta i contatti degli stragisti Graviano con Dell'Utri e Berlusconi, e della trattativa che ci sarebbe stata con lo Stato. Il procuratore di Caltanissetta Lari, l'aggiunto Gozzo e il pm Marino hanno aperto nuove inchieste: le indagini sulla fase esecutiva di via D'Amelio saranno chiuse entro l'anno. Per i pm Spatuzza è attendibile ma il sottosegretario Mantovano gli ha negato il programma di protezione

Sono Gaspare Spatuzza (...) soltanto chi vive sotto questa spada di Damocle sa quanto costa un atto di libertà. La libertà di dire ciò che si pensa, con altre parole la verità, cosa che oggi in tanti non vogliono nemmeno sentirla pronunciare (...) Non posso sottrarmi a quelle poche domande che tra l'altro trattano temi sociali, cosa che mi sta molto a cuore. Primo perché amo la mia terra, secondo, credo che sia più che un dovere dare delle spiegazioni a chi appartiene a quella società civile di cui è parte offesa di tutta questa triste storia (...).

Il lungo silenzio in carcere che è poi esploso in una voglia di giustizia.Nel gennaio del 2005, sono stato trasferito nel penitenziario di Ascoli. Da subito mi rendo conto che quel sistema non mi consentirà di portare avanti quel bellissimo percorso iniziato nell'anno 2000. Percorso di ravvedimento, vissuto in silenzio, meditazione e astinenza di cose superflue. Tanto che, inoltravo richiesta alla direzione di applicarmi la così detta aria riservata. Tanto per capirci si tratta di un circuito penitenziario molto ristretto, ancora più duro del così detto 41/bis. Ma non posso accedere, perché la mia condotta carceraria non necessita di un ulteriore inasprimento. Le voglio dire che in tredici anni di 41/bis non ho mai trasgredito il regolamento penitenziario. Qualcuno, malignamente potrà dire che questo comportamento così lineare è basato solo alla scopo di ottenere benefici. Rispondo che sino a oggi non ho chiesto un giorno di liberazione anticipata. Tanto è vero che, "per libera scelta" da circa due anni vivo in un regime penitenziario ancor più afflittivo del 41/bis. La mia posizione odierna - che sarebbe da collaboratore di giustizia - mi dà la possibilità di beneficiare di permessi premio, ma non ne ho fatta richiesta. (...) Mi ha molto colpito la filosofia. Imbattendomi con tutti questi grandi filosofi che inseguivano tutte quelle materie che il suo fine era di aprire la mente all'uomo. Esempio di quell'uomo che ha deciso di fare un salto nel buio, che poi buio non era, ma la conoscenza. Sto parlando della caverna di Platone. Sa un po' in quell'uomo mi sono rivisto io. Diciamo che questo studio ha contribuito a dare lo stimolo finale a quel desiderio espresso tredici anni fa negli uffici della squadra mobile di Palermo.

La fede e la Chiesa, in che cosa crede?
Da dieci anni vivevo in un mondo tutto mio, avevo assimilato tutto quello che un buon cristiano deve per forza di fede, sapere. Ci sono aspetti importanti e molto personali che per adesso non posso dire. Devo dire che sono cresciuto con una formazione cristiana e cattolica. Però ci sono fatti che poco hanno a che vedere da quell'essere cristiano. Vorrei iniziare dal momento che dovevo fare la prima comunione: per incomprensione con il vecchio prete (non è don Puglisi) non l'ho fatta. Quando mi dovevo sposare, c'era questo problema, ma è stato superato, pochi giorni prima l'ho fatta, prima comunione, cresima e corso matrimoniale, cosa sbagliatissima, oggi dico un vero sacrilegio. Come è sacrilegio tutti quei riti fatti da tutta Cosa nostra. Esempio: quando si compie il rito di affiliazione, si giura davanti a un'immagine sacra. Altra cosa, le parole pronunciate prima di compiere una missione delittuosa: "Andiamo in nome di Dio". Oppure parlando di soggetti appartenenti a Cosa nostra si fa riferimento: "I cristiani". Tutte queste cose oltre a essere indegne, sono parole e riti impuri che rendono l'uomo schiavo del male e nemico di Dio. Soltanto in carcere inizio a leggere libri, in particolare la Sacra Bibbia dandomi modo di entrare in contatto con la parola di Dio. Allora ti accorgi che la vita è un'altra, da quello che ti hanno fatto sempre vedere, ti rendi conto che tutto quello che hai fatto è orribile privo di giustificazione - cosa che ho sempre fatto, dando una spiegazione a ogni azione cattiva - e chiede vendetta a cospetto di Dio. Un vero cristiano non può uccidere un altro uomo: il suo prossimo è poiché prossimo suo, anche suo fratello. Con parole esatte, parliamo di patricidio, matricidio, fratricidio. Quindi, al di là di vedere l'essenza della vita, scopri innamoramento che rappresenta l'essenza dell'amore. Questa realtà ti cambia la vita, te ne accorgi nel modo di pensare, di parlare, di rapportarti con il tuo prossimo. Non solo, ma scopri la libertà, perché un uomo che ragiona con la sua mente è un uomo libero. Non ci sono più vincoli associativi, non sei più un subalterno. Devi solo obbedire alla legge di Dio e a quella degli uomini. Devo dire che aspettavo questo momento di passare dalla parte del bene e una volta fatto il primo passo non ho esitato di mettermi in grazia di Dio, così grazie a brave persone che hanno fatto sì che questo mio desiderio si realizzasse c'è stato questo incontro, bellissimo, con la Chiesa di Dio, di cui oggi sono onorato di appartenere sotto tutti gli aspetti.
L'Espresso, 29 luglio 2010

domenica 25 luglio 2010

Ustica, uno strano suicidio

L'auto di Giovanni Marino nell'area di sosta dell'autostrada
di Rino Giacalone
Il 29 luglio del 2008 Giovanni Marino portò uno scatolone allo Stormo e andò via. Si uccise subito dopo. C'entra con la strage di Ustica?
Non è stata una «strage» lontana da qui. E continua ad inseguirci. Il Dc 9 Itavia caduto il 27 giugno 1980 nel mare di Ustica, «vittima» di quella «guerra segreta» che per 30 anni anche le nostre autorità hanno tentato di tenere nascosta, ci ha colpito intanto con la morte di nostri conterranei. La provincia di Trapani ha avuto le sue vittime: Bosco Alberto, da Valderice di anni 41; i mazaresi Diodato Antonella, di anni 7; Diodato Giuseppe, di anni 1; Diodato Vincenzo, di anni 10; Gallo Vito, di anni 25; Guarano Andrea, da Valderice di anni 38; Guzzo Rita, da Marsala di anni 30; Lupo Francesca, da Castelvetrano di anni 17; Lupo Giovanna, da Mazara di anni 32; Norrito Guglielmo, da Campobello di Mazara di anni 37; Parrinello Carlo, da Marsala di anni 43; Parrinello Francesca, da Marsala di anni 49. Nove adulti e tre bambini. Erano tra quegli 81 morti del Dc 9. Una «strage» che non è lontana per via di quei radar del centro dell'Aeronautica di Marsala che «hanno visto» e ci hanno detto per anni «di non avere visto» quello che è accaduto la sera del 27 giugno 80 sopra il Tirreno, marescialli e militari che avrebbero avuto l'ordine di fare sparire brogliacci e tracciati, protagonisti dei depistaggi, raccontarono che nell'istante in cui l'aereo in arrivo a Palermo da Bologna veniva colpito da un missile, i radar di Marsala non erano funzionanti, «per una esercitazione in corso». Il giudice istruttore Rosario Priore venne più volte a Marsala a indagare, in ultimo in Procura un paio di anni fa per nuovi interrogatori; un'altra volta a cercare tracciati che l'ufficiale di turno gli avrebbe consegnato con un verbale nel quale era scritta una diffida (al magistrato) a fare un «uso discreto di quel materiale». Dopo Ustica ci sono state una serie di morti «strane», possibili testimoni deceduti in incidenti, o che hanno deciso di farla finita, suicidandosi. È di queste settimane la scoperta di un altro possibile suicidio da legare ad Ustica. Non c'è la certezza, ma il sospetto è forte e serio. E qualcuno ne è convinto tanto da averci lasciato in redazione un anonimo appunto. Si chiamava Giovanni Marino, sessantenne, maresciallo dell'Aeronautica, originario di Corleone. Il 29 luglio del 2008, quando era oramai in pensione, si presentò alla base del 37° stormo di Birgi per consegnare uno scatolone e andare via. Si rimise sulla sua auto, imboccò l'autostrada per Palermo, alla prima piazzola di sosta si fermò, scese dall'auto e si uccise. Un colpo di pistola alla tempia, un automobilista di passaggio diede l'allarme notando l'auto ferma e vicino un corpo disteso a terra, dentro la cunetta. Cosa c'entra Giovanni Marino con Ustica? C'entra quanto pare qualcosa. Voci non confermate dicono che lui nel giugno 1980 era in servizio al centro radar di Marsala. Certamente è stato in servizio al «centro di ascolto» di Prizzi, base dipendente sempre dal 37° Stormo, centro attrezzato ad avere occhi ed orecchie giuste per guardare ciò che accade sopra i nostri cieli. I fatti anomali sono diversi: all'autorità giudiziaria, Procura di Trapani, che indagò sul suicidio, decidendo poi per l'archiviazione, nessuna autorità militare ha mai riferito la circostanza che Marino aveva lavorato in questi due centri. Potevano essere elementi indispensabili per risalire al perché di quel gesto liquidato come frutto di una crisi personale. Crisi personale che è negata ancora oggi da alcuni familiari che però chiedono silenzio sul dramma che ancora vivono. Eppure chi c'era quel giorno del 2008 ricorda anche che il suicidio di Marino a pochi metri dalla base di Birgi scatenò una serie di movimenti di alti ufficiali. Si potrebbe dire che fu determinato dalla paura di cosa poteva contenere quello scatolone lasciato da Marino alla base prima di uccidersi. Ma cosa c'era dentro? Carte, accertò la magistratura, ma c'erano solo carte o poteva esserci anche qualcos'altro fatto sparire prima della consegna all'autorità giudiziaria? Nastri per esempio. Dicevamo, per i suoi familiari niente fece presagire l'insano gesto del maresciallo, ma a qualche investigatore da militari dell'Aeronautica sarebbe stato fatto cenno ad un «esaurimento nervoso» dell'ex sottufficiale. Una malattia che conoscevano solo loro, sebbene lui in caserma non andava più da qualche tempo.
La Sicilia, 25/07/2010

Don Gallo e Don Ciotti, la messa dei diritti. Verità, giustizia e passione per i più deboli: l'appello dei sacerdoti nella Genova del centro storico

di Stefano Fantino
Don Luigi Traverso, don Andrea Gallo e don Luigi Ciotti
Ieri la settimana internazionale dei diritti promossa dal Comune di Genova ha visto lo svolgimento di uno degli appuntamenti più sentiti. Il capoluogo ligure ha infatti assistito, nel pomeriggio, alla concelebrazione di una “Messa dei diritti” nella chiesa di San Siro in pieno centro storico. A servire messa il fondatore del Gruppo Abele e di Libera, don Luigi Ciotti, e quello della Comunità di San Benedetto, don Andrea Gallo, accompagnati da Don Luigi Traverso.
Tre sacerdoti uniti dal grande impegno verso gli ultimi e dalle battaglie sociali che idealmente costituiscono un viatico che parte da Torino e dalle lotte di don Ciotti a partire dagli anni Sessanta alla Genova dei “carrugi” e del porto, dove l'azione di Don Gallo ha trovato forza e sbocco nella comunità di San Benedetto. Proprio i quarant'anni della comunità e gli 82 di don Gallo sono l'occasione per la giornata, da proseguire anche dopo la concelebrazione della Messa. Dopo la funzione, infatti, i sacerdoti e anche parte del pubblico si sono spostati al Ghetto per una giornata di festeggiamenti per il compleanno del sacerdote con poesia, canti e musiche tra via del Campo e i vicoli del Ghetto.
Ma il cuore della giornata è stata la funzione che ha tenuto fede al contesto entro cui era inserita proponendosi come momento di riflessione su una tematica, quella dei diritti, molto complessa a cui anche la Chiesa è chiamata a dare una risposta energica. L'appello è stato chiaro: «Nessuno si nasconda dietro Dio, dobbiamo stare dalla parte di chi fa fatica Per questo in questa chiesa con questi amici chiediamo giustizia, diritti, dignità umana, perché nessuno si dimentichi del valore dell'uguaglianza». Don Gallo ha poi introdotto Luigi Ciotti, presidente di Libera che ha ammonito «chi calpesta diritti e legalità» dato che fa un furto di parole. «Noi vogliamo che nessuno svuoti le parole del loro valore» ricordando che la legge sui migranti «è un esempio di diritti negati».
Ciotti ha invitato, poi, ogni cristiano a non rendersi complice delle ingiustizie, scegliendo la denuncia delle illegalità in tutte le sue forme: «Resistere ha la stessa radice di esistere, di esserci». La giornata ha visto molti interventi, dai terremotati aquilani fino a chi ha parlato per il riconoscimento dei diritti di omosessuali e transessuali, quelli che spesso sono considerati gli ultimi: «Preghiamo per il diritto di omosessuali e transessuali ad essere riconosciuti figli di Dio. Per il diritto di vivere una vita senza subire violenza e discriminazione». Lo ricorda Ciotti nel momento in cui ha concluso con un brano del diario del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia. «Alla fine della vita ci chiederà se siamo stati credibili non credenti» estendendo la sua richiesta di verità e giustizia anche per Carlo Giuliani.
Una sfida a cui deve sapere rispondere anche la Chiesa. «Chiediamo a Dio una bella pedata, per farci mettere in gioco, per farci sentire la passione di lottare per la libertà, per i diritti, per l'uguaglianza». Un simbolo, un segno, una spina propositiva nel fianco di tutti, affinché facciano la loro parte. Prima di chiudere messa e andare a continuare la serata nei suoi carrugi, Don Gallo la fa propria: sta a voi ora decidere se volete raccogliere la sfida.
Genova, 20.07.2010

Calabria Ora: si dimettono direttore, capi redattore e capi servizio. Pollicheni: «per raccontare le inchieste delle ultime settimane abbiamo pagato un prezzo altissimo»

di Roberto Rossi
Paolo Pollichieni
«Se questa fosse una partita, da sportivo non avrei difficoltà a dire che il potere ha vinto, almeno per il momento. Uno a zero e palla al centro.» Forse è proprio questa la morale delle dimissioni di Paolo Pollichieni dalla direzione di Calabria Ora. Con lui se ne sono andati il caporedattore centrale e altri sei fra capiredattori, capiservizio e responsabili di redazione. Sette giornalisti, al quale oggi se n’è aggiunto un altro. Otto in tutto, l’ossatura del quotidiano: un terremoto. Le metafore calcistiche, quelle che usa il direttore nel suo ultimo editoriale, non sono utili a spiegare la complessità degli avvenimenti, di sicuro però aiutano a condensare il vero senso di ciò che accade. Il potere ha vinto, dice Pollichieni. Ma quale potere? Lo vedremo. Prima vediamo di raccontare la partita, di capire cosa è accaduto. È accaduto che il direttore se n’è andato nel giorno in cui in prima pagina il titolo strilla: «E Peppe incontrò il mafioso. A Milano Scopelliti vide più volte Martino, “ambasciatore” del clan De Stefano».

Pollichieni ha lasciato mentre il giornale ha picchi di vendita di quindicimila copie (quando lo prese, tre anni fa, non arrivava a quattromila). Ha lasciato al culmine di una campagna di stampa che da alcune settimane scava incessantemente nelle pieghe del potere politico mafioso calabrese. In un momento in cui sono sul piatto due inchieste della magistratura, “Meta” e “Crimine”, che hanno avuto un impatto devastante sul tessuto criminale di Reggio città. E Scopelliti, l’attuale governatore della Calabria, a Reggio città è stato sindaco per sette anni, rieletto nel 2007 col 70% dei voti.

E così si scopre, e si pubblica, che il 15 ottobre del 2006 il presidente partecipò, assieme a ‘ndranghetisti del calibro di Cosimo Alvaro, alle nozze d’oro dei genitori di compare Mimmo Barbieri, imprenditore arricchitosi con i pubblici appalti, arrestato per mafia lo scorso 23 giugno. E così si scopre, e si pubblica, che l’allora sindaco Scopelliti avrebbe ripetutamente incontrato a Milano Paolo Martino, «cugino dei De Stefano e a loro legatissimo al punto di essere arrestato e condannato per associazione mafiosa, traffico di armi e riciclaggio.» «Al centro delle indagini – pubblicava Calabria Ora – il vorticoso giro di appalti che alcune imprese reggine vicino ai clan avrebbero ottenuto in Lombardia grazie all’intermediazione di grossi esponenti politici lombardi del centrodestra attivati dai loro colleghi reggini».

«La cosa incredibile – ci dice l’ex direttore – è la fretta con cui si è sviluppata questa rottura. Da settimane ormai seguivamo questo filone senza ricevere nessun tipo di avvertimento, né smentite, né minacce di querele. Gli editori sapevano che ieri saremmo usciti con questa notizia e hanno cercato il pretesto. Uno di loro, Pietro Citrigno (condannato in secondo grado per usura, ndr), mi ha chiesto di avere rapporti più frequenti con la redazione. Un’ingerenza che non potevo accettare e per questo mi sono dimesso.» Un pretesto, dice Pollichieni, «il vero motivo è scritto nero su bianco nel mio editoriale».

«Sapevo – c’è scritto – che raccontando le inchieste giudiziarie delle ultime settimane, che scrivendo dei rapporti tra la mafia e la politica, raccontando anche i retroscena più inquietanti di quella zona grigia che è il vero capitale sociale della ‘ndrangheta, avremmo pagato dei prezzi altissimi. Sapevamo che il potere avrebbe esercitato tutte le pressioni possibili per chiedere la testa del direttore di questo giornale, per normalizzare, per avere un giornale meno impiccione che anche quando parla di mafia non lo fa riempiendo le pagine della mafia folk, quella di Osso, Matrosso e Carcagnosso.»

Quell’editoriale (e il pezzo su Scopelliti) in edicola lo hanno trovato in pochi. Calabria ora è arrivata puntuale solo a Cosenza, a Reggio dopo le undici, in tutte le altre province non è mai arrivato. Guasti alle rotative, si sono giustificati gli editori. Oggi il giornale l’ha firmato uno di loro, Fausto Aquino. Dell’inchiesta sulle frequentazioni “pericolose” nemmeno l’ombra. Ai calabresi non è dato sapere. E però, una lunga intervista a Giuseppe Scopelliti sui fondi europei che è riuscito a far arrivare in Calabria apre pagina 4. Il segno chiaro ed esplicito della normalizzazione.

Il potere ha vinto. Ma quale potere? Ce lo spiega Vincenzo Macrì, procuratore nazionale antimafia aggiunto, mentre commenta queste dimissioni: «Un segnale sicuramente negativo, che dimostra la forza di intimidazione e di condizionamento che la ‘ndrangheta sa esercitare non solo direttamente (come dimostrano le numerose minacce dirette ai redattori del giornale ed allo stesso direttore), ma anche attraverso i suoi esponenti e referenti politici e istituzionali.» E aggiunge, c’è da sperare che torni al suo posto, «altrimenti la ‘ndrangheta avrà collezionato una ulteriore vittoria.» Eccolo il potere che ha vinto.
P.S. Questa non è solo la storia di un giornale a cui si è voluto mettere il bavaglio mentre si profilava lo sviluppo di un’inchiesta assai pericolosa per la tenuta dell’attuale forza di governo regionale. Questa è anche la storia di giornalisti sfiniti. Di uomini e donne con un solo stipendio, delle loro famiglie tenute sotto la tutela delle forze dell’ordine. Perché in questi tre anni “Calabria Ora” ha pagato un prezzo altissimo in termini di serenità dei suoi collaboratori: una decina di cronisti sono stati pesantemente minacciati dalla ‘ndrangheta. Uno di loro, Pietro Comito, cui sono state promesse due fucilate lo scorso 5 luglio, mentre decide di dare le dimissioni dall’unica fonte di reddito della sua famiglia, ci dice : «Ho i carabinieri sotto casa che ci tengono a vista, e sto per mettere in strada la mia famiglia.»
Da Liberainformazioni, 22.07.2010

Avamposto Calabria: Viaggio nella terra dei giornalisti "infami"

di Norma Ferrara
Un proiettile calibro 12 che arriva in redazione, un segnale inequivocabile in Calabria, che segna un confine fra il tuo lavoro e la tua vita. A raccontare questa ed altre storie “Avamposto, nella Calabria dei giornalisti infami', un libro che raccoglie sedici storie di giornalisti minacciati dalla 'ndrangheta. Non sono eroi, né temerari, sono persone comuni, giornalisti testardi – spesso precari – che si ostinano a fare solo il proprio lavoro. Si chiamano Michele Inserra, Giuseppe Baldessarro, Filippo Cutrupi, Antonino Monteleone, Francesco Mobilio, Alessandro Bozzo, Fabio Pistoia, Agostino Pantano, Agostino D'Urso, Leonardo Rizzo, Giuseppe Baglivo, Antonio Anastasi, Lino Fresca, i cronisti nel mirino. Vite blindate, violate, quelle dei giornalisti minacciati, e delle loro famiglie. Tutto intorno l'aria si fa pesante, e da vittima, talvolta diventi anche colpevole. La tua colpa è quella di essere “'mpamu”, sbirro, così racconta la figlia di uno dei giornalisti minacciati. L'ha saputo a scuola, perchè così i compagni erano soliti chiamare il padre – giornalista.
I due autori di "Avamposto" i giornalisti Roberta Mani e Roberto Rossi, descrivono una realtà che da lontano – come di chiara la Mani - “non pensavamo fosse così pesante”. “Numeri incredibili consegnano alla Calabria il primato negativo del bavaglio a forma di pistola – dichiarano gli autori -. “Una Calabria così vicina – commenta la Mani – eppure così lontana da noi, dal quotidiano, da quello che nel resto del Paese si riesce a sapere”. Diversi gli episodi, le inchieste, gli articoli, i fatti narrati dai giornalisti, spesso legate ad equilibri delicati dell'ala militare sul territorio, altre legate agli affari delle 'ndrine, altri ancora collegati al livello politico delle rappresentanze locali ed elettorali. Ad accomunarli però e' la sindrome della trasgressione di una regola non scritta, ma nota a tutti: che certe cose i giornalisti devono fingere di non vederle e che non siano notizie di interesse pubblico. Di questo attacco al sistema democratico, all'articolo 21 della Costituzione, alla libertà d 'impresa e alla libera espressione del voto, abbiamo parlato con i due giornalisti “inviati” in quello che hanno chiamato l'”Avamposto”, perchè – come dichiarano “è metafora, nemmeno troppo immaginaria, della guerra di posizione. Con alcuni giornalisti, alcuni magistrati, alcuni politici, poca società civile a mantenere alta la guardia attorno alle poche isolate torrette di legalità”.

Un giornalista siciliano e una collega milanese, autori del primo libro che racconta dell'informazione “a rischio” in Calabria. Perché avete scelto questa terra?
Ci siamo ritrovati in Calabria sulla scia di un dato sconcertante. Dall'inizio dell'anno più otto giornalisti sono stati minacciati dalle mafie. Quando abbiamo redatto il rapporto 2010 sui cronisti minacciati nell'ultimo anno, quello per l'0sservatorio “Ossigeno” promosso da Fnsi e Ordine dei giornalisti, abbiamo constatato che era molto alto il numero dei condizionamenti e delle intimidazioni nei confronti dei giornalisti. Così ci siamo recati in Calabria con l'obiettivo di realizzare un documentario, poi ci siamo resi conto che queste storie, avevano dietro un contesto complesso ma estremamente importante, e che andavano raccontate in un libro. Abbiamo scelto di farlo, dunque, non solo per mettere insieme le loro storie, ma per approfondire, per spiegare, i contesti in cui tutto questo si è verificato.

Avamposto è anche un affresco della Calabria degli ultimi anni. Come lavora il mondo dell'informazione in questa terra?
La prima cosa che scopri non appena hai messo piede in Calabria, è che da lontano non hai la dimensione profonda di quello che accade. Io sono un giornalista catanese, conosco bene la realtà siciliana, Roberta Mani è una giornalista del nord, ma lo stupore di scoprire una realtà cosi dura e difficile, è stata simile. La situazione in cui lavorano i colleghi calabresi è molto calda. Molto fisica, le mafie li, le senti sulla pelle. Mentre in altre regioni, parimenti soffocate dal fenomeno mafioso, spesso le intimidazioni arrivano spesso sotto forma di querele, di segnali e minacce, in Calabria i gesti sono ancora più espliciti, ancora più vicini ai giornalisti. Questa è una realtà che non pensavamo di trovare.

A cosa è dovuta questa differenza che assegna alla Calabria la maglia nera fra le regioni “governate” dalla criminalità organizzata?
La differenza è dovuta in parte al panorama informativo che si è sviluppato negli ultimi anni in Calabria. Dopo anni di stallo, oggi in Calabria esistono editori che si prendono la responsabilità di far scrivere certe cose, cosa che, ad esempio, in Sicilia non c’è. Il panorama dinamico e rinnovato ha alimentano una naturale competizione su tutto il territorio. I tre giornali regionali, Gazzetta del Sud, Quotidiano della Calabria, e Calabria Ora, non si dividono aree geografiche, al contrario, da Gioia Tauro a Cosenza, da Catanzaro a Reggio Calabria, si contendono i lettori e le notizie, facendo anche inchiesta. In questa direzione va letto, il numero dei giornalisti minacciati nel panorama dell'informazione calabrese. Nonostante questi dati, però, è la pervasività e la pericolosità della 'ndrangheta a dare quella condizione di "emergenza" permanente alla situazione di pericolo in cui si vive, facendo informazione (e non solo) in Calabria.

Tanti i giornalisti raccontati nel vostro “Avamposto”, quale caso ti ha colpito di più?
Sono tutte storie difficili, ma se dovessi dirne uno, direi sicuramente la storia del giornalista Michele Inserra, giornalista Quotidiano della Calabria, due intimidazioni in poco tempo. La prima giunse per aver rivelato particolari non noti ai grandi inviati “mordi e fuggi”, sul falso identikit del boss Nirta. Contro di lui c'è in atto un coprifuoco personale che lo tiene a distanza da San luca, gli hanno proprio detto “se entri a San Luca ti finisce male”. La seconda per aver raccontato di Siderno e del territorio in cui da molti anni dominano i Commiso. I boss gli hanno spedito un proiettile calibro 12, lo stesso che uccise il giovane Congiusta, ribellatosi al pagamento del pizzo a Siderno. Il calibro 12 è la firma per gli omicidi di 'ndrangheta, per dire sei un infame, “parli troppo”. Poi ancora la voce tremante di Michele Albanese, mentre leggeva la lettera ricevuta da un boss della piana, di Rosarno. La lettera che ha toni apparentemente cordiali e moderati, è arrivata dal carcere dove il boss è rinchiuso. Michele ha solo trent'anni ma sa benissimo che di sereno in quella lettera non c'è nulla. Quello è uno dei peggiori avvertimenti in pieno stile mafioso. Ho ancora la sua immagine stampata nella memoria, mentre legge, consapevole, quelle righe a noi che siamo andati ad incontrarlo per raccontare la sua storia.

Michele Inserra, Giuseppe Baldessarro, Filippo Cutrupi, Antonino Monteleone, Francesco Mobilio, Alessandro Bozzo, Fabio Pistoia, Agostino Pantano, Agostino D'Urso, Leonardo Rizzo, Giuseppe Baglivo, Antonio Anastasi, Lino Fresca. Questi i loro nomi. Sanno di essere un unico caso Calabria?
Molti di loro si conoscevano, ma non conoscevano le loro storie. Altri invece non si conoscevano, ma anche loro si sono impressionati di un numero cosi alto. Quello di intrecciare le loro vicende in un unico caso nazionale che riguarda la situazione in Calabria, è ancora, a mio avviso, un percorso da costruire. Questo è anche uno degli obiettivi che con questo libro si vuole raggiungere.

Qual è l'atteggiamento della società civile calabrese, e della politica, rispetto alla realtà in cui opera l'informazione locale?
Questo è uno dei problemi calabresi. C’è una società che in alcune aree è stata creata ad immagine e somiglianza della 'ndrangheta, fondandola sul bisogno e sui diritti chiesti come favori. Finché non sarà lo Stato a riprendersi lo spazio che è suo, ripristinando la democrazia, la 'ndrangheta sarà vincente. La società civile, ovviamente non tutta, stenta a prendere coscienza di questa realtà e anche di quella in cui vive l'informazione. Dall’altro lato la stessa politica non indica la strada da seguire alla società civile. Un esempio su tutti è la mancata costituzione di parte civile nell’omicidio di Gianluca Congiusta del Comune di Siderno. Sono già costituiti parte civile, la Provincia e la Regione. L' avvocato del boss che è accusato dell'omicidio del giovane che si era opposto al pizzo, ricopre anche il ruolo di consulente comunale.

Un potere radicato che sembra arrivare prima e meglio dello Stato nel territorio?
La’ ndrangheta comanda da 150 anni in Calabria. E', come dire, un potere aristocratico. I sindaci cambiano, i poliziotti cambiano, i magistrati anche, ma loro sono sempre li, da oltre cent'anni. Tutti sanno chi sono i Piromalli, i Molè, tutti conoscono i loro volti. Inoltre da quando l'ingresso ne la “Santa” ha modificato i codici 'ndranghetistici, i boss possono sedere negli stessi salotti di stimati professionisti, di politici, di magistrati. Un dato che ci ha stupito ad esempio, leggendo le ordinanze di custodia cautelare di alcune inchieste in Calabria, è che la rivelazione di intercettazioni, la fuga di notizie, è responsabile della morte o dell'insabbiamento di molte inchieste, in qualche modo quindi affossate negli stessi palazzi in cui nascono.

E’ un sistema che protegge gli ‘ndranghetisti anche fuori dalla Calabria?
Le 'ndrine sul piano internazionale hanno credibilità assoluta, perché silenziose, blindate, come dire, sicure. Questa potenza enorme li porta a dialogare con imprese del nord, e del resto del mondo. Ma è sulla Calabria che rimane prioritario il controllo, diciamo “morboso e ossessivo” con il territorio nonostante i suoi interessi enormi nel resto del mondo.
Da Liberainformazioni, 30.06.2010

giovedì 22 luglio 2010

Walter Veltroni (Pd): «Le stragi volute dall'Antistato ma la verità è vicina. C'è solo da continuare a cercare»

di Concita De Gregorio
C'è solo da continuare a cercare. Chi cerca la verità non lo fa a vantaggio di qualcuno, è chi depista lo fa per occultare qualcosa, proteggere qualcuno. Le cose stanno come avevamo immaginato in questi anni e anche peggio. Torno da questi tre giorni in Sicilia con la certezza che quei magistrati, se non si impedirà loro di lavorare, potranno dire al Paese la verità che fin qui è stata nascosta». Si chiude così l’analisi dei fatti che Walter Veltroni fa all'indomani della lunghissima audizione dei magistrati siciliani in commissione Antimafia. Audizione secretata nel merito della quale - dice subito - «non entrerò per rispetto istituzionale ed etico del segreto. Posso però dire che sono stati giorni straordinari, di grande valore storico ed emotivo. Ne esco con la conferma che ciò che abbiamo detto in questi anni è assolutamente vero. È vero ciò che scrissi su questo giornale nella notte delle stragi, quasi vent’anni fa. È vero ciò che ha detto il presidente Pisanu parlando di “convergenza di interessi tra mafia, logge massoniche, pezzi di apparati deviati, settori politici”. Ripeto ciò che ho detto in questi mesi e che ora è da tutti confermato: le stragi del ‘92-’93 sono state stragi dell'Antistato, non solo stragi di mafia. C'è stato un disegno volto al condizionamento della vita politica nazionale e non era certo Totò Riina a guidarlo. Dico Antistato perché non voglio smettere di pensare che lo Stato siano Falcone, Borsellino, Caponnetto, gli uomini delle scorte, coloro che hanno speso la loro vita in difesa della legalità. Non importa quale grado gerarchico, quale posizione nella vita pubblica avesse chi ha complottato contro Falcone e Borsellino: era antistato».

Stiamo alle dichiarazioni pubbliche rese dai magistrati fuori dall'audizione: siamo davvero a un passo dalla verità?
«Sembra emergere, hanno detto alla stampa i magistrati, che l’assassinio di Borsellino è stato spiegato negli anni seguendo un depistaggio spaventoso. Una falsa verità costruita ad arte. Le dichiarazioni di Spatuzza fanno ripensare a quel che anni fa disse Brusca: per via D'Amelio ci sono innocenti in galera. Si sono evidentemente fatti passi avanti nel disvelare una gigantesca menzogna. Ma se Scarantino non è il responsabile dell'assassinio di Paolo Borsellino: perché qualcuno si è accusato di responsabilità che non aveva e per questo ha accettato condanne dure? Su mandato e per coprire chi, che cosa? Se si lasciano lavorare i magistrati, se avranno il sostegno delle istituzioni, se i mezzi di informazione non si lasceranno trascinare in pericolose operazioni di depistaggio (le fughe di notizie sono uno dei modi classici), se chi indaga sarà messo in grado di accedere alle fonti di informazione, ecco, allora davvero la verità sarà a portata di mano. Il sistema politico non deve avere paura della verità. Mi ha davvero colpito che il procuratore Lari abbia detto: il sostegno del capo dello Stato è importante. Sono importanti i segnali politici così come i gesti concreti: i colpi ai vertici della mafia, certo, ma poi sconcertano le contraddizioni. Negare la protezione a Spatuzza è messaggio pericolosissimo: se collabori non sei protetto. Una decisione assurda, mi rivolgo al governo: ci ripensi».
Spatuzza è stato oggetto di una campagna di discredito. Ci si domanda se sia credibile.
«Le parole di chi collabora con la giustizia devono trovare riscontri. Non bisogna delegittimare né credere a prescindere: bisogna verificare quello che dicono. Senza i pentiti né la mafia né il terrorismo sarebbero stati colpiti. Come ci ha detto un procuratore: le parole dei pentiti offrono una panoramica, poi ci sono altri strumenti per lo zoom. Le intercettazioni sono uno di questi. Il ddl sulle intercettazioni è pericoloso perché nega ai magistrati la possibilità di indagare: anche in materia di mafia, poiché come ciascuno sa molti reati di mafia sono emersi a partire da indagini che con la mafia in origine non avevano a che fare. E' questo il nodo della legge in discussione, questa la posta reale».

Ogni volta che si parla di stragi di stato, o di antistato, c'è chi ironizza sui complottisti e i dietrologi. È ora di uscire dalla panoramica ed entrare nel dettaglio: nomi, circostanze, prove, dicono. Dicono anche: come mai solo adesso, 18 anni dopo?
«È maturo il momento. Io non sono complottista né dietrologo. Guardo la realtà per quella che è. Piazza Fontana, Bologna, Piazza della Loggia, Ustica, la precisa composizione del commando che ha rapito Moro: se ancora non si sa con certezza come siano andate le cose non è per caso. Assassini rossi o neri, le mafie che hanno provato a distruggere il tessuto civile di questo paese non hanno mai agito da sole. Mi domando: perché si coprono verità cosi devastanti? Politicamente ci siamo già dati le risposte. I magistrati indagano quando sono in condizioni di farlo. Quando c'è chi collabora, per esempio. Oggi lo stanno facendo con serietà, con scrupolo, rischiando molto».
Un'altra domanda interessante è perché la mafia abbia smesso di fare stragi. È lo snodo del ragionamento di chi sostiene: perché lo scenario politico successivo alle stragi la garantiva.
«È un dato di fatto che le stragi finiscono in coincidenza con l’aprirsi, dopo il governo Ciampi, di una nuova fase politica, ed è altrettanto chiaro che le stragi non sono il linguaggio della mafia. La mafia uccide. Il Velabro, i Georgofili uomini come Riina non sanno neppure cosa siano. Un'altra mano, dal '69 in poi, c'è stata dappertutto. Perché la banda della Magliana compie il depistaggio del lago della Duchessa, perché rapisce Emanuela Orlandi, perché il suo capo è sepolto a Sant'Apollinare? Quando Grasso parla di "entità" non indica la Spectre ma un sistema di interessi che si coagula di volta in volta. Per me non vale solo per la mafia. È stato così per piazza Fontana, nel '78 con Moro. Qualcuno ha eseguito ma ci hanno messo le mani in molti. Nel libro di Flamigni dedicato a via Gradoli c'è una sorta di outlet del terrorismo: sul pianerottolo nell'appartamento di fronte a quello di Moretti e Balzarani il cognome sul campanello era Mokbel. La storia di questi anni è così. Che fine hanno fatto l'agenda rossa di Borsellino? Quella di Ilaria Alpi? Gli appunti di Cassarà, il file del computer di Falcone, la videocassetta di Rostagno? Ecco. Siamo forse oggi in condizione di arrivare a dirsi qualcosa che non si poteva dire prima. D'altronde la storia non è fatta della fretta bulimica dei giorni né dei mesi, è fatta di fasi. È arrivato il momento della verità ed è questo il tempo in cui chi sa ha il dovere di parlare: lo faccia. Il nostro paese ha diritto alla verità sulla sua storia».

A chi si rivolge?
«Ci sono molti testimoni viventi che hanno avuto in quegli anni responsabilità istituzionali e politiche. C'è stata per molto tempo una strategia destabilizzante. Guardiamo agli eventi di quei due anni. La mafia ha colpito prima i suoi referenti politici colpevoli di non aver ammorbidito la sentenza del maxiprocesso. Falcone, a Roma, stava arrivando al cuore del sistema finanziario e politico mafioso, è stato ucciso quando è stato lasciato solo. Poi la trattativa con l'Antistato - lo Stato non può trattare con la mafia. Non va a buon fine o Borsellino si oppone. Poi le stragi del ’93-’94, appena formato il governo Ciampi. Bisognava intervenire sull'esito della vita politica nazionale. L'alternativa è che fosse in corso un'altra trattativa. Oggi sappiamo che anche l'attentato all'Addaura non è andato come hanno voluto far credere. Agostino e Piazza, due agenti, sono stati uccisi in circostanze misteriose. Falcone diceva “menti raffinatissime”, e non penso si riferisse a Riina. Abbiamo avuto il nemico in casa, annidato dentro lo Stato. Siamo vicini, sì, a conoscere la verità ma è importante proprio per questo, proprio adesso il messaggio politico che si manda. La frase su Mangano non può essere dimenticata».

"Un eroe", per Berlusconi e Dell'Utri.
«Un uomo che ne ha sciolto un altro nell'acido, condannato a più ergastoli. Un segnale precisissimo, quella frase. Mi fa piacere che oggi se ne accorgano anche altri ma meglio sarebbe stato forse dirlo prima. Due anni fa per esempio, quando gli italiani andavano a votare: sarebbe stato bello sentirlo dire allora. No, Mangano non è un eroe».
L’Unità, 22 luglio 2010

martedì 20 luglio 2010

Durissimo documento della Fp-Cgil di Palermo alla commissione sanità del senato contro le disfunzione dell'Ospedale "Ingrassia"

La CGIL ritiene che l’ospedale Ingrassia abbia bisogno di un confronto vero fra le parti per sviluppare un impegno volto a migliorare e valorizzare il suo ruolo nella rete ospedaliera dell’ASP e della città di Palermo. Occorre evitare il rischio che la struttura si configuri, sempre di più, come “l’Ospedale di Monreale”.
Un piccolo ospedale per una piccola popolazione e per gli amici e conoscenti di questo o quel primario. La CGIL individua, fra l’altro, due grossi nodi da affrontare. I locali obsoleti che richiedono continui interventi di manutenzione, garantiti, assai spesso al di fuori di un progetto generale. L’ospedale è stato in questi anni un cantiere continuo con grande fortuna per le imprese appaltatrici e notevoli disaggi per malati e cittadini. Strutture vecchie e spazi angusti limitano l’attività di reparti e servizi. Dal pronto soccorso al laboratorio d’analisi, alla radiologia. L’attività di due reparti la chirurgia e l’ortopedia è attualmente bloccata per la chiusura della sala operatoria di ginecologia e la conseguente confluenza di tutta l’attività operatoria nell’unica sala operatoria rimasta, quella utilizzata dai citati reparti, anch’essa sottoposta, peraltro, a lavori di manutenzione. Altra questione rilevante è costituita dalla carenza di operatori e da una gestione assai discutibile del personale. Mancano infermieri, operatori sociosanitari, ausiliari e in alcune realtà anche medici. I turni di diversi reparti molto spesso sono garantiti con la presenza di un solo infermiere e comunque con un numero di operatori insufficiente alle esigenze minime. In tali condizioni anche le fisiologiche assenze per ferie o malattia, rischiano di pregiudicare quotidianamente i turni di lavoro e il normale andamento dell’attività. I lavoratori di diversi reparti sono sottoposti a carichi di lavoro eccessivi e a ritmi molto stressanti, condizioni inammissibili da tutti i punti di vista, pericolosi per la salute propria e per la sicurezza degli ammalati. La gestione del personale non segue criteri di trasparenza e non si caratterizza per il rispetto delle regole. Tale situazione condiziona anche la libera iscrizione al sindacato e favorisce fenomeni come la delega di scambio. L’affidamento delle funzioni di coordinamento del personale del comparto nella stragrande maggioranza dei casi è avvenuta al di fuori delle norme contrattuali e dei regolamenti aziendali. La CGIL nel segnalare, anche se in forma poco organica, questi aspetti, si dichiara disponibile a fornire il proprio contributo per il superamento di questi limiti e per la crescita dell’efficienza e dell’efficacia dell’ospedale. La CGIL coglie l’occasione, infine, mentre nel paese è in corso lo sciopero dei medici contro la manovra economica del governo, per sottolineare che le misure in essa contenute, dal blocco dei contratti al differimento dei pensionamenti, dal blocco delle assunzioni alla riduzione delle risorse per gli incarichi a tempo determinato non saranno d’aiuto per la soluzione dei problemi dell’Ospedale Ingrassia e della sanità più in generale.
Palermo lì 19/07/2010
Il Segretario: Mario Scialabba

lunedì 19 luglio 2010

IL CASO. Omertà di Stato

di Rita Borsellino Sono trascorsi diciotto anni dalla strage di via D’Amelio. Diciotto anni da quella di Capaci. Diciassette dalle bombe di Milano, Firenze e Roma. E ancora oggi non conosciamo la verità su quanto accaduto in quegli anni. Così come non sappiamo la verità sulle morti di Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, o perché Vincenzo Scarantino si sia autoaccusato di aver procurato l’autobomba che ha ucciso Paolo Borsellino e la sua scorta. La lista dei misteri potrebbe continuare ancora e a lungo. Di sicuro, sappiamo che lo Stato che commemora non è ancora riuscito a garantire la giustizia per i suoi giudici, i suoi poliziotti, i suoi cittadini assassinati. E sappiamo anche che c’è uno Stato che ha agito perché non si arrivasse alla verità sulle stragi di mafia, su un capitolo fondamentale della storia italiana. Lo sappiamo perché le cronache di questi anni ce l’hanno raccontato. La narrazione ha proceduto a scatti, tra fughe in avanti e flash back, tra rivelazioni tardive e menzogne a orologeria. Eppure, da questo racconto scombinato è venuta fuori pian piano la storia di una guerra tutta interna allo Stato. E, come in tutte le guerre, ci sono stati morti e feriti, eroi e traditori, nemici travestiti da amici. Adesso che conosciamo il canovaccio, è giunta l’ora di dare nome e cognome ai protagonisti e alla comparse di questa vicenda, restituendo a ciascuno il proprio ruolo. È vitale conoscere i nomi di chi ha depistato le indagini sulle stragi. Capire, per esempio, perché attorno alle parole di un pentito “anomalo” come Vincenzo Scarantino si sia costruito il grosso delle prime indagini su via D’Amelio. Bisogna ricostruire una volta per tutte quello che è successo subito dopo l’omicidio di Borsellino, dalla scomparsa dell’agenda rossa all’arresto di Totò Riina. C’è poi da chiarire il ruolo svolto dagli agenti di polizia Antonino Agostino e Vincenzo Piazza. Prima, è stato fatto credere che fossero morti per questioni private, poi che avessero partecipato nel ruolo di “cattivi” al fallito attentato dell’Addaura contro Giovanni Falcone. Ci sono voluti diciotto anni perché scoprissimo che i due giovani poliziotti all’Addaura c’erano realmente, ma per proteggere il giudice e non il contrario. Più o meno il tempo che è stato necessario ad alcuni autorevoli personaggi della politica e delle istituzioni per recuperare la memoria e parlare. Hanno parlato della presunta trattativa tra Stato e mafia e del fatto che Borsellino fosse a conoscenza di questa trattativa. Non mi è del tutto chiaro il motivo per cui ci siano voluti tutti questi anni per ricordare fatti così importanti. Di sicuro, chi sa tutta la verità, oggi, non ha ancora aperto bocca. Nell’attesa, sarebbe bene che lo Stato (il governo o chi per esso) chiarisca ai suoi cittadini alcune anomalie emerse negli ultimi mesi. Mi riferisco, innanzitutto, al deposito di Bagheria dove sono state lasciate marcire, tra muffa ed escrementi, le carte del “Gruppo Falcone-Borsellino”, ossia della prima indagine su Capaci e via D’Amelio, la stessa che ha ruotato intorno alle parole di Scarantino. Oggi, su quelle carte la magistratura sta lavorando alacremente per comprendere, per esempio, l’effettiva rilevanza delle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza e di Massimo Ciancimino. Ebbene, com’è possibile che uno Stato che vuole combattere la mafia possa permettere che topi e tarli facciano scempio di documenti così delicati e importanti? Com’è possibile che da quei documenti siano scomparsi gli identikit dei presunti killer di Capaci? Com’è possibile, poi, che quando i procuratori hanno chiesto ai servizi segreti le carte su Vito Ciancimino, si siano visti recapitare solo ritagli di giornale? Fatti del genere possono accadere solo per due ragioni: o per dolo, o per negligenza. In entrambi i casi, ci sono dei responsabili. E a questi lo Stato deve dare nomi e infliggere sanzioni. Ma nulla è stato ancora fatto. Di contro, l’ignavia istituzionale è venuta meno quando si è trattato di concedere la protezione a Spatuzza. Le tre procure (Palermo, Caltanissetta e Firenze), che stanno riaccendendo i riflettori sui misteri che hanno avvolto le stragi, credono a Spatuzza. Il Viminale, invece, ha trovato un cavillo per negargli il regime di protezione concesso ai pentiti. Come ha ben scritto Attilio Bolzoni, è come se gli avessero messo un sasso in bocca. E che dire, sempre per restare in tema di decisionismo politico, delle gravi ripercussioni sulle indagini che potrebbe avere la cosiddetta “legge bavaglio”? Senza dimenticare l’esultanza con cui, illustri esponenti della maggioranza e del governo, hanno salutato la condanna del senatore della Repubblica, nonché l’uomo chiave nella costruzione di Forza Italia e del Pdl, Marcello Dell’Utri, il quale, secondo la sentenza, è stato per trent’anni, anche nel periodo delle stragi, in stretto contatto con i boss mafiosi, fornendogli persino protezione. Sono queste “azioni” che mi fanno dire con convinzione che c’è uno Stato che non vuole arrivare alla verità sulle stragi di mafia. Uno Stato che sulle tombe di Falcone e Borsellino preferisce portare corone di fiori. Ma non la giustizia.
L’Unità, 19 luglio 2010

giovedì 15 luglio 2010

L'Espresso nel bunker della cricca

di Lirio Abbate e Gianluca di Feo Chi dopo Scajola, Brancher e Cosentino? Il toto dimissioni punta su Verdini, ma anche Bertolaso non è messo molto bene. Ecco la mappa dei clan che stanno smottando uno dopo l'altro, travolti dagli scandali
Ma l'amico... l'amico Lombardi è in grado di agire?". Al telefono Roberto Formigoni è supplichevole. Teme che la sua lista venga esclusa dalle elezioni e invoca l'intervento dell'"amico Lombardi": "Ti prego!". Ignora chi sia l'uomo di cui sta invocando il sostegno: un geometra che fatica a parlare in italiano e fa replicare alla supplica del governatore con un "dicitangill pure a chill amic tui su a Milan (diteglielo anche a quell'amico tuo su a Milano)". Eppure l'irpino Pasquale Lombardi, celebre nel suo giro per l'incapacità di sedere a tavola senza imbrattarsi di sugo ("Il nostro comune amico che quanno magna se sporca sempre..."), con il suo eloquio da Pappagone riusciva ad entrare in tutti i palazzi del potere. Il suo motto era semplice: "Arriviamo, arriveremo dove dobbiamo arrivare".
In Cassazione, nel ministero dell'Economia e in quello della Giustizia, nel Consiglio superiore della magistratura, nel Pirellone, nella presidenza della Sardegna, in ogni procura d'Italia, il geometra Lombardi trovava sempre le porte aperte. Snocciolava una serie di diminuitivi affettuosi - Fofò, Nicolino, Pinuccio, Giacomino - con cui si rivolgeva a sottosegretari, coordinatori di partito, governatori e procuratori della Repubblica. Fino a incontrare "Chillu cess' e Nicola", al secolo Nicola Mancino, vicepresidente del Csm e suo compaesano. E non era l'unico a godere di simili frequentazioni, intime e pericolose.
Democrazia limitata
In pochi mesi gli italiani hanno scoperto l'altro volto del potere: le cricche, termine antico che indica "un gruppo informale e ristretto di persone che condividono degli interessi". Aggiunge il dizionario: "Generalmente in una cricca è difficile entrarvi". Invece - grazie a quelle intercettazioni che il governo vuol mettere a tacere - di questi club esclusivi se ne sono emersi parecchi. Un'orda che si è infilata dovunque: hanno influito e interferito su ogni decisione importante degli ultimi dieci anni, dal Giubileo al G8, dalle nomine al vertice della magistratura alla designazione dei presidenti di Regione, dai processi nella Suprema corte al lodo Alfano. Centurie del malaffare, avversarie e alleate a seconda della posta in gioco e dei loro punti di forza, pronte a scambiarsi favori e tirarsi addosso dossier al veleno.
Deviazioni per tutti i gusti
Ogni cricca ha la sua specialità. C'è quella degli appalti, con Diego Anemone - geometra sconosciuto al pari di Lombardi - che riunisce a tavola e negli affari il capo della Protezione civile Bertolaso, il gran commis di tutte le opere pubbliche Balducci, il ministro Scajola e l'ex Lunardi, il coordinatore pdl Verdini, il cardinale Angelo Sepe, un alto magistrato e una sterminata lista di beneficiati eccellenti. C'è quella del riciclaggio scoperchiata dal pm Giancarlo Capaldo, tra traffici sulla telefonia e sospetti di narcotraffico, del pregiudicato romanissimo Gennaro Mokbel e del suo senatore Nicola Di Girolamo, che muovono tanto denaro da non riuscire a contarlo ed esclamare "c'avete rotto il cazzo co tutti sti milioni". C'è poi la rete su scala minore dei fratelli De Luca, imprenditori campani delle ferrovie, con parenti al Csm, agganci in Vaticano e intrallazzi al ministero delle Infrastrutture. E il sogno infranto di Giampi Tarantini, che era entrato nelle notti di Villa Certosa e Palazzo Grazioli, passando dai contratti della sanità pugliese alle holding internazionali come Finmeccanica. Senza dimenticare sullo sfondo la nebulosa di Why Not, la ragnatela di contatti messa a nudo dall'indagine di Luigi De Magistris: una mappa delle relazioni altolocate, senza risvolti penali ma comunque significative per capire cosa resta della democrazia.
Le regole dei clan
Scordatevi delle tessere o dei cappucci: elenchi massonici come nella vecchia P2 sono ricordi del passato. E quanto c'entri la massoneria nel diffondere questo contagio ancora non è chiaro, anche se l'aura dei liberi muratori circonda molti protagonisti tra Toscana e Sardegna. Pur senza gran maestri e gerarchie, come in un gioco di ruolo ogni cricca per funzionare richiede alcune figure specializzate. C'è il tesoriere, in genere un imprenditore, che sostiene le spese del gruppo. Il clan degli irpini poteva attingere ai capitali di Arcangelo Martino, ex assessore socialista napoletano diventato un ras delle forniture ospedaliere: sede legale a Lodi, base operativa nel Casertano e oltre cento Asl nel carniere. Con Formigoni ha un filo diretto e non solo con lui: sono in molti a scommettere che il prossimo filone riguarderà la sanità e sarà dirompente. La gang degli appalti invece usava i fondi di Anemone, costretto a sudare quattro camicie per ragranellare il cash prima di cene con Bertolaso e generoso nel finanziare le dimore di Scajola, di un generale del Sisde e di altre perdine ministeriali. Ma Anemone spesso pagava in natura, ossia faceva lavori a gratis o a prezzo di costo a tutta la Roma che conta. In più c'era la santa alleanza con il cardinale Angelo Sepe che aveva offerto il catalogo di Propaganda Fide, con case da sogno a prezzi modici. Tutte le consorterie cercavano un padre spirituale con mire materiali. Sepe era intimo di Balducci, Bertolaso e company ma avrebbe tenuto relazioni intense anche con Arcangelo Martino e viene chiamato a benedire un convegno dei magistrati sedotti dal geometra Lombardi. Molto attivo e trasversale monsignor Francesco Camaldo, cerimoniere del papa e delle raccomandazioni. Invece i fratelli De Luca si rivolgono al cardinale Fiorenzo Angelini, ben introdotto tra i parlamentari cattolici e nell'ufficio di Bertolaso "che ha aiutato moltissimo...".
L’Espresso, 15 luglio 2010

Diciotto anni dopo, Palermo non dimentica. Le iniziative per ricordare Paolo Borsellino

18 anni fa, Palermo ha assistito a stragi che hanno segnato in maniera indelebile la storia della Repubblica italiana. La nostra storia. 18 anni fa, le cittadine e i cittadini onesti di Palermo sono scesi in piazza per esprimere con forza lo sdegno contro la barbarie mafiosa. 18 anni fa alcuni di noi non erano nati, ma crescendo hanno saputo udire quel coro di gente onesta. E a questo coro si sono uniti. Per non dimenticare. Per non rendere vano il sacrificio di chi è morto per liberarci dalla mafia. Per chiedere Verità e Giustizia. Perché 18 anni fa, allo Stato e ai suoi cittadini onesti è stata dichiarata guerra. E come in tutte le guerre, ci sono stati tradimenti e nemici mascherati da amici. 18 anni dopo siamo ancora in piedi, ma vogliamo sapere chi ha vinto. 18 anni dopo, Palermo sarà in via D’Amelio per ricordare la strage, per commemorare Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta e per tornare a chiedere Verità e Giustizia. 18 anni dopo, Palermo non dimentica. 18 anni dopo. Non è finito tutto.


IL PROGRAMMA

17 luglio 2010
h 19:00 - Villa Filippina, Palermo
“Non è finito tutto”
(con Martin Schulz, Rita Borsellino, Antonio Ingroia, Vittorio Teresi e Sandro Ruotolo - a cura di Itaca)

18 luglio 2010
h 22:00 - Via D'Amelio, Palermo
Veglia “Le morti dimenticate. Fedeltà all’impegno.”
(a cura dei Gruppi AGESCI Piana degli Albanesi e Capaci 1)

19 luglio 2010
h 09:00 - Via D'Amelio
Animazione per Bambini
h 16:00 - Via D'Amelio
Letture per non dimenticare
h 16:58 - Via D'Amelio
Silenzio
h 17:30 - Via D'Amelio
Concentramento Corteo verso l'Albero Falcone
h 21:00 - Biblioteca Comunale, Palermo
Legami di Memoria (a cura di ARCI SICILIA)

Aderiscono:
Addiopizzo
AGESCI Capaci 1 e Piana degli Albanesi
ARCI
Arci Barcollo
Arci Blow Up
Arci Caracol
Arcigay
Centro Pio La Torre
Cepes
Comitato 19 Luglio
Il Quartiere
Itaca
Left
Libera
Movimento degli Universitari
Muovi Palermo
Piera Cutino
Ragazzi di Paolo
Rete degli Studenti
Ubuntu
Un'altra Storia
Zen Insieme

lunedì 12 luglio 2010

SS118, grande kermesse per l'inaugurazione del terzo lotto "Bifarera-Scalilli"

CORLEONE – Ieri pomeriggio, lungo il viadotto “Scalilli”, per l’inaugurazione del lotto di 6 Km della strada statale 118 Corleone-Marineo, c’erano i vertici dell’Anas, col presidente Pietro Ciucci e il direttore regionale Ugo Dibennardo, il presidente della Provincia, Giovanni Avanti, il ministro delle infrastrutture, Altero Matteoli, e il presidente del Senato, Renato Schifani. «Il tratto che apriamo oggi – ha affermato Ciucci – testimonia le capacità tecniche e professionali dell’Anas e l’efficacia del suo lavoro per il recupero del gap infrastrutturale nel Mezzogiorno, che è una urgenza per il nostro Paese». «Quest'anno – ha detto il ministro Matteoli - abbiamo inaugurato diverse strade in Sicilia, tra cui questa nel corleonese. Quindi, anche nell’Isola si comincia a vedere la realizzazione di infrastrutture di un certo livello». «Questa è un’opera importante – ha detto il presidente Avanti – che insieme all’ammodernamento della Corleone-Partinico potrà aprire nuove prospettive di sviluppo per quest’area interna della provincia». Soddisfazione ha espresso, infine, il presidente Schifani: «Oggi inauguriamo questo primo lotto – ha detto – ma dobbiamo realizzare anche gli altri quattro. Mi auguro fortemente che chiunque sarà chiamato ad intervenire faccia la propria parte. Chiedo fermamente, come seconda carica dello Stato, che tutte le forze e le autorità, gli organismi deputati ad esprimere pareri e a contribuire con suggerimenti, facciano la loro parte, perché è un dovere civico, morale, politico e istituzionale. Un dovere etico». «Esprimiamo grande soddisfazione – ha detto il sindaco di Corleone, Nino Iannazzo –per l’apertura di questo tratto di strada, che consentirà di migliorare, sensibilmente, la circolazione e la sicurezza stradale di questa arteria primaria di collegamento per lo sviluppo del Corleonese». «Questo lotto – ha detto un po’ fuori dal coro il sindaco di Marineo, Franco Ribaudo - da solo sarà una cattedrale nel deserto. Per avere senso bisogna realizzare, presto e bene, anche gli altri quattro. Ma ancora, dopo cinque anni, l’Anas non ha provveduto ad acquisire i prescritti pareri. Per accelerare le procedure, propongo che si convochi una specifica conferenza di servizio con tutti gli enti interessati». Ironico, infine, l’on. Totò Lentini, deputato Mpa all’Ars: «Per la cerimonia di apertura di un breve tratto stradale, lungo neppure 6 km, abbiamo avuto l'onore di vedere tutte le autorità possibili ed immaginabili, ivi compresa la seconda carica dello Stato. Neanche si trattasse dell'inaugurazione dell'intera strada!».
Dino PaternostroFOTO. Da sinistra: il sindaco di Corleone, Nino Iannazzo; il sindaco di Monreale, Filippo Di Matteo; il presidente della provincia regionale di Palermo, Giovanni Avanti; il presidente del consiglio comunale di Corleone, Mario Lanza; il presidente del senato, Renato Schifani; il ministro delle infrastrutture, Altero Matteoli; il presidente dell’Anas, Pietro Ciucci; il deputato dell’Ars, Salvino Caputo;

Totò Parisi, in coppia con Mario Tumminello, domina e vince il Rally "Valle del Sosio"

Totò Parisi con la sua Puegeot 207 ha vinto, in coppia con Mario Tumminello, il 7° Rally della Valle del Sosio, con il tempo di 45’19”. Al secondo posto, con la Mitsubishi Evo IX, Renato (Cristoforo) Di Miceli, in coppia con Vincenzo Verga, con il tempo di 46’ 11”. Al terzo posto, sempre con una Mitsubishi Evo IX, Giovanni Cutrera e Valentina Di Palermo con il tempo di 57’1”. Due quindi gli equipaggi corleonesi classificatisi alle spalle di Totò Parisi, che ha dominato l’intera gara. Nel prologo di sabato era stato un altro corleonese, Franco Vintaloro, a dare spettacolo nella prova di contrada Rizza, entusiasmando gli appassionati presenti e facendo ben sperare per la gara ufficiale del giorno dopo. Ma il grande Totò Parisi, ancora una volta, ha beffato tutti con una guida tutta tecnica e tattica, che ha alla fine avuto la meglio. Ottima la gara di Renato Di Miceli, che, in coppia con Vincenzo Verga, è stato staccato di un minuto e di una manciata di secondi. Il 7° Rally della Valle del Sosio è valido per lo Challenge dell’ottava zona ed è stato organizzato dall’Unione dei Comuni della Valle del Sosio (Chiusa Sclafani, Palazzo Adriano, Giuliana, Bisacquino, Prizzi), dal CONI Sicilia, dall’Assessorato Regionale Turismo Sport e Spettacolo, dall’ACI CSAI, dalla Provincia Regionale di Palermo, con la supervisione di Italia Grandi Eventi. Gli equipaggi iscritti alla gara sono stati 95, di questi 80 le auto “dell’ultima generazione” e 15 le auto storiche. Grande successo per il numero di iscrizioni. I chilometri di gara sono stati 72, mentre le prove speciali sono state 11. La partenza, dopo le verifiche ufficiali, è avvenuta da Bisacquino alle ore 18,24 di sabato 10 giugno, con la prima mini prova ufficiale di contrada Rizza, presso la zona industriale di Chiusa Sclafani. Ieri il via alla gara vera e propria con le prove Prizzi - Santa Venera (ripetuta due volte) e Sant’Anna-San Carlo (anch’essa ripetuta 3 volte). Bilancio più che positivo per la Island Motorsport che, al termine della gara, è stata insignita della Coppa Scuderie. Il sodalizio siculo, infatti, festeggia il terzo gradino del podio ottenuto dal giovane binomio composto dai corleonesi Giovanni Cutrera e Valentina Di Palermo (Mitsubishi Lancer Evo IX di Bernini), autori di una performance pulita e regolare. Da registrare anche la quinta posizione assoluta dei compagni di squadra Placido Palazzo e Antonio Patella. Un bilancio positivo per gli organizzatori. Lungo il percorso,infatti decine di migliaia gli spettatori che hanno seguito una gara, che ancora una volta ha entusiasmato e fatto convergere nei comuni della Valle del Sosio, entroterra del palermitano, migliaia di turisti.
Cosmo Di Carlo
FOTO: Totò Parisi con la sua Puegeot 207
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Classifica finale 7° Rally Valle del Sosio
1. Parisi-Tumminello (Peugeot 207 S2000) in 45’19”9; 2. Di Miceli-Verga (Mitsubishi Lancer Evo 9) a 51”3; 3. Cutrera-Di Palermo (id.) a 57”1; 4. Mistretta-Cangemi (Renault New Clio R3) a 1’10”1; 5. Palazzo-Patella (id.) a 1’32”2; 6. Callivà-Troia (Ford Escort Cosworth) a 1’48”1; 7. Sicilia-Cambria (Peugeot 207 S2000) a 1’50”3; 8. Lunardi-Ranno (Subaru Impreza) a 2’42”9; 9. Di Giorgio-Di Giorgio (Renault New Clio R3) a 2’57”9; 10. “Oettinger”-Valmossoi (Skoda Fabia S2000) a 3’55”9.

sabato 10 luglio 2010

Corleone. Sarà inaugurato lunedì prossimo il terzo lotto della SS 118 nel tratto Bifarera-Scalilli

CORLEONE – Una manifestazione in grande stile quella di lunedì prossimo, per l’apertura al traffico dei circa sei chilometri “ammodernati” della SS 118 “Corleonese-Agrigentina”, nel tratto Bifarera-Scalilli. Saranno presenti, infatti, il presidente dell’Anas, Pietro Ciucci, e il direttore regionale, Ugo Dibennardo, il presidente della Provincia, Giovanni Avanti, il presidente della Regione, Raffaele Lombardo, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altiero Matteoli, e il presidente del Senato, Renato Schifani. La cerimonia avrà inizio alle ore 17.00, presso il viadotto “Scalilli”, al km 22,000 della SS 118, con gli interventi previsti in scaletta, quindi sarà l’arcivescovo di Monreale, monsignor Salvatore Di Gristina, a benedire l’opera, prima del tradizionale taglio del nastro. Quello che sarà inaugurato lunedì rappresenta il terzo dei cinque lotti del progetto di ammodernamento complessivo del tratto Corleone-Marineo della SS 118. Tra il 2004 e il 2005 l’opera aveva provocato polemiche e divisioni tra l’amministrazione comunale di Corleone, guidata dal sindaco Nicolò Nicolosi, che voleva l’ammodernamento della strada “senza se e senza ma”, e le associazioni ambientaliste, riunite nel Forum “Salviamo Ficuzza”, che l’avversavano perché avrebbe distrutto un biotopo naturale di inestimabile valore. Posizioni estreme, superate col buonsenso nel 2005. Allora, in un convegno promosso dal Rotary Club, con la partecipazione dei tecnici dell’Anas, di Renato Schifani e di Giuseppe Lumia, fu deciso di partire col terzo lotto e di rimodulare gli altri quattro, per renderli conformi alle normative di salvaguardia ambientale. Espletata la gara d’appalto, i lavori del terzo lotto erano stati consegnati nel luglio 2008 all’associazione temporanea d’imprese Tecnis spa - Cogip srl - Si.ge.nco spa, di Tremestieri Etneo, in provincia di Catania, per l´importo contrattuale di 13.556.234,50 di euro. I, circa due anni, l’Ati ha provveduto ad allargare la carreggiata (dai 7 metri della vecchia strada ai 9,5 metri dell’attuale), ad eliminare le curve pericolose e le pendenze eccessive, a razionalizzare gli svincoli (in particolare quello di “Tagliavia”) e ad adeguare le barriere di sicurezza. In quest’ambito, è stato realizzato il viadotto “Scalilli”, lungo 140 metri. Il costo complessivo dei cinque lotti dell'opera agli inizi del 2000 era stato preventivato in 100 milioni di euro. L’Anas aveva appaltato il terzo lotto, perché era l’unico ad avere tutti i visti di approvazione. Gli altri quattro lotti, invece, che interessavano la riserva naturale di Ficuzza e di Gorgo del Drago, dovevano essere rimodulati per superare le osservazioni della Soprintendenza ai beni ambientali e dell’Assessorato Agricoltura e Foreste. Ancora non si sa se, in questi anni, l’Anas abbia provveduto alla rimodulazione dei quattro lotti rimanenti e se il finanziamento, dati i tempi di crisi, siano ancora disponibili. Sicuramente notizie al riguardo si avranno nel corso della manifestazione di lunedì.

L’ammodernamento della SS 118 è una delle infrastrutture viarie attese da decenni dalle popolazioni della zona del Corleonese, che scontano un isolamento dai grandi assi viari della Sicilia occidentale. Avere completato questo lotto è importante, ma non bisogna fermarsi. Occorre realizzare gli altri cinque lotti e l’ammodernamento della strada provinciale Corleone-S.Cipirello-Partinico.
Dino Paternostro